PONTIFICIA UNIVERSITAS A S. THOMA AQ.
IN URBE
FACULTAS THEOLOGIAE
LA
DOTTRINA DELLE VIRTÙ
NELL’INSEGNAMENTO
DI
SANTA
CATERINA DA SIENA
DISSERTAZIONE
DOTTORALE
di Angelico Zoltán Stift
Relatore: Dott. Prof.
INNOCENZO VENCHI o.p.
ROMA
ANNO ACCADEMICO 1999 -
2000
«Io
spero, per Cristo crocifisso, ogni cosa potere, e perseverare infino
alla fine con fidelità»1
PREFAZIONE
Con questo lavoro si cerca di dare un
contributo allo studio dell’insegnamento di Santa Caterina da
Siena, Dottore della Chiesa, patrona d’Europa: si tratta del tema
delle virtù e la tesi è chiamata a dimostrare come la dottrina
cateriniana delle virtù indichi la via da percorrere agli uomini di
ogni tempo, anche a noi che stiamo vivendo il tempo del Grande
Giubileo del 2000, e questa via è Cristo crocifisso che «è il
medesimo ieri e oggi ed è anche per i secoli»2.
Mi sia lecito esprimere in questa sede
un sentito ringraziamento a quanti mi hanno aiutato nel corso della
stesura e della redazione definitiva di questa dissertazione. Sono
grato al mio vescovo, Mons. István Konkoly, che mi ha concesso la
possibilitá di questo studio sulla Santa di Siena. Sono pur grato al
Prof. Innocenzo Venchi che ha accettato l’impegno di relatore della
tesi, e sotto la cui guida è stata condotta questa dissertazione. Lo
ringrazio molto per avermi incoraggiato lungo il cammino con paterna
sollecitudine e paziente verifica. Un grazie particolare va alla
Prof.ssa Giuliana Cavallini che è stata sempre disponibile per ogni
consultazione relativa all’argomento della tesi, la cui
elaborazione ha seguito con attenzione materna. Vorrei ringraziare in
modo speciale István Diós e i suoi collaboratori – che 20 anni fa
hanno eseguito il grande lavoro di traduzione del Dialogo,
delle Lettere e della Legenda – per avermi offerto la
possibilità di consultare la Biblioteca Pálos di Budapest e per
avermi aiutato nella comprensione del pensiero di Santa Caterina con
suggerimenti preziosi. Nello stesso tempo sono grato a tutte quelle
persone che mi hanno sostenuto con i loro consigli e con la loro
preghiera.
Szombathely, 1o gennaio 2000
1Lett.,
150. p. 1391
2Eb
13,8
SIGLE E
ABBREVIAZIONI
a. articolo
Ap Apocalisse
CCC Catechismo
della Chiesa Cattolica
C.N.S.C. Centro
Nazionale dei Studi Cateriniani
cfr confronta
Col Lettera
ai Colossesi
Cor Lettera
ai Corinti
Ct Cantico
dei Cantici
d. divisione
Dial. S.
Caterina da Siena, Il
Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina,
a cura di G.
Cavallini, Cantagalli, Siena (1995). [Con
i numeri romani vengono indicati i capitoli del Libro.]
DS. H.
Denzinger - A.
Schönmezer, Enchridion
Symbolorum, Definitionem et Declartionem de rebus fidei et morum.
Eb Lettera
agli Ebrei
ecc. eccetera
Es Esodo
EV Giovanni
Paolo II, Lett. enc.
Evangelium vitae.
Fil Lettera
ai Filippesi
Gal Galati
Gc Lettera
di Giacomo
Ger Geremia
Gn Genesi
GrS Giovanni
Paolo II, Lettera alle
Famiglie Gratissimam
sane.
GS Conc.
Ecum. Vat. II, Const.
past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes.
Gv Giovanni
Ibid. Ibidem
Lett. S.
Caterina da Siena,
Le lettere, a cura di
U. Meattini, Paoline, Roma, (1987).
[Il numero arabico
si riferisce al numero della lettera secondo la numerazione
consueta.]
LG Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen Gentium
Lc Vangelo
secondo Luca
Mal. S.
Tommaso d’Aquino,
De Malo.
Mc Vangelo
secondo Marco
n. numero,
numeri
op.
cit. opera citata
Oraz. S.
Caterina da Siena,
Le orazioni di S. Caterina da Siena, a
cura di G. Cavallini, Cantagalli, Siena, (1993).
[Con il numero
romano viene indicato il numero della preghiera.]
p. pagina,
pagine
q. questione
Rm Lettere
ai Romani
Sap Libro
della Sapienzia
sec. secolo,
secoli
Sent. S.
Tommaso d’Aquino,
Scriptum super
Sententiis Magistri Petri Lombardi.
sg. seguente,
seguenti
Sir Siracide
ST S.
Tommaso d’Aquino,
Summa Theologhiae.
Tm Lettera
a Timoteo
Verit. S.
Tommaso d’Aquino,
De Veritate.
Vita B.
Raimondo da Capua,
Santa Caterina da
Siena. Legenda Maior,
tradotta dal P G. Tinagli, Cantagalli, Siena, quinta edizione,
(1994).
vol. volume
VS Giovanni
Paolo II, Lett.enc.
Veritatis splendor (6
agosto 1993), in AAS
85 (1993).
† deceduto
Le
citazioni bibliche sono state prese dalle seguenti edizioni:
La
Sacra Bibbia, Salani,
Firenze, (1957)
Bibliorum
Sanctorum iuxta Vulgatam Clementinam,
Typis Polyglottis Vaticanis, (1979)
«nella
bocca tua stia il silenzio o uno santo ragionamento della virtù,
spregiando il vizio»1
Introduzione
Santa Caterina nacque a Siena il 25
marzo del 1347, Domenica delle Palme e festa dell’Annunciazione,
Capodanno secondo il calendario senese. Ella era la ventiquattresima
figlia gemella di Jacopo Benincasa e Lapa de’ Piagenti. A 6
anni cominciarono le sue esperienze mistiche, che continuarono per
tutta la vita. Il 1354 fu l’anno del voto di verginità, col quale
Caterina si offrì a Dio, tramite la beata Vergine Maria. Nel 1363,
per rendere più salda la sua donazione a Dio, Caterina ottenne
l’abito delle sorelle della Penitenza del beato Domenico. Per tre o
quattro anni condusse una vita eremitica nella casa paterna e questo
periodo del tacere si concluse nel 1367 con le mistiche nozze nella
Fede. Il 1° aprile 1375, in Pisa ricevette le stimmate della
passione; e negli ultimi sei anni di vita il suo unico alimento fu
l’Eucaristia. Dopo aver lasciato la cella (secondo il comando di
Cristo) lavorò e pregò intensamente per il Papa, per la Chiesa, per
la pace. Una testimonianza rilevante di questo suo «lavorio» sono
le Orazioni. Fece assistenza ai malati nei vari ospedali,
diede soccorso ai poveri e a quanti erano bisognosi di aiuto. Intanto
si formava intorno a lei una «famiglia» di discepoli: uomini e
donne, ecclesiastici, religiosi e laici, che le chiedevano una guida
nelle vie dello spirito. In questo contesto nacquero l’Epistolario
ed il Dialogo. Questa «attività» la consumò talmente che
morì a Roma, il 29 aprile del 1380, all’età di 33 anni. La sua
biografia (la cosiddetta Legenda maior) è stata scritta dal
suo confessore e padre spirituale, beato Raimondo da Capua. Pio II
dichiarò Caterina santa nel 1461.
Questa santa medievale ha qualche
attualità nella Chiesa? L’influsso di Caterina dal quattordicesimo
secolo fino ai nostri giorni è un dato storico, continuo ed
incontrovertibile2.
Un segno significativo al riguardo è che Caterina ha avuto
riconoscimenti più alti da parte della Chiesa proprio in questo
nostro secolo: è diventata conpatrona di Roma, patrona delle donne
cattoliche, delle infermiere cattoliche, patrona primaria d’Italia
con S. Francesco e, ultimamente, il più singolare onore
tributatole è il titolo di Dottore della Chiesa: il 4 ottobre 1970 è
stata proclamata Dottore della Chiesa universale per
decreto3
di Paolo VI. Questa proclamazione significa che le sue opere possono
essere ormai considerate come un nuovo «locus teologicus»4,
sulle quale può basarsi la riflessione teologica. Mentre ci sono
scrittori che sanno di vecchio dopo vent’anni, la parola di
Caterina è viva e attuale, a distanza di sei secoli, non ha niente
di appassito, di tramontato5:
la santa di Siena è ancora oggi una maestra di fede e di vita
cristiana.
Lo stesso Paolo VI ammonisce che
l’uomo contemporaneo ascolta i maestri solo se sono nello stesso
tempo testimoni6.
A questo punto troviamo una nuova ragione per ritenere Caterina
un’autrice «moderna». La dottrina della vergine senese è
inscindibile dalla sua testimonianza di vita: Caterina è stata una
santa, ha insegnato quello che ha vissuto. «La realtà
della fede» – scrive la prof.ssa Cavallini – «è qualche cosa
di intimamente, inalienabilmente suo: è la sua stessa vita.»7
Caterina, risulta una buona discepola del divin Maestro che ci ha
dato la dottrina «per esemplo più che per parole; anco prima fece
che egli dicesse»8.
Con la sua fede vissuta, la santa invita a superare la dicotomia che
separa la fede dalla morale e talvolta caratterizza pure il cristiano
moderno9.
La più rilevante caratteristica della
santa senese è la sua esperienza mistica che è la fonte
principale della sua scienza:
E
se è vero che nei suoi scritti si riflette, e in misura
sorprendente, la teologia dell’Angelico Dottore, essa vi compare
però spoglia di ogni rivestimento scientifico. Ciò invece che più
colpisce nella Santa è la sapienza infusa, cioè la lucida, profonda
ed inebriante assimilazione delle verità divine e dei misteri della
fede, contenuti nei Libri Sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento:
una assimilazione, favorita, sì, da doti naturali singolarissime, ma
evidentemente prodigiosa, dovuta ad un carisma di sapienza dello
Spirito Santo, un carisma mistico10.
L’uomo moderno, che è stanco delle
ideologie atee e della vita priva di ogni valore religioso, cerca il
fondamento della sua esistenza, ha una quasi insaziabile fame di
tutto quello che trascende i limiti delle scienze positive e del
mondo materiale. L’uomo di oggi spesso placa questa fame con una
mistica falsa. Pensiamo soprattutto all’inquietante fenomeno della
New Age, una così vaga e indeterminata religiosità che non ha
niente a che fare con il vero culto di Dio. Per superare l’illusione
della pseudomistica, ci dà aiuto Caterina con la sua mistica
autentica. Una mistica che mira alla trasformazione dell’anima in
Dio, ma si realizza per l’unione con Cristo crocifisso, unico
Salvatore. Una mistica sfociante nella sequela del Verbo incarnato
che si è fatto via della verità per portarci la vita.
Essendo un’autrice mistica, Caterina
comprende e si esprime in modo intuitivo. Questa
caratteristica non facilita certo l’interpretazione scientifica del
suo insegnamento, tuttavia l’intuizione comporta un grande
vantaggio: offre una visione unificante. Oggi, quando prevale la
conoscenza speciale, magari perdutasi nelle particolarità, abbiamo
bisogno – più che mai – di una visione sintetica della realtà,
poiché solo una tale prospettiva è capace di guidare la vita.
Usando il linguaggio mistico Caterina
risulta una buona maestra che comunica sempre basandosi sulla
fantasia dei suoi «allievi». Negli scritti di Caterina infatti si
trovano delle immagini stupende, molto espressive e reali che
si riferiscono alle verità divine11.
San Tommaso già afferma che è conveniente che le realtà spirituali
vengano presentate sotto immagini corporee, poiché è naturale
all’uomo elevarsi alle realtà intelligibili attraverso le realtà
sensibili in quanto ogni nostra conoscenza ha inizio dai sensi12.
Evidentemente le verità intelligibili superano la limitatezza della
fantasia, tuttavia anche ciò che conosciamo per rivelazione viene
contemplato nelle immagini13.
Le immagini applicate da Caterina danno un’attualità speciale alla
sua dottrina per un fatto paradossale. Da una parte infatti il mondo
moderno è pieno di figure, dall’altra l’uomo di oggi non adopera
le figure. Mentre viviamo nel mare delle immagini (vedi la
televisione, le indicazioni all’aeroporto, le icone del «Windows»
ecc.) la nostra fantasia si svuota e sta morendo. L’uomo di oggi ha
perso la sua capacità di immaginare, anche se il pensiero umano ha
bisogno di una qualche forma di rappresentazione. Dove non c’è
nessuna immagine si volatilizza anche la fede vivente14.
Se vogliamo comprendere che cosa è la fede con cui vivere, la
libertà, la virtù, allora le immagini sono necessarie. A questo
punto ci aiuta Caterina con le sue figure che non bloccano ma nutrono
l’immaginazione umana. Queste immagini elevano la nostra mente alla
conoscenza delle realtà che a un tempo suppongono e superano
l’immaginazione.
Questa buona maestra allora «è
autrice di un corpo di solide riflessioni teologiche sulle verità
perenni contenute nella rivelazione»15.
Gli scritti cateriniani – il Dialogo, le Lettere e le
Orazioni – in quanto colgono l’essenza delle cose,
piuttosto che i loro mutevoli aspetti esteriori, possono essere
intesi senza eccessiva difficoltà16.
Cionostante non si può prescindere del tutto dal contesto culturale
e dall’ambiente storico in cui sono cresciute le idee di Santa
Caterina, né si possono dimenticare le fonti a cui attingeva.
Diamo uno sguardo rapido alle origini
delle tre opere. Il Dialogo, cioè il Libro della Divina
Provvidenza, è un sommario della dottrina cateriniana, perciò può
aiutare a comprendere le altre due opere17.
Il Beato Raimondo, confessore e biografo di Santa Caterina, il più
autentico testimone della nascita di questa opera, ci fa conoscere
l’origine del Dialogo18.
Caterina dettava il Dialogo stando in estasi e i suoi
discepoli lo scrivevano, per questo dice Raimondo che il Libro
«fu composto non per alcuna virtù naturale, ma per virtù dello
Spirito santo, che operava in lei»19.
Vediamo il contesto storico della nascita del Libro20,
che è un vero «dialogo», non solo fra Dio e Caterina, ma fra Dio
e tutti gli uomini chiamati a un dialogo libero con Dio21.
Caterina va ad Avignone il 18 giugno 1376 e ottiene il ritorno della
Santa Sede a Roma, dopo oltre settant’anni di assenza. Il 13
settembre Gregorio XI con la corte papale e Caterina con i suoi
discepoli lasciano Avignone. Il 17 gennaio 1377, dopo un viaggio
ostacolato dal maltempo e da contrasti umani, Gregorio XI entra in
Roma, accolto dal popolo con manifestazioni di esultanza. Sul finire
dell’estate, Caterina si sposta a Rocca d’Orcia per una missione
di pace: la riconciliazione di due rami nemici dei Salimbeni e il
risanamento morale e spirituale della popolazione che selvaggiamente
partecipa all’odio e alla violenza dei signori. Qui riceve quella
straordinaria illuminazione sulla verità che tradurrà poi nel
Dialogo. Caterina va a Firenze per ordine del Papa nel
dicembre del 1377 e vi rimane fino a pace ottenuta, cioè, fino al
luglio del 1378. Gregorio XI muore il 27 marzo del 1378, e Urbano VI
viene eletto il 9 aprile del medesimo anno. Dopo la sua missione a
Firenze Caterina torna a Siena, dove completa la stesura del Dialogo
ai primi di ottobre. La data di composizione quindi deve collocarsi
dal dicembre 1377 (l’esperienza mistica di Rocca d’Orcia)
all’autunno 1378.
Il Libro è diviso in
centosessantasette capitoli. Questa divisione non proviene
dall’autrice stessa ma si trova già nei codici più antichi e nel
maggior numero dei casi è stata fatta abbastanza bene anche dal
punto di vista teologico. I successivi raggruppamenti in parti più
grandi hanno creato problemi per il fatto che il testo ha la natura
di un vero e vivo dialogo, piuttosto di un lavoro scientifico.
Pensiamo alla infelicissima divisione in quattro trattati. Questa
divisione, che caratterizzava le edizioni del Dialogo nel
corso degli ultimi quattro secoli, ha ostacolato la comprensione
dell’opera nella sua unità fino a trent’anni fa quando la
prof.ssa Giuliana Cavallini ha trovato lo schema autentico del
Dialogo. Questo schema segue la struttura intera del Libro,
secondo cui ogni unità contiene una petizione, una risposta da parte
del Signore e il ringraziamento di Caterina; sì che il testo si
articola in dieci unità: proemio; la dottrina della perfezione,
dialogo; la dottrina del ponte; la dottrina delle lagrime; la
dottrina della luce; il corpo mistico della santa Chiesa; la
Provvidenza divina; obbedienza; conclusione.
Benché cronologicamente la nascita
delle Lettere preceda, accompagni e segua la compilazione del
Dialogo, dal punto di vista puramente contenutistico si può
dire che le Lettere traducono la dottrina del Libro nei casi
particolari. Le singole lettere sono state scritte dal 1370 fino
circa al 138022,
poiché l’Epistolario ha avuto inizio poco dopo che Caterina
ha lasciato la solitudine della cella per attuare l’amore di Dio
nell’amore del prossimo, ed è finito poco prima della morte della
santa. Le lettere sono state indirizzate alle persone di ogni stato
sociale per dare aiuto spirituale, per incoraggiare o ammonire,
nonché «per obbedire al comando di Cristo, di intervenire nella
battaglia politica, nell’organizzazione della crociata, per portare
pace e specialmente per spingere il pontefice a tornare alla sua
Roma»23.
La maggior parte delle lettere è stata dettata da Caterina ai suoi
segretari e soltanto pochissime sono state redatte di sua mano dopo
aver imparato a scrivere prodigiosamente nell’autunno del 1377 a
Rocca d’Orcia. Per quanto riguarda le raccolte dell’epistolario
della santa, sappiamo che, ancora durante la vita di Caterina, i
discepoli cominciarono a conservare e scambiare tra di loro alcune
copie delle Lettere per edificazione spirituale. Dopo
la morte della santa senese nacquero naturalmente delle collezioni
più complete. Queste lettere raccolte - prescindendo da quelle
pochissime originali che abbiamo - sono state conservate e tramandate
a noi in manoscritti. Fra i primi collezionisti vi erano i segretari
e discepoli stessi di Caterina (per esempio: ser Cristofano di Gano
Guidini, Neri di Landoccio Pagliaresi, Stefano di Corrado Maconi,
frate Tommaso d’Antonio, nonché B. Raimondo). Tutto sommato di
tutta la corrispondenza della Santa oggi abbiamo trecentoottantuno
lettere intere e qualche frammento.
Le Orazioni sono le parole
della preghiera contemplante di Santa Caterina, raccolte dalle labbra
della santa dai discepoli fra l’estate 1376 e l’inverno del 1380.
La prof.ssa Cavallini scrive, nell’introduzione dell’edizione
critica delle Orazioni, che la loro singolare importanza sta
appunto nel fatto che «esse non furono dettate, non furono
estensione epistolare del colloquio di Caterina con gli uomini, né
la trasmissione di un divino messaggio, ma la effusione del suo animo
amante nella intimità con lo Sposo divino»24.
Quali sono state le fonti della
scienza di Caterina? Tentiamo di stabilirle, perché aiutano a capire
il modo di esprimersi, le concezioni e le immagini della Santa
stessa. Dobbiamo distinguere le fonti soprannaturali da quelle
secondarie, umane. Abbiamo già detto che la fonte principale di
Caterina è stata il suo rapporto mistico e immediato con la Fonte di
ogni sapienza, in quanto ha imparato direttamente dal Signore. Egli
stesso «impresse profondamente nell’anima della santa alcune
verità fondamentali [...] che, senza quella diretta illuminazione
avrebbero potuto rimanere ai margini del suo spirito»25.
Il Beato Raimondo racconta che Cristo «non volendo lasciare una
pecorella sì nobile senza pastore e guida, e una discepola sì
diligente senza un bravo maestro, non un uomo né un angelo le
assegnò, ma le diede se stesso». E continuando scrive così
Raimondo, padre spirituale della Santa:
Mentre nel segreto della
confessione mi raccontava tali cose, mi disse queste precise parole:
«Padre mio, tenete come verità certissima che nulla, di quanto
riguarda la via della salute, mi è stato insegnato o da un uomo o da
una donna, ma precisamente dallo stesso Signore Maestro, Sposo
prezioso e dolcissimo dell’anima mia, il Signore Gesù Cristo, sia
per mezzo della sua ispirazone oppure parlandomi, come io ora parlo a
voi, in una chiara apparezione»26.
Senza questo ammaestramento divino non
si spiega la profondità e la sicurezza della dottrina cateriniana.
Per l’unione mistica con Dio, l’anima si trasforma in Dio,
talmente che «non può pensare intendere e amare se non Iddio, e non
può aver presente altro che Iddio. [...] Le succede dunque come a
colui che s’immerge nel mare e nuota sott’acqua: non vede né
tocca che l’acqua, e quello che sta nell’acqua»27.
Tal’anima comprende sé stessa e le altre creature nella luce
dell’insegnamento divino. Così è successo nel caso della nostra
santa. La sua mente straordinariamente illuminata dalla luce divina
ha assorbito quel che ha ricevuto dal di fuori: esperienze di vita,
insegnamenti teologici e cognizioni culturali.
Cercando le fonti umane alle quali la
santa attingeva, ci troviamo davanti un compito più difficile. Non è
necessario però entrare nelle particolarità del complesso problema
dei fonti28,
basta accettare le conclusioni solide degli altri autori. Quasi tutti
sono d’accordo29
che Caterina è vissuta prevalentemente in un ambiente domenicano,
come pure ha avuto vicino a sé religiosi di altri ordini e molti
laici «che portavano al cenacolo cateriniano ciascuno una
determinata formazione culturale»30.
Negli scritti cateriniani si trovano molti riferimenti ai testi
liturgici, altre reminiscenze bibliche e patristiche, ed anche
immagini o pensieri di poeti. Benché si consideri questa ricchezza
di influssi, nondimeno si possono stabilire due indiscutibili e
fondamentali pilastri dell’insegnamento cateriniano che sono da una
parte i Vangeli e le Lettere di San Paolo31,
dall’altra la dottrina tomista32.
Nello stesso senso ha parlato Paolo VI delle radici della dottrina
cateriniana quando, nella sua omelia sopra citata, ha sottolineato
l’eminenza di quella.
Dopo questa breve considerazione delle
fonti vorremmo sottolineare la profonda affinità della dottrina
cateriniana con quella tomista riconoscendo che l’esperienza
mistica di Caterina è conforme alle speculazioni sistematiche di
Tommaso, poiché – come afferma T. Centi – Caterina ha rivissuto
a suo modo le idee esposte da Tommaso, traducendole in immagini33.
Tutto ciò comporta che la teologia dell’Aquinate può servire per
un’adeguata comprensione dell’esperienza mistica di Caterina34.
La ricchezza degli «scritti» della
Santa ci offre tanto materiale per l’indagine. Con questo lavoro si
sceglie la dottrina delle virtù, un argomento importantissimo
nei riguardi della teologia morale.
L’attualità della questione la
prova il fatto che non pochi moralisti contemporanei dimostrano la
plausibilità di una «teologia morale delle virtù»35.
E questo «ritorno all’etica della virtù sia di tipo aristotelico,
sia di tipo tomista, è segno di speranza anche oggi per il
rinnovamento della vita morale nel mondo contemporaneo e nella
chiesa»36.
La letteratura scientifica
sulla dottrina di Santa Caterina da Siena è vastissima; sono stati
realizzati parecchi studi anche sulle singole virtù (come il
discernimento, la fede, l’amore, l’obbedienza), tuttavia può
essere utile un lavoro che miri a trattare globalmente l’insegnamento
cateriniano delle virtù37.
Che cosa ci insegna delle virtù
Caterina che viene chiamata da Beato Raimondo «magistra virtutum»38?
Qual è il ruolo delle virtù sul cammino dell’uomo libero verso il
proprio fine soprannaturale, che è l’unione con Dio Uno e Trino?
Per rispondere non vogliamo trattare tutti gli argomenti riguardanti
o analizzare ogni brano concernente. (Chi ha una familiarità con i
testi cateriniani sa bene che non sarebbe neanche possibile
raccogliere in duecento pagine tutto quello che la Santa ha detto
della virtù, giacché tutto l’insegnamento cateriniano è
compenetrato dei riferimenti alle virtù.) Cerchiamo invece l’essenza
della dottrina delle virtù in Caterina esaminando i punti
chiave di tale dottrina e offrendo una panoramica al riguardo.
Gli scritti di Caterina costituiscono
l’oggetto materiale del mio studio, che indagherà la loro coerenza
intrinseca. Affiderò alle note le informazioni utili per illuminare
i concetti e la dottrina di Caterina e, in alcuni casi, S. Tommaso,
poiché anche nei riguardi delle virtù39
«le due grandi anime [Caterina e Tommaso] sembrano fatte per
completarsi a vicenda»40.
Notiamo che, pur avendo ben presente
il filo logico delle idee, non è possibile evitare del tutto le
ripetizioni; a causa della natura degli scritti di Santa Caterina gli
stessi argomenti ritornano più volte, benché sotto aspetti diversi.
La divisione del lavoro si
forma secondo i «punti chiave» dell’argomento tenendo presente la
logica dello stesso pensiero cateriniano, come pure gli aspetti verso
i quali l’uomo di oggi ha una impressionabilità particolare.
Nel primo capitolo partendo
dall’antropologia cateriniana arriviamo al concetto della virtù, e
diamo un esame piuttosto generale delle virtù. Viene analizzata il
fatto che l’uomo è una «creatura che à in sé ragione», creata
ad immagine e similitudine di Dio creatore, e così la sua vocazione
supera quella di ogni altra creatura. L’uomo è chiamato a vivere
in amicizia con Dio. Le «vere e reali virtù» sono quelle che
rendono possibile e nello stesso tempo realizzano quest’ amicizia
soprannaturale. In questo capitolo consideriamo ancora il rapporto
tra le virtù e la libertà. All’inizio della storia infatti
l’abuso della libertà ha reso l’umo schiavo del peccato
facendogli perdere l’abito nuziale delle virtù. Per poter
riacquistare le virtù (innanzitutto l’amore divino) é necessaria
la liberazione da parte di Cristo, il vero ed unico liberatore
dell’umanità.
Nel secondo capitolo cerco di
sottolineare rispetto alle virtù la specificità dell’insegnamento
cateriniano, che troviamo nella dottrina di Cristo crocifisso in
quanto a lui si ascrive la forte appartenenza delle «vere e reali
virtù». Trattiamo al riguardo l’importanza e la realizzazione
concreta della sequela di Cristo crocifisso dalla cui santa persona
sorge la viva unità delle diverse virtù. In questo contesto
parliamo della croce salvifica di Gesù, del concetto della
mortificazione, delle lacrime che sono espressioni dell’amore
perfetto, nondimeno della conoscenza di sé, della necessità
dell’orazione che è madre delle virtù e dell’amore verso il
prossimo.
Nel terzo capitolo posso allo studio
delle singole virtù che hanno un significato particolare
nell’insegnamento della Santa di Siena. Teniamo in considerazione
le tre virtù «teologali»: la fede, la speranza e la carità; poi
tratto la perseveranza, l’obbedienza, la pazienza, l’umiltà la
sollecitudine, la discrezione, la giustizia, la purità, l’amore
della povertà e la gratitudine. Per approfondire ancora la dottrina
cateriniana dell’amore analizzo alcune immagini e parole del
Cantico dei Cantici che sono presenti negli scritti di Santa
Caterina.
Nella conclusione riassumo in breve la
risposta alle sopra citate domande che riguardano la dottrina
cateriniana delle virtù e, alla luce di tali risposte, cerco di
riaffermare l’attualità e l’importanza della dottrina di Santa
Caterina da Siena.
1Dial., CII,
p.286.
2«Il
fatto è che la fama di lei, anziché diminuire col tempo, si è
dilatata sempre più.» G. D’Urso, «Bilancio della spiritualità
cateriniana nei secoli», p. 419. Vedi ancora D.
Abbrescia - I. Venchi, «Il movimento cateriniano»; I. Venchi, «S.
Caterina nel giudizio dei Papi».
3Paolo
VI, Lett. apost. Mirabilis in Ecclesia, n.63, p.1113-1228.
4«Not
only was she a great mistic, but her writings have been recognized
by the Church as an important source for theological reflection.
[...] As a Doctor of the Church, Catherine’s theological insights
gaind through mystical experience are an autentic source for
teaching in the Church and by the Church».
D. Orsuto, Saint Catherine, p.1.
5Cfr.
Dial., p.XXXIX-XL.
6Cfr.
Paolo VI, Esort. ai membri del Consilium de Laicis (2 ottobre 1974),
p. 568.
7Cfr.
Dial., p. XXXIX.
8Dial.,XXIX, p.77.
9Cfr.VS,
n.88, p.1203.
10Paolo
VI, Omelia, Tenuta nella Basilica Vaticana quando Santa
Catarina, vergine fu dichiarata dottore della Chiesa universale il
27.09.1970, p.675.
11Cfr.
F. Reginaldo, «Allegoria e simbolismo nel Dialogo», p.240-255.
Inoltre tesi di laurea delle quali si trovano esemplari nella
Biblioteca del Centro Nazionele degli Studi Cateriniani: G.Anodal,
Le immagini del linguaggio cateriniano e le loro fonti; Turco
T., Aspetti del linguaggio di S. Caterina: metafore e
similitudini.
12Cfr.
ST, I, q.1, a.9.
13Cfr.
ST, II-II, q.180, a.5.
14Cfr.
J. Ratzinger, «“Perché Dio sia tutto in tutti” la fede
cristiana nella vita eterna», p.7.
15Giovanni
Paolo II, La lettera scritta per Mons. G. Bonicelli Arcivescovo di
Siena all’occasione del XXV anniversario del riconoscimento a S.
Caterina da Siena del titolo di Dottore della Chiesa, (28 settembre
1995).
16Cfr.
Dial., p.XXXIX-XL.
17«Anche
nell’intenzione della Santa, il Libro è come il suo testamento
spirituale. Vi si trova ben raccolto quell’immenso patrimonio
dottrinale, che andava effondendo nelle sue numerose lettere, e più
ancora colla sua instancabile parola». S. Caterina da Siena., Il
Dialogo della Divina Provvidenza, a cura di. A. Puccetti, p.14.
18Vita,
n.332, p.345-346; n.333, p.346; n.349, p.364.
19Vita,
n.332, p.346.
20Abbiamo
preso le date dalla cronologia della Cavallini: Oraz.,
p.147-151.
21«La
ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua
vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è
invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché,
creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né
vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se
non si affida al suo Creatore. Molti nostri contemporanei, tuttavia,
non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano questo intimo e
vitale legame con Dio.» GS, n.19.
22Cfr.
S. Caterina da Siena, Epistolario di Santa Caterina da Siena,
a cura di. E. Dupré Theseider. p. 39.
23I.
Taurisano, S. Caterina da Siena, patrona d’Italia, p.188.
24Oraz.,
p.XIII.
25Dial.,
p.XXXVII.
26Vita,
n.84, p.96-97.
27Vita,
n.100, p.113.
28C’è
chi afferma, che addirittura non ha senso andare alla ricerca di una
presunta dipendenza dagli scritti di Agostino oppure di Tommaso
d’Aquino ecc. Cfr. R. Rusconi,
«Mistiche e visionarie nell’Italia del secolo XIV», p.760.
29Rispetto
alla complessità della questione delle fonti vedi: A. Grion, S.
Caterina da Siena, Dottrina e Fonti; G. D’Urso, «Il pensiero
di Caterina e le sue fonti».
30Dial.,
p.XXXVIII.
31Cfr.
G. Cavallini, «Fonti neotestamentarie degli scritti cateriniani»,
p.4459; E. Piovesan, «Come caterina da Siena conosce
e usa la Bibbia nel “Dialogo”», p.7693; M. Làconi, «La
Sacra scrittura nella dottrina cateriniana. La dottrina del ponte e
il Vangelo di S. Giovanni», p.244-246. Vedi ancora le dissertazioni
delle quali si conservano esemplari nella Biblioteca del C.N.S.C.:
A. Morrone, Fonti evangeliche dell’Epistolario
cateriniano; P. Rocca, Fonti evangeliche del «Dialogo»
di S. Caterina da Siena; F. Ascoli, Fonti paoline
dell’Epistolario Cateriniano; G. Anodal, op. cit.
32Riguardo
al tomismo della dottrina cateriniana vedi: C. Pera, «S. Tommaso
d’Aquino nel cuore di S. Caterina». p.6475; M. Cordovani,
«Il Tomismo di S. Caterina da Siena», p.129-142. Il lavoro più
complessivo al riguardo: G. Paris, «S. Caterina e S. Tommaso
d’Aquino». Paris esamina la conformità di dottrina fra i due
santi a proposito della nozione di Dio, delle potenze dell’anima,
della beatitudine, delle virtù, dei vizi ecc.
33Cfr.
T. S. Centi, «Luci e ombre sul tomismo di S. Caterina da Siena».
34Cfr.
P. Paluzzi, «S. Caterina discepola di S. Tommaso».
35Cfr.
S. Pinckaers, «Rediscovering virtue»; E. Kaczynski - F. Compagnoni
a cura di, La virtù e il bene dell’uomo; G. Abbà,
Felicità, vita buona e virtù; R. Cessario, Le
virtù; R. luno, La scelta etica, Il rapporto tra
libertà e virtù.
36E.
Kaczynski, «Etica del dovere o etica della decisione? Una
controversia contemporanea: T. Styczen e A. Krapiec», p.101
37Lo
studio più globale è prima di tutto la serie di articoli della
prof.ssa Cavallini (G. Cavallini, «Caterina madre e maestra
delle anime. Le virtù») e quello di Paris (G. Paris, op. cit.),
i quali aiutano a capire più a fondo il pensiero cateriniano sulle
virtù, ma per la loro stessa natura non sintetizzano l’argomento.
38Vita,
n.14.
39Ciò
viene dimostrato anche dalla prof.ssa Cavallini in un articolo (G.
Cavallini, «Consonanze tomistiche nel linguaggio cateriniano “le
vere e reali virtù”») che dà una risposta positiva alla domanda
se l’espressione schiettamente cateriniana delle «vere e reali
virtù» abbia un qualche riscontro nel pensiero di Tommaso.
40G. Cavallini,
«La dottrina dell’amore in S. Caterina da Siena: concordanze col
pensiero di S. Tommaso d’Aquino», p.388.
«[Dio]
ci aveva creati senza noi, ma non ci salvarà senza noi. Ma vuole che
noi ci mettiamo la volontà libera, col libero arbitrio esercitando
il tempo con le vere virtù»1.
Capitolo I
La creatura libera,
rivestita delle virtù
1. L’uomo, «la creatura che
à in sé ragione»
1.1 L’anima spirituale,
immagine della Trinità
Analizzando la dottrina
cateriniana delle virtù, conviene partire dall’insegnamento
sull’uomo, poiché ogni discorso morale è condizionato dalla
concezione dell’uomo che è basilare2.
Perciò all’inizio di questo capitolo poniamo la domanda: chi è
l’uomo, qual è la sua verità secondo l’insegnamento della santa
senese?
In Santa Caterina la più
frequente nozione dell’uomo si formula così: «creatura che ha in
sé ragione»; una nozione che davvero esprime l’essenza dell’uomo,
e riassume bene le caratteristiche più importanti che distinguono e
specificano l’essere umano. Vorrei sottolineare tutte e due gli
elementi di questa formulazione: la creaturalità e l’intelligenza.
La creaturalità dell’uomo è la prima tra tutte le verità
impresse nell’anima di Caterina dal Maestro divino3;
una verità che sta alla base della sua dottrina e che è il
fondamento metafisico non solo dell’ammaestramento morale, ma di
tutto l’insegnamento cateriniano. L’espressione «à in sé
ragione» invece si riferisce a tutto l’insegnamento «psicologico»
della nostra Santa. Queste due caratteristiche che contano molto
nella problematica delle virtù, ci
aiutano a capire che cosa è la virtù; e allora possiamo chiederci
qual è la loro importanza?
L’evento più
determinante nella vita di Caterina è stata la visione, nella quale
il Signore le ha detto: «Tu sei quella che non è, Io, invece, Colui
che sono»4.
Queste parole sono la parafrasi della presentazione di Jahvé
nell’Antico Testamento: «Dio disse a Mosè: “Io sono colui che
sono!”»5
e questa verità è il punto di base di tante meditazioni del
Dialogo, delle Lettere e anche delle Orazioni.
Dio è colui che è in sé e da sé, la creatura esiste solo per il
suo Creatore, e «se uno crede di essere qualcosa, mentre non è
nulla, illude se stesso»6.
L’uomo è una creatura con i suoi doni e con i suoi limiti, una
creatura che dipende dal suo Creatore in ogni senso. Per questo
sollecita la Santa: «Ora si vuole cominciare a cognoscere, voi non
essere; ma l’essere, e ogni grazia posta sopra l’essere
ricognoscere da Colui che è.»7
Obbedendo a questa
esortazione e contemplando il mistero della creazione ci accorgiamo
della nostra nullità e della bontà di Dio, la quale si manifesta in
tutto ciò che riceviamo da Lui. Dio non solo creò l’uomo,
chiamandolo dal nulla all’essere, ma lo creò ad immagine e
similitudine sua dandogli un’anima razionale. Caterina sottolinea
una particolarità esegetica, cioè che quando Dio creò l’uomo non
disse «sia fatto»8
come nel caso delle altre creature, ma disse: «facciamo l’uomo
alla immagine e similitudine nostra»9.
Questo vuol dire - nell’interpretazione di Santa Caterina - che la
creazione dell’uomo fu singolarmente l’opera di «tutta la
Trinità» in quanto l’immagine della divina Trinità venne
impressa nell’anima umana, sì che l’uomo ebbe «la forma della
Trinità, deità etterna, nelle potenze dell’anima sua»10.
Quindi benché l’anima sia l’immagine del Dio unico, le tre
potenze dell’anima stessa sono immagini della SS. Trinità11.
La memoria riflette l’immagine del Padre, l’intelletto quella del
Figlio, e la volontà rappresenta nell’anima l’immagine dello
Spirito Santo. Caterina esprime la sua gratitudine al Creatore per
questo dono: «Grazia, grazia sia a te, alta ed eterna deità, di
tanto amore quanto hai mostrato a noi dandoci sì dolce forma e
potenze nell’anima nostra, cioè l’intelletto per cognoscere te,
la memoria per ricordarsi di te, per conservare te in sé, la volontà
e l’amore per amare te sopra ogni altra cosa»12.
1.2 L’unità dell’anima
e del corpo
L’uomo
non è puro spirito, ma secondo la Santa senese ha due «parti»
connesse: anima e corpo13.
Anche il corpo ha delle potenze conoscitive e appetitive. In questo
senso Caterina parla dei sensi, della sensualità e delle passioni
(desiderio, amore, timore, odio) ecc. Riguardo a questi concetti
facciamo notare che l’autrice del Dialogo non usa affatto
una terminologia rigida, per questo i termini vanno interpretati
sempre nel loro contesto. Nella struttura psicologica della persona
troviamo una gerarchia. L’anima spirituale è «senza comparazione,
molto più nobile che il corpo» e la più eccellente potenza
dell’anima è la ragione. Questo approccio si vede per esempio
nello sfondo di una lettera che la Santa scrive a una madre di
famiglia che subisce umiliazioni e ingustizie da parte dei suoi.
Caterina la esorta a sopportare con amore il disamore dei suoi
famigliari, nonché l’irriverenza di una sua serva. Dice che non
gli altri uomini, ma la cattiva volontà e il proprio corpo possono
veramente umiliare «la creatura che à in sé ragione». Per questo
domanda: «Or non vi fa peggio la schiava della vostra umanità14,
e lo sposo del libero arbitrio, il quale volontariamente consente a
questa schiava, e con essa conculca e avvilisce la ragione, che è la
donna? Certo sì.» Se la volontà non accetta la verità presentata
dalla ragione, ma consente ai moti iniqui del corpo, l’uomo perde
la sua dignità. È così perché «ogni nobiltà che ha il corpo,
l’ha dall’anima, e l’anima da Dio»15.
Scopriamo quindi che - secondo il disegno divino - il corpo è la
serva dell’anima spirituale. L’anima, cioè «quella parte che è
più nobile» è la sorgente della dignità dell’uomo guidato dalla
ragione.
L’anima razionale che
porta in sé il riflesso della santissima Trinità, eleva l’uomo
sopra ogni altra creatura della Terra. Perciò l’uomo deve
signoreggiare non solo il corpo suo, ma tutte le creature della
Terra, sì che partecipi alla signoria del Creatore. Questa dignità
singolare rende comprensibile che tutto è stato fatto per l’uomo.
Nel Dialogo dice il Signore che il cielo, la terra, l’aria e
il fuoco (cioè ogni elemento del mondo) sono ordinati affinché
«sovvengano a la necessità dell’uomo», ne consegue che tutta la
creazione serve «per la vita dell’uomo».16
1.3 La verità di Dio e
la verità dell’uomo
Nel mistero della
creazione si manifesta l’amore infinito di Dio che nel linguaggio
cateriniano viene chiamata verità di Dio. La verità
dell’uomo si basa su una verità divina: «l’amore ineffabile col
quale Dio ci creò alla imagine e similitudine sua. E creocci per
questa verità, perché noi gustassimo il suo sommo ed eterno bene,
ed acciò che rendessimo gloria e loda al nome suo»17.
Dio vuole renderci felici donandoci sé stesso nella vita eterna. Nel
Dialogo il Signore rivela: «Questa verità è che [l’uomo]
Io l’avevo creato a la imagine e similitudine mia perché egli
avesse vita eterna, e participasse me e gustasse la somma ed eterna
dolcezza e bontà mia»18.
In ultima analisi il fine di tutto il creato è «la creatura che à
in sé ragione», e il fine dell’uomo è qualcosa
imparagonabilmente più grande: è Dio stesso.
L’uomo ha ricevuto
doni che lo distinguono dagli animali e lo rendono simile a Dio
appunto per poter compiere la verità di Dio; gli sono state donate
le tre potenze spirituali, come doni eccezionali rispetto alle altre
creature, perché potesse raggiungere il suo fine che è pure
eccezionale. Traducendo quest’insegnamento sulla vocazione
dell’uomo in parole moderne possiamo dire che l’uomo è l’unica
creatura che è stata voluta da Dio come persona che può dare
sé stesso nell’amore19.
La persona è un essere non replicabile che nasce, vive e muore in un
certo luogo in un determinato tempo. Benché vivano più miliardi di
uomini simili, nessuno è uguale ad un altro. Per questo anche il
rapporto della persona con Dio è unico e non replicabile, vale a
dire personale. L’uomo è stato creato appunto per questo rapporto
personale, il cui compimento è la vita eterna. La persona umana è
l’unica creatura che è chiamata alla partecipazione della vita
divina. Questa chiamata presuppone la capacità di far parte della
vita della santissima Trinità. Le tre potenze dell’anima rendono
possibile questa partecipazione in base ad una certa somiglianza. Dio
ha dato all’anima l’intelletto perché partecipasse alla sapienza
del Figlio di Dio e conoscesse l’amorosa volontà del Padre
«donatore delle grazie»; gli ha dato la memoria perché «ritenesse
i benefizi» di Dio, partecipando alla potenza del Padre eterno; e
gli ha dato la volontà perché - partecipando alla «clemenzia dello
Spirito santo» - ami quello che l’intelletto ha conosciuto. Le
parole del Padre eterno riassumono perfettamente lo scopo delle
potenze spirituali che abbiamo ricevuti nella creazione: «Questo
fece la dolce mia providenzia, solo perchè ella [l’anima] fusse
capace ad intendere e a gustare me, e a godere della mia bontà nella
eterna mia visione»20.
Caterina con queste parole si rivolge al Creatore per ringraziarlo di
questi doni che rendono capace l’uomo di ottenere la felicità: «o
Padre eterno: [l’uomo] tu lo traesti della santa mente tua come un
fiore distinto in tre potenze dell’anima, e in ciascuna hai posta
la pianta21
acciò che potessero fruttificare nel tuo giardino ritornando in te
col frutto che gli hai dato»22.
Tuttavia - secondo
l’insegnamento di Santa Caterina - le potenze non bastano per
ottenere il fine, cioè la comunione con Dio, occorrono le virtù. La
virtù non è un’altra potenza, ma una realtà che perfeziona le
potenze dell’anima e ordina tutta la persona verso il vero fine.
Soltanto il virtuoso realizza il disegno del Creatore.
2. Il concetto della virtù
2.1 All’inizio della
storia dell’umanità
All’inizio della
storia umana ogni capacità ed attività dell’uomo era in armonia
con il fine per cui era stato creato. La creatura «che à in se
ragione» viveva nell’amicizia del suo Creatore. La
condizione indispensabile di questa comunione ed armonia è proprio
il dono delle virtù. Secondo Caterina, grazie a questo dono, l’uomo
ha avuto «oltre alla dignità della creazione sua» una dignità più
perfetta, che è provenuta dalla forte unione che l’uomo «ha fatta
col suo Creatore». Infatti l’uomo «per l’unione dell’amore e
delle virtù, fa perfetta questa dignità prima dell’essere»23.
La virtù quindi rende la creatura - fatta ad immagine del suo
Creatore - veramente simile a Dio24,
sì che la virtù porta al compimento l’opera della creazione,
realizzando in un modo perfetto la verità dell’uomo. Essendo
«vestiti del vestimento
nuziale della carità, adornato di molte vere virtù»25gli
uomini sono uniti a Dio. L’esercizio della virtù significa «levare
il cuore e l’affetto da questo tiranno del mondo e ponerlo tutto
libero e schietto senza veruno mezzo in Dio»26.
Dio infatti rivela nel Dialogo con l’espressione «uniti
sono con meco per amore» e «sono un altro me» che per mezzo delle
virtù non si fa solo il bene, ma ci si «identifica» con Dio che è
il sommo Bene. Questo è il motivo per cui Caterina ritiene che «la
virtù è ricchezza dell’anima, onore, gaudio, riposo e perfetta
consolazione»27.
Mediante le «vere e reali virtù», che nel linguaggio cateriniano
sono sempre animate dalla carità28,
la creatura razionale partecipa alla perfezione di Dio. Queste virtù
nella vita eterna diventano il motivo per cui Dio dà sé stesso
all’uomo. In questo senso parla il Signore a Caterina: «le vere e
reali virtù [...] per vostra utilità mi piacciono, perché Io abbi
di che rimunerarvi in me, vita durabile»29.
Le virtù allora «aduoperano frutto di grazia»30
realizzando l’unione dell’anima con Dio, sì che senza esse non
si unisce con Dio.
Originariamente l’intera
creazione era perfetta e armoniosa: «Con la mia sapienzia Io ò
ordinato e governo tutto quanto il mondo con tanto ordine che veruna
cosa vi manca e nessuno ci può apponere»31.
Anche il mondo interno dell’uomo era perfetto, cioè l’anima -
prima che l’armonia delle sue tre potenze venisse lesa dalla colpa
- è bella, perfetta e armoniosa. Caterina ammira la perfezione
dell’uomo uscito dalle mani creatrici di Dio: «O deità eterna
[...] Hai fatto questo albero libero; tu hai dato i rami a questo
albero, ciò sono le tre potenze dell’anima, la memoria,
l’intelletto e la volontà. Che frutto hai posto nella memoria? Di
ritenere. Nell’intelletto? Frutto di discernere. E nella volontà?
Frutto d’amare.»32
I frutti buoni, che le potenze dell’anima portano, pressuppongono
nell’anima la situazione originale, voluta da Dio, cioè esigono la
presenza delle virtù. La presenza delle virtù comporta infatti che
l’albero dell’anima porti frutti soavi, atti veramente buoni che
servono per ottenere la vita eterna.
L’albero33
è un’immagine cateriniana la cui sostanza è che «l’anima è un
albero fatto per amore e però non può vivere altro che d’amore»34.
Ciò vale per ogni uomo, il quale è un albero di vita se ama
Dio o un albero di morte se invece di Dio, ama se stesso. Mentre
cerchiamo la definizione o almeno la descrizione dell’idea di virtù
in Santa Caterina, attingiamo alla ricchezza di questa allegoria.
Riprenderò ancora questa immagine pure nei punti successivi, poiché
essa è basilare per il nostro argomento. Secondo questa metafora
infatti l’uomo si presenta come un albero di virtù o un albero di
vizi. Essa dimostra, non solo che le virtù appartengono allo stato
originale dell’uomo creato e posto nel paradiso, ma veramente sono
necessarie perché l’uomo possa realizzare la volontà divina, la
quale volontà non vuol altro che la nostra salvezza.
Con la figura
dell’albero di vita Caterina dimostra chiaramente che senza le
virtù non si vive neanche, almeno non si vive per quanto riguarda la
vita di grazia. «È vero che, se ella [l’anima] non à amore
divino di vera e perfetta carità, non produce frutto di vita ma di
morte.»35
Per poter aver dei frutti nella vita è necessario praticare tutto
l’insieme delle virtù, poiché le virtù costituiscono una
indissolubile catena. Tuttavia la virtù più importante, che
è il principio e scopo di ogni altra virtù è una, quella della
carità. Perciò questo albero, anche se include ogni virtù e non
manca mai della discrezione e dell’umiltà che sono fondamentali,
si chiama «l’arbore della carità». Questo albero vive dell’amore
di Dio e del prossimo, è piantato nella terra dell’umiltà, e per
questo con gratitudine conosce sè e i benefici di Dio. Il midollo
dell’albero è la pazienza, che dimostra che l’anima è in Dio e
Dio è nell’anima. Il pollone dell’albero è la discrezione che
«condisce tutte le altre virtù». I tre rami di esso sono le
potenze dell’anima, i fiori invece sono le altre singole virtù, i
cui frutti soavi sono le opere di giustizia, obbedienza, carità,
ecc. Con questi si dà lode e onore a Dio, e si danno al prossimo
preghiere, insegnamenti, buoni esempi, opere di misericordia. Solo
così si compie la santa volontà del Creatore: «A me rende odore di
gloria e loda al nome mio, e così fa quello per che Io el creai, e
da questo giogne al termine suo, cioè me, che so' vita durabile, che
non gli posso essere tolto se egli non vuole»36.
Allora ho messo in rilievo l’importanza dell’insieme delle virtù,
si è dimostrato che le virtù in generale, e sopratutto la carità
che non vi era senza le altre virtù, sono necessarie.
Alla base di quello che
ho detto finora, posso affermare che quando Dio creò l’uomo ad
immagine e similitudine sua37,
oltre a dare alla sua creatura il dono dell’essere e le potenze, le
donò anche le virtù che sono necessarie per portare a fine
la vocazione umana, la quale è l’unione con Dio. Perciò, dice la
Santa noi uomini, «siamo fatti per gustare l’abitazione del cielo
in nutricarci del cibo della virtù»38.
Le virtù - come l’essere stesso - sono segni innegabili della
bontà di Dio: l’uomo è stato creato per amore, e per questo è
stato rivestito di ogni virtù.
2.2 La «fortezza delle
vere e reali virtù»
A questo punto,
prescindendo dagli eventi dell’inizio della storia umana e dalle
particolarità dello stato originale della creazione, vediamo alcune
caratteristiche generali, ma importanti e sempre valide della
concezione cateriniana della virtù.
Se osserviamo più a
fondo la complessità della struttura spirituale e corporale della
persona, riscopriamo il ruolo particolare delle virtù. Le virtù
realizzano l’armonia dell’anima. Questa pace voluta da Dio
consiste soprattutto nel fatto che gli appetiti del corpo sono
sottomessi alle potenze più nobili dell’uomo con le quali questo
conosce e ama Dio. Grazie alle virtù, l’uomo ama quello che la
ragione propone di amare e non quello che viene desiderato
dall’appetito sensitivo. Il più importante moto dell’anima è
«l’affetto», vale a dire l’amore che è il principio di ogni
altra aspirazione umana. In questo senso scrive Caterina che «come
e’ piedi portano il corpo, così l’affetto porta l’anima». Se
questo affetto non viene purificato e perfezionato dalle virtù -
secondo il linguaggio cateriniano - si parla dell’«affetto
disordinato» che è il «proprio amor sensitivo, onde procedono
tutti e’ vizi». Se invece l’affetto è ordinato si parla del
«santo desiderio» o dell’«affetto d’amore», poiché «l’anima
è vestita d’amore di Cristo crocifisso, e spogliata del perverso
amore sensitivo che gli dà guerra [...] Così l’anima, vestita
delle virtù, con affetto d’amore gusta Dio»39.
Per il dominio della ragione illuminata dalla fede le
capacità spirituali e corporali nonché le azioni stesse
dell’uomo virtuoso vengono ordinate. Questo risulta per
esempio da una lettera della Santa, scritta a un discepolo: «la
mente e il desiderio tuo non sia mai contaminato dalla propria
passione, ma piuttosto sia agumentata la virtù in te»40.
Le virtù perfezionano le facoltà appetitive e conoscitive dell’uomo
in quanto gli danno la direzione giusta. In questo senso
scrive Caterina a qualcuno che desidera la perfezione: «l’affetto
e tutte le vostre operazioni siano ordinate e drizzate ad onore e
gloria del nome di Dio e in salute dell’anime»41.
1Dial.,
XXIII, p.62.
2Cf.
R. G. Haro, La Vita Cristiana, p.73
3Cf.
Dial., p.XXXVII.
4Cf.
Vita, n.92, p.105.
5Es
3,14.
6Gal
6,3.
7Lett.,
150, p.1395.
8Oraz.,
I, p.3; cfr. Gn 1,3
sg.
9Oraz.,
I, p.3.; cfr. Gn 1,26.
10Oraz.,
I, p.3.
11Cf.
Dial., XIII; Dial.,
LI; Oraz., XXIII;
ST., I, q.93, a.5.
12Oraz.,
I, p.3.
13Cf.
Dial.,, XCVIII. p.272, r.70-74.
Lett., 334,
p.202-203.
14Per
«uamnità» qui non s’intende tutto l’uomo, ma solo il suo
corpo.
15Lett., 354.p. 664-665
16Dial,.
CXL. p.448.
17Lett., 48, p.890.
18Cf.
Dial., XXI, p.59.
19«Dum
confirmat Concilium hominem unam esse in orbe terrarum creaturam
quam Deus propter seipsam voluit, statim addit eum plene seipsum
invenire non posse nisi per sincerum sui ipsius donum... Amor
efficit ut homo se ipsum perficiat per sui ipsius donum sincerum:
amare sibi vult dare et accipere quod neque emi potest neque venire,
sed libere vicissimque impertiri». GrS,
n.11, p.883; cfr. GS,
n.24.
20Cf.
Dial., CXXXV, p.429-430, r.14-27;
ST, I-II, q. 5, a. 5.
21Vuol
dire che in ciascuna potenza è presente con la sua vitalità la
stessa anima umana: Cf. Oraz., XIII note
p.117.
22Oraz., XIII
p.117
23Lett.,
29. p.634
24Cf.CCC,
n.1803.
25Dial.,
I, p.2.
26Lett.,111,
p.556.
27Lett.,
67, p.1445-1446
28Cf.
S.T., II-II, q.23,
a.7; G. Cavallini,
«Consonanze tomistiche nel linguaggio cateriniano “le vere e
reali virtù”»,
p.74.
29Dial.,
XLVI, p.120.
30Dial.,
XI, p.32.
31Dial.,
CXL, p.448.
32Oraz., X,
p.88
33Cf.
Dial., IX-XI, XXI;
Lett., 113, 213, 363.
34Dial.,
X, p.29.
35Dial.,
X, p.30.
36Dial.,
X, p.31.
37Cf.
Lett., 48; Oraz.,
I.
38Lett.,120, p.585.
39Lett.,120, p.585-586.
40Lett.,269, p.712
41Lett.,
150, p.1394
«ogni
virtù vale ed ha in sé vita per Cristo crocifisso [...],
in quanto l’anima ha tratto l’amore da lui e con virtù seguita
le vestigie sue»1.
Capitolo II
La dottrina di Cristo
crocifisso
1. Seguire Cristo crosifisso
1.1 L’unione con Cristo
crocifisso
Dove si trovano e in che modo si
aquistano le virtù? Sostanzialmente la rispota è stata già
anticipata nella considerazione della libertà. Abbiamo asserito
infatti che il Cristo-ponte, il Verbo incarnato è la via della
libertà, è il luogo dove si trovano le vere e reali virtù;
camminare sul Cristo-ponte è l’unico modo di crescere nell’amore
e in ogni altra virtù. Le virtù cristiane si dimostrano in Cristo
crocifisso, e si imparano seguendo Lui.
Cercando la fonte della libertà
umana, abbiamo visto che la metafora del ponte suggerisce: l’unione
con Cristo crocifisso e il possedere le virtù coincidono, senza
l’unione con Gesù Cristo è impossibile acquistare le vere e reali
virtù. Il Verbo incarnato, patendo e sopportando fatiche, si è
fatto ponte che ci porta alla vita. Il ponte che lega la terra con il
celo è Cristo crocifisso. Egli è la nostra via, la via in cui
dobbiamo camminare liberamente esercitando le vere e reali virtù;
egli è la verità che rivela chi è il vero uomo secondo il disegno
divino; egli è la vita che fa partecipare l’uomo alla vita di Dio.
Le virtù sono la materiale edile del
ponte. Le virtù vengono simbolizzate dalle pietre e tutte le virtù
che danno «vita di grazia» sono costruite su questo ponte che è
Cristo crocifisso e non si trovano altrove.
Sai
quali pietre sono queste? Sono le pietre delle vere e reali virtù.
Le quali pietre non erano murate inanzi alla passione di questo mio
Figliuolo, e però erano impediti che niuno poteva giognere al
termine suo, quantunque essi andassero per la via delle virtù: non
era ancora diserrato il cielo con la chiave del sangue, e la piova
della giustizia non gli lassava passare. Ma poi che le pietre furono
fatte e fabricate sopra ‘l corpo del Verbo del dolce mio Figliuolo,
di cui Io t’ò detto che è ponte, egli le mura e intride la
calcina per murarle col sangue suo, ciò è che ‘l sangue è
intriso con la calcina della deità e con la fortezza e fuoco della
carità. Con la potenzia mia murate sono le pietre delle virtù sopra
di lui medesimo, però che niuna virtù è che non sia provata in
lui, e da lui ànno vita tutte le virtù. E però niuno e può avere
virtù che dia vita di grazia se non da lui, ciò è seguitando le
vestigie e la dottrina sua2.
L’uomo può acquistare le vere
virtù, che danno «vita di grazia» soltanto da Cristo crocifisso,
seguendo il suo insegnamento. Sono le virtù di Cristo a dare
stabilità al ponte, sicurezza a colui che lo percorre. La solidità
di una costruzione è data dalla malta che tiene saldamente uniti i
suoi vari elementi. Il ponte, niente può distruggierlo, perché le
pietre delle vere e reali virtù sono ben cementate da una prodigiosa
malta3:
il sangue di Cristo crocifisso. «La strada è battuta nel sangue»4
L’anima camminando sulle solide pietre del ponte trova lo stabile
fondamento della sua vita, ritrova se stesso (spogliandosi dalla
propria volontà e rivestendosi di quella divina) e acquista la sua
dignità creaturale. Nel fiume invece l’anima, mancando delle vere
e reali virtù, si immerge, perde se stesso, perde la sua dignità,
non trovando nessun punto sicuro al quale si possa aggrappare:
Ma chi non tiene per questa via
[il Cristo-ponte] tiene di sotto per lo fiume, il quale è via non
posta con pietre ma con acqua. E perché l’acqua non à ritegno
veruno, nessuno vi può andare che non annieghi. Cosí sono fatti i
diletti e gli stati del mondo e perchè l’affetto non è posto
sopra la pietra, ma è posto con disordinato amore nelle creature e
nelle cose create, amandole e tenendole fuore di me - ed elle son
fatte come l’acqua che continuamente corre - così corre l’uomo
come elleno; benché a lui pare che corrano le cose create che egli
ama, ed egli è pure egli che continuamente corre verso il termine
della morte. Vorrebbe tenere sè, cioè la vita sua e le cose che
egli ama, che non corrissero venendogli meno: o per la morte, che
egli lassi loro, o per mia dispensazione, che le cose create sieno
tolte dinanzi alle creature; ed egli non può tenerle5.
Se
la grazia divina non fosse venuto in soccorso all’anima che prima
della redenzione si trovava nella fiumana tenebrosa, le avrebbe
mancato ogni speranza, ma «Cristo se ne fece ponte per l’unione
della natura divina unita con la natura umana» ed ha reso possibile
raggiungere la vita eterna. La Cavallini scrive che «Delle necessità
delle virtù come via di salvezza il passo più eloquente è quello
del Dialogo, dove la pietre che costruiscono il ponte sono
simbolo delle virtù praticate dal Signore nella sua vita terrena, e
lasciate a noi come esempio da seguire.»6
Si chiede però: dove ci si incontra
con Cristo, dove si trova il ponte saldo delle virtù? Cristo, il
ponte infatti, quaranta giorni dopo la sua risurrezione, è tornato
da suo Padre ascendendo al cielo, noi invece restiamo quaggiù: «ma
questo ponte si partì da noi salendo in cielo. Egli c’era una via
che c’insegnava la verità, vedendo l’esemplo e costumi suoi: ora
che ci è rimaso? e dove truovo la via?»7.
Il ponte ascende al cielo, ma
nello stesso tempo rimane fra di noi per i sacramenti e per la
dottrina, affidati alla Chiesa. Cristo è presente anche in ogni
cristiano, sopratutto in quello virtuoso. Ciascuno deve diventare
ponte nello Spirito Santo, per il prossimo. Ma il ponte è presente
in un modo particolare nei ministri sacri, primariamente nel «Cristo
in terra»8,
cioè nel papa. Il papa è veramente «pontifex», ponte e
costruttore del ponte. Il compito dei servi di Dio quindi è duplice:
camminare sul ponte di Cristo crocifisso esercitando le virtù nella
grazia, e trasformarsi ponte per gli altri. Questo compito riguarda
tutti gli uomini, ma soprattutto il papa ed i sacerdoti «i quali la
somma Bontà chiama i Cristi suoi»9.
Riassumendo la dottrina del ponte nel capitolo XXIX del Dialogo la
prima Verità spiega a Caterina il modo secondo cui il ponte è
presente fra noi ache dopo la risurrezione di Gesù.
Ora t’ò mostrato a pieno e
dichiarato il ponte attuale e la dottrina, la quale è una cosa
insieme col ponte; ed ò mostrato all’ignorante chi gli manifesta
questa via, che ella è verità, e dove stanno coloro che la
‘nsegnano. E dissi che erano gli apostoli ed evangelisti, martiri e
confessori e santi dottori, posti nel luogo della santa Chiesa come
lucerne. E òtti mostrato e detto come venendo a me egli tornò a
voi, non presenzialmente ma con la virtù, come detto è, cioè
venendo lo Spirito santo sopra i discepoli, però che presenzialmente
non tornarà se none ne l’ultimo dì del giudicio»10.
A questo punto soffermiamoci un po’
sulla osservazione della figura del ponte che è l’immagine più
significativa della dottrina cateriniana. Il ponte, l’unica via che
porta alla vita, ha tre scaloni che sono stati costruiti nelle piaghe
di Cristo: i piedei confitti alla croce, il costato aperto del
Crocifisso e il suo capo spinato, cioè la bocca sua che è il luogo
della pace. Nella figura del ponte Santa Caterina esprime non solo
l’opera del Redentore ma anche il modo che l’anima deve tenere
per camminare nella via da Lui fatta. Il corpo di Cristo sofferente è
una via sicura, la via dell’amore «e se ardua
per la natura appesantita dal peccato, essa è confortata dall’aiuto
divino»11.
Chi cammina sulle pietre di essa non si perde. Tuttavia per imparare
le virtù di Cristo crocifisso non basta salire sul ponte, bisogna
attraversare con fatica tutte le tre scaloni di esso. Nel secondo
scalone l’anima sviluppa le virtù che ha concepite nel primo, e
nel terzo le perfeziona. «Tutta l’ascesi cateriniana, espressa
nell’allegoria dei tre scaloni, s’impernia sullo sforzo per
acquistare le virtù»12
- afferma la Cavallini. E davvero le scaloni - mezzi per giungere
alla pace dell’unione con Cristo - sono la via del proseguimento in
virtù come si legge nel Libro: «Per
lo primo scalone, levando i piei dell’affetto dalla terra, si
spogliò del vizio, nel secondo si vestì d’amore con virtù, e nel
terzo gustò la pace»13.
L’immagine della bocca - che appartiene al terzo stato dell’anima
- sintetizza il comportamento dell’anima che è giunta ad un’unione
strettissima con Cristo crocifisso. La bocca infatti ha due compiti:
quello di parlare e quello di mangiare. L’anima - giunta alla pace
delle labbra - parla quando prega e quando annuncia la verità.
L’anima parla nell’orazione in cui direttamente si rivolge a Dio
e parla quando - se è il tempo adatto per farlo - istruisce,
ammondisce, consiglia gli altri. L’anima con le due fila di denti
dell’odio del vizio e dell’amore della virtù, mastica
tribolazioni ingiurie, persecuzioni, villanie da parte del prossimo.
Così attua la volontà del Creatore e cresce nelle virtù.14
In questo proposito dei scaloni
leggiamo ancora un brano dalla lettera, scritta da Santa Caterina
alla signora onorabile degli Agazzarri, moglie di Francesco di
Tolomei. Vediamo che l’anima, essendo salita sul ponte, come
«caccia il vizio, e con l’amore abbraccia le virtù»15
e come deve salire sui gradini sepre più alti colui che già cammina
sul ponte.
non è cosa convenevole che noi,
che siamo fatti per gustare l’abitazione del cielo in nutricarci
del cibo della virtù, che noi gustiamo la terra e nutrichianci del
proprio amore sensitivo, onde procedono tutti e vizi. Ma dovianci
levare e salire all’altezza delle virtù, aprendo l’occhio
dell’intelletto a ragguardare in sul legno della croce, dove noi
troviamo l’Agnello, arbore di vita, che del corpo suo ha fatto
scala. Il primo scaglione che ci ha insegnato a salire, sono e’
piedi, cioè l’ affetto: chè come e’ piedi portano il corpo,
così l’ affetto porta l’anima. Essendo saliti il primo, cioè
co’ piedi confitti e chiavellati in croce, troverete l’affetto
spogliato del suo disordinato amore. Giugnendo al secondo, cioè al
costato aperto di Cristo crocifisso, e vedrete il secreto del cuore;
con quanto amore ineffabile ci ha fatto bagno del sangue suo. [...]
Vedendo il terzo scaglione, e giugnendo cioè alla bocca del
Figliuolo di Dio, nutricarsi nella pace. Ché, poi che l’anima è
vestita d’amore di Cristo crocifisso, e spogliata del perverso
amore sensitivo che gli dà guerra, ha trovata la pazienza; [...] La
persona che dà la pace, s’unisce con lui a cui la dà. Così
l’anima, vestita delle virtù, con affetto d’amore gusta Dio, ed
unisce la bocca del santo desiderio nel desiderio di Dio, ed in esso
desiderio di Dio s’unisce con pace e quiete.16
Leggendo il testo del XXVI. capitolo
del Dialogo si capisce facilmente che questi gradini del Ponte
non si riferiscono solo ai tre stati dell’anima secondo una
progressiva unione con Cristo - espressa con i tre scaloni delle
piaghe di Gesù -, ma nello stesso tempo anche all’unità delle tre
potenze dell’anima: «le tre potenzie dell’anima, le quali sono
tre scale, e non si può salire l’una senza l’altra»17.
Allora qui si tratta di una metafora - nel senso vero e proprio
mistica - che ha due chiavi d’interpretazione assai diverse,
tuttavia non contraddittorie.
Anco
t’ ò mostrato il ponte come egli sta, e otti mostrati i tre
scaloni generali posti per le tre potenzie dell’ anima; e come
niuno può avere la vita della grazia se non gli sale tutti e tre,
cioè che sieno congregate nel nome mio. E anco te gli ò manifestati
in particulare per li tre stati dell’anima, figurati nel corpo de
l’ unigenito mio Figliuolo, del quale ti dissi che egli aveva fatto
scala del corpo suo, mostrandolo ne’ piei confitti e nella apritura
del lato, e nella bocca dove l’ anima gusta la pace e la quiete per
lo modo che detto è.18
Avere delle virtù significa che le
facoltà dell’anima, cioè la memoria, l’intelletto e la volontà,
sono ordinate ed unite per raggiungere la méta dell’uomo:
«congregata la memoria a ritenere e lo’ntelletto a vedere e la
volontà ad amare, l’anima si truova accompagnata di me che so’
sua fortezza e sua sicurtà; truova la compagnia delle virtù, e cosí
va e sta sicura»19.
Allora l’anima virtuosa, di cui potenze sono ben disposte a
seguire Cristo crocifisso, va avanti sui gradini del ponte: «si
muove con ansietato desiderio, avendo sete di seguitare la via della
Verità, per la quale via truova la fonte dell’ acqua viva. Per la
sete che egli à dell’onore di me e salute di sè e del prossimo à
desiderio della via, però che senza la via non vi potrebbe
giognere»20.
Questo ordinamento comporta che si è capace di compiere i
comandamenti di Dio, i quali comandamenti vengono sintetizzati nella
carità verso Dio e verso il prossimo. La prima Verità rivela a
Santa Caterina: «Tu sai che i comandamenti della legge stanno
solamente in due [...]
Questi due non possono essere congregati nel nome mio senza tre; ciò
è senza la congregazione delle tre potenzie dell’anima, cioè la
memoria, lo ‘intelletto e la volontà,»21.
L’unione con Cristo crocifisso sul ponte conporta «l’unità di
queste tre potenzie dell’anima»22,
e acquistando così le virtù si unisce più profondamente con Cristo
crocifisso. Chi cammina sui gradini del ponte impara le veri e reali
virtù che perfezionano le potenze spirituali della persona.
Poi che è salito egli [l’uomo]
si truova congregato; chè, possedendo la ragione i tre scaloni delle
tre potenzie dell’anima, come detto t’ò, l’à congregate nel
nome mio. Congregati i due, cioè l’amore di me e del prossimo, e
congregata la memoria a ritenere e lo’ntelletto a vedere e la
volontà ad amare, l’anima si truova accompagnata di me che so’
sua fortezza e sua sicurtà; truova la compagnia delle virtù, e cosí
va e sta sicura perchè so’ nel mezzo di loro. Allora si muove con
ansietato desiderio, avendo sete di seguitare la via della Verità,
per la quale via truova la fonte dell’ acqua viva. Per la sete che
egli à dell’onore di me e salute di sè e del prossimo à
desiderio della via, però che senza la via non vi potrebbe giognere.
Allora va e porta il vaso del cuore votio d’ogni affetto e d’ogni
amore disordinato del mondo.23
I tre scaloni del ponte quindi
esprimono con la lingua delle immagini che la perfezione delle
facoltà umane, che si chiama virtù, non viene acquistata se non per
Cristo crocifisso. L’uomo ha perso le virtù per la colpa di Adamo,
ma fatto libero per il sangue di Cristo, può e deve riacquistarle.
La persona cresce in tali virtù se sceglie la strada tracciata da
Gesù che «per la salute» dell’uomo «corse a l’obbrobriosa
morte della santissima croce»24.
Scegliere la via della virtù infatti significa camminare con
Cristo nella via dell’amore, della libertà, della salvezza,
rimanendo in Lui sino alla fine obbedientemente, con molta pazienza.
Scegliere la via delle virtù e correre «con virtù per lo ponte
della dottrina di Cristo crocifisso»25
significa faticare per il bene, lottare contro il male secondo gli
esempi e gli insegnamenti di Cristo crocifisso.
1.2 L’Alfa e l’Omega
Dio Padre ci spiega nel Dialogo
cosa vuol dire in realtà la sequela della dottrina del
Crocifisso: «seguitarete la dottrina sua, notricandovi in su la
mensa della croce, cioè portando per carità con vera pazienzia il
prossimo vostro: pena, tormento e fadiga, da qualunque lato che si
vengano»26.
Il cammino delle virtù allora è una conformazione a Cristo che
sollecitato dall’amore «corse con pena e obrobrio alla mensa della
santissima croce»27.
La vita umana sarà fruttuosa solo se partecipa della vita del Verbo
incarnato, di conseguenza i veri cristiani devono seguire Cristo
sofferente. Vale a dire che questa vita terrena è il tempo della
fatica, del lavoro, e della sofferenza; tuttavia appunto questo
patire diventa il pegno della felicità eterna e in certo qual modo
motivo della serenità dell’anima, già adesso, sulla terra. Mentre
l’anima partecipa liberamente del patimento di Cristo redentore,
cresce nell’amore. Mentre il cristiano imita il Verbo incarnato che
assumendo la natura umana ha faticato e sofferto, diventa intimo
amico di Dio onnipotente, la quale amicizia gli dà consolazione e
una beatitudine che pure non essendo paragonabile a qella perfetta
dei beati, supera ogni gioia della terra.
La fatica delle virtù comporta il
fatto più paradossale della vita cristiana: lottando godere la pace
e sofrendo gioire. Ma appunto così si diventa autentico imitatore di
Cristo crocifisso che in tutta la sua vita, ma particolarmente nelle
estremità del patimento alla croce, era beato e sofferente inseme.
Caterina tiene ben presente questo grande mistero e lo esprime con le
parole di una sua preghiera rivolta al Salvatore: «O Verbo eterno,
tu unisti in tal modo con te la natura mortale che non fu possibile
che in alcun modo si separasse; onde in croce la natura mortale
sosteneva, ma la natura divina vivificava, e pertanto eri insieme
beato e doloroso»28.
La sequela di Cristo non è solo
andare sulla traccia sua, ma piuttsto è un camminare insieme a lui.
Chi imita Cristo crocifisso è unito con lui per le virtù della
fede, la speranza e la carità. «Adunque - esorta Caterina -
nascondetevi nelle piage di Cristo crocifisso, ponete l’affetto, la
fede e la speranza vostra in Cristo crocifisso. Con questo dolce e
vero Agnello passerete questa tenebrosa vita, e giugnerete alla vita
durabile»29.
Il ruolo privilegiato di Cristo
crocifisso comporta che non si deve seguire il bambino Gesù, né
Cristo risorto, né il Padre30,
ma l’obbediente Cristo che ha accettato le sofferenze fino alla
morte sulla croce. Leggiamo in proposito come interpreta il Dialogo
le parole di Gesù, con le quali invita a sé noi uomini, pellegrini
sulla terra:
«Chi à sete venga a me e beia,
però che Io so’ fonte d’acqua viva». Non disse «vada al Padre
e beia», ma disse «venga a me». Perchè? Però che in me, Padre,
non può cadere pena, ma sí nel mio Figliuolo. E voi, mentre che
sete peregrini e viandanti in questa vita mortale, non potete andare
senza pena, perchè per lo peccato la terra germinò spine31.
Il Crocifisso,
la cui missione si è compiuta nel patimento sulla croce,
caratterizza la spiritualità e tutto il pensiero di Caterina32.
Senza di lui non si conoscerebbe come ci vuol bene il Creatore.
Cristo crocifisso è la manifestazione definitiva e perfetta
dell’amore di Dio:
inestimabile carità, el quale
non è nascoso a noi; era bene nascoso alla grossità nostra, prima
che ‘l verbo unigenito Figliuolo di Dio incarnasse, ma poi che
volse essere nostro fratello, vestendosi della grossità della nostra
umanità, ci fu manifesto; essendo poi levato in alto acciò che ‘l
fuoco dell’ amore fusse manifesto a ogni creatura, e tratto fusse
il cuore per forza d’amore33.
Significativo
il fatto che per Caterina Gesù ha portato la croce nell’anima sua
fin dal suo concepimento desiderando la salvezza degli uomini34.
Secondo Caterina la croce, accettata con pazienza, non è affatti un
elemento accessorio, bensì sia essenziale della vita di Cristo e
anche di coloro che vogliono seguire il suo esempio.
Caterina quindi vedi ed insegna le
virtù in Cristo crocifisso. L’oggetto
dell’ammaestramento cateriniano è sempre Cristo crocifisso
che è la nostra via, verità e vita35.
Benché Cristo è sempre l’alfa e l’omega per i santi, anzi per
tutti i cristiani, l’insegnamento catriniano è particolarmente una
dottrina di Cristo crocifisso. Benché tutti i santi abbiano
insegnato e stanno insegnando nella Chiesa che la strada della
salvezza è la croce, in Santa Caterina lo stesso insegnamento della
croce ha una espressione esplicitissima in quanto la strada da
percorrere è il Crocifisso stesso. Quest’affermazione va
sottolineata rispetto alla dottrina delle virtù. Il riferimento
primo e ultimo di tale dottrina è sempre Colui che ha sofferto per
noi con pazienza, ha sopportato tutto perseverando fino alla morte
per amore.
Il centro di tutta la dottrina e
spiritualità di Santa Caterina è il Cristo crocifisso che è
«l’amore crociato»36.
Per Santa Caterina il Figlio di Dio è Cristo crocifisso. La via, la
verità, la vita è Cristo crocifisso. Il maestro, la gioia, la
consolazione dell’anima ed ogni sua forza è Cristo crocifisso.
Poiché il nome veramente esprime qualcosa del proprietario di esso37
non è insignificativo per niente che Caterina scrive il Dialogo
ed ogni sua lettera «Al nome di Gesù Cristo crocifisso», ella
formula le sue domande ed esortazioni in questo nome. La via
della salvezza per lei è l’unione con Cristo crocifisso, anzi il
diventare Cristo crocifisso stesso. (Da questo punto di vista è
significativo l’esperienza mistica di cui parla il Beato Raimondo
nella Legenda: una volta gli pareva il volto di Caterina come
il volto santo di Cristo crocifisso.38)
L’anima unita con Cristo crocifisso è crocifisso anche lei con
Cristo; e vive non più lei, ma vive in lei Cristo crocifisso39.
La sequela di Cristo crocifisso è la
sequela del crocifisso amore. Perciò non dobbiamo seguire il Padre,
né Gesù che è presente allegramente con sua Madre e con i
discepoli alle nozze di Cana, né il Dio-uomo che appariva nella sua
gloria sul monte della trasfigurazione, né il Messia che entra a
Gerusalemme la domenica delle palme, ma il Crocifisso. Noi dobbiamo
seguire quello che lasciando la sua gloria divina ha accettato
l’umiliazione estrema, che lasciando l’eternità ha accettato la
morte terrena, che lasciando la perfetta comunità d’amore della
Santissima Trinità ha accettato la solitudine e l’incomprensione,
che lasciando il suo stato di non poter soffrire ha accettato la
flagellazione, la corona di spine e gli chiodi. dobbiamo seguire
colui che, benché possedesse la perfetta libertà, è diventato
legato e crocifisso. Dobbiamo seguire il Cristo crocifisso e il
suo amore crocifisso.
Gesù Cristo è diventato ponte per
l’uomo, che deve salire nel cielo. Egli discende dall’alto:
dall’altezza della libertà assoluta, dall’altezza della perfetta
comunità d’amore della Santissima Trinità, dall’altezza della
impatibilità e dall’altezza della gloria divina. Egli è disceso
perché l’uomo fosse sciolto dai legami causati dal peccato, dalle
sofferenze causate dal peccato, dalle umiliazioni causate dal
peccato, e fosse riportato nella libertà divina, nella impatibilità
divina, e nella gloria divina. Il punto d’incontro di Gesù Cristo
- che ha lasciato la gloria del cielo - e dell’uomo - che sta
cercando tale gloria - è la croce, sulla quale viene
crocifisso l’amore.
L’anima quindi, che vuole seguiere
Cristo, deve sapere che non incontra Cristo crocifisso se non sulla
croce. Ciò si deve saperlo, perché sul principio è molto facile
amare Dio, il cui mondo è ricchissimo, egli è la causa di tutti i
beni, di tutte le cose belle, con poche parole egli è la causa di
ogni gioia e ricchezza. Amare il Crocifisso però è molto difficile
sul principio.
Ma Dio con «l’amo dell’amore»40
prende l’uomo, con l’amore l’abitua ai diversi - sempre più
alti - gradini del ponte. L’uomo infatti che ha scoperto la
bellezza e ricchezza del mondo, a cui piace molto il vino delle nozze
di Cana, facilmente dice sul monte delle consolazioni: «è bene per
noi lo star qui, [...] farò qui tre
tende»41
- in questa tranquillità, in questa luce. All’inizio della via
della perfezione spirituale, l’uomo con gioia grida «Osanna» e
«stende i vestiti sulla strada» davanti al Signore, poiché si
sente di essere uno dei suoi prediletti.
Dio invece in un certo gradino, dopo
averci presi con i dolci ami dell’amore, ritira l’esperienza
della sua presenza. Si scopre subito che il vino senza di Lui non è
dolce più, il monte senza di Lui è troppo alto, come pure è
faticoso fare ascensione di tale monte, e che il protezione del
Signore non risulta merito davanti ai poteri terreni. A un certo
punto ogni gioia e bellezza del mondo che dimostra la riccheza del
Padre creatore, si incarna nella fatica quotidiana e si dimostra
nella sofferenza di Cristo crocifisso. E in questo momento si
manifesta se possiamo, vogliamo seguire Lui, il Crocifisso, o no.
Si può bene vivere una vita intera
seguendo il Padre; più esattamente seguendo quel immagine di Dio che
- al posto della croce - facciamo42
noi per noi stessi. Sembra che Dio lo permetta. Possiamo scegliere
tra tre tipi d’amore: quello freddissimo (l’amore verso il
mondo), quello tiepido (l’amore verso «il Padre», cioè verso
quel immagine che noi facciamo per noi come «Padre»), e quello di
fuoco (verso Cristo crocifisso).
Mentre cerchiamo la sostanza della
dottrina cateriniana, scopriamo che non ci vengono date queste tre
alternative: «Non tiepidezza, per l’amore di Dio! ma corriamo
verso il calore della divina carità, seguitando le vestigia di
Cristo crocifisso»43
Nell’insegnamento di Santa Caterina l’unica domanda infatti è la
seguente: siamo capaci di crocifiggere il nostro amore? Amiamo quindi
ciò che ci viene presentata dalla ragione in Cristo crocifisso,
oppure amiamo quello che piace alla nostra sensualità? Siamo capaci
di questa crocifissione, o ci fermiamo e ci scandalizziamo in Lui44?
Per l’anima che contempla Cristo
crocifisso, il mistero dell’amore, diventa raggiungibile per mezzo
delle virtù. Tale anima vede e «gusta»45
continuamente davanti a sé, in Cristo crocifisso le virtù della
mansuetuedine, della pazienza, della benevolenza, della prontezza di
sacrificio, della perseveranza, della stabilità, dell’accettazione,
della donazione, della prudenza e della scienza, cioè ogni
«figliuoli» della carità.
L’amore divino è un immenso mare,
«mare pacifico»46
che non possiamo assimilere in noi. Come l’incarnazione del
«Figlioulo di Dio» ci ha portato vicino «l’ineffabile»47
mistero della Santissima Trinitá, così i «figliuoli» della carità
divina, cioè le virtù, ci offrono il mare per gocce: attraverso i
sensi dell’anima nostra. Le virtù ci danno il mare infinito della
divina carità in un modo adequato a noi, creature finite.
Davanti agli occhi dell’anima c’è
- per esempio - la mansuetudine del Cristo crocifissso. L’anima
gusta la dolcezza di questa mansuetudine. Questo vedere e gustare
cominca a legare e a crocifiggere nell’anima tutti i vizi, passioni
e tutte le sfrenatezze che si ribellano contro la mansuetudine.
Allo stesso modo è davanti agli occhi
dell’anima la costanza di Cristo crocifisso. Questo immagine
davanti agli «occhi dell’intelletto» lega le parole superflue, i
pensieri della dispersione e gli atti della inquitudine, e rende
capace la mente di accolgliere la tranquillità e la stabilità di
Dio.
In un modo simile l’anima contempla
e «gusta» l’obbedienza di Cristo crocifisso e la propria
disobbedienza, la volontá propria annega «nel sangue dolce di
Cristo crocifisso, dove ogni cosa amara diventa dolce e ogni grande
peso leggiero.»48
Tale anima per l’obbendienza si sommerge veramente in Dio, nel
«mare pacifico». A questo proposito leggiamo qualche riga di una
lettera di Santa Caterina scritta a un certosino:
E’ pronto nell’obbedienza
sempre, in osservarla (...) perché nel sangue gustò l’obbedienza
del Verbo. Non ha pena; perché si ha tolta la volontà, e messa
nelle mani del suo prelato, per Dio; giudicando la volontà sua nella
volontà di Dio. Questo non sente fadiga, perché ha morta in sé la
propria e perversa volontà, che sempre dà fadiga; la quale uccise
nel sangue. Egli gusta l’arra di vita eterna; sempre ha pace e
quiete nell’anima sua, perché si ha tolta quella cosa che gli dava
guerra49.
L’anima desidera ciò che gli è
presentata dalla ragione, come oggetto. Il suo desiderio l’unisce
al suo oggetto sempre di più. L’anima così progredisce nelle
virtù e mano a mano raggiunge pure quelle virtù che non si trovano
se non in Cristo crocifisso e non si può averne se non per Cristo
crocifisso. Mentre l’anima si arricchisce delle virtù, queste
virtù - come una catena - la legano: legano e soffocano i sui vizi,
e tutto quello che potrebbe legarla al demonio ed unirla ad esso.
L’anima - così legata dalle virtù
del Cristo crocifisso - è libero, ma questa libertà non esiste se
non nella realizzazione dell’amore. Tale anima è libero solo per
amare. Essa è colma di «affetto
di carità e legata in amore»50
e non può unirsi ad altro se non all’amore stesso, con
quell’amore che è legato e «crociato», che è l’amore di
Cristo crocifisso. Questo amore è il mare in cui l’anima si
sommerge.
Questo amore è tutto gratuito,
incondizionato: un amore «crocato», «dilezione della carità»51,
l’amore dell’amore, che è l’unico e sommo valore.
Questo è l’amore che vive nella Santissima Trinità, che è in Dio
verso sé stesso, sommo Bene. Questo è l’amore che è in Cristo
crocifisso verso il Padre e verso di noi.
O dolcissimo amore Gesù, tu
t’hai lassato accecare all’amore, che non ti lassa vedere le
nostre iniquitadi; e perduto n’hai il silenzio. O Signore dolce, e’
parmi che l’abbi voluto vedere e punire sopra al corpo dolcissimo
tuo, dandoti al tormento della Croce; e stando in su la Croce come
innamorato, a mostrare che non ci ami per tua utilità, ma pre nostra
santificazione.52
Perciò la sequela di Cristo
crocifisso eleva l’anima al Padre, nell’amore e nella gloria
della Santissima Trinità.
1.3 L’unità delle virtù in
Cristo crocifisso
Caterina contempla quindi ogni virtù
in Cristo crocifisso: «ogni virtù vale ed à in sé vita per Cristo
crocifisso» e noi seguiamo «le vestigie sue»53
con le virtù. Ogni virtù è prima di tutto la sua, senza di lui non
sapremmo neanche cosa sia la vera virtù. Caterina considera le
singole virtù come manifestazioni di un’unica realtà. Questa
realtà è la vita stessa del cristiano, la sua vita unita con Cristo
crocifisso. La tesi cateriniana è molto semplice: la vita di grazia
spetta solo ai seguaci del Crocifisso.
Caterina ha una prospettiva speciale
per cui vede tutto – nel senso vero e proprio – in Cristo
crocifisso. La presenza di Cristo per Caterina è tale realtà, come
per noi l’aria, di cui si vive, in cui si vede tutto. Ma mentre si
aspira l’aria vivifica senza riflettere alla presenza di essa,
Caterina della presenza di Cristo se ne riflette semepre. Per questo
conclude la Santa quasi tutte le sue lettere invocando il santo nome
del suo divino sposo: «Gesù dolce, Gesù amore». Ella contempla
continuamente nella sua anima Cristo, l’incarnazione della Verità,
e si può dire che tutti i suoi scritti sono manifestazioni di questa
contemplazione. Perciò ella guarda ogni realtà con gli occhi di
Cristo, «tutto uomo e tutto Dio», con cui è unita. In proposito
leggiamo le parole di Caterina, come le porta Beato Raimondo nella
Legenda:
Per questa unione amorosa, che
ogni giorno aumenta, l’anima si trasforma in un certo modo in Dio
talmente, che non può pensare, intendere e amare se non Iddio, e non
aver presente altro che Iddio. Se stessa e le altre creature non vede
se non in Dio, nè ricorda se stessa e gli altri se non precisamente
in Dio. Le succede dunque come a colui che s’immerge nel mare e
nuota sott’acqua: non vede nè tocca che l’acqua, e quello che
sta nell’acqua; e di ciò che è fuori dell’acqua nulla vede, nè
tocca, nè parla. Se gli oggetti che sono fuori dell’acque vi si
riflettono, allora li vede, ma soltanto nell’acqua e come essi vi
si proiettano e non altrimenti54.
La mistica presenza di Cristo talmente
illumina l’anima di Caterina che la sua sapienza confonde non
soltanto il papa Urbano VI55,
ma colpisce anche noi che siamo ormai alla soglia del terzo
millennio.
Ora le parole di Caterina vengono
comprese nel mondo della mistica cristiana, la quale concepisce tutto
in Cristo, con Cristo e per Cristo. Ciò comporta a proposito del
nostro argomento che le virtù cristiane nell’insegnamento
cateriniano sono particolarmente unite, possono essere derivate una
dall’altra vicendevolmente. Sarebbe molto difficile stabilire quale
virtù sia il principio per le altre. Si dice giustamente che la
madre di tutte le virtù è la carità, ma egualmente è vero che
senza l’umiltà non c’è nessun’altra virtù, come pure è
validissimo che senza la fede non si raggiunge né la vera umiltà,
né la carità, la quale fede però non esiste senza la pazienza.
Anche se è vero che tutte le virtù hanno una caratteristica
speciale, tuttavia le origini e gli effetti delle singole virtù sono
permutabili. Per Caterina è più importante della successione delle
singole virtù il fatto che esse si attingono alla pienezza di
Cristo56.
Quando le virtù crescono, non
crescono indipendentemente. Quando si pratica una virtù, si
irrobustisce quella medesima virtù, ma nello stesso tempo da essa
nascono altre. Queste ultime poi reagiscono positivamente su quella
precedente. Ad esempio, se qualcuno ama Dio e crede in lui con una
salda fede, subito ha anche speranza; dalla speranza poi nasce una
fortezza che non ha timore da alcuna cosa. L’uomo forte poi ama con
sempre maggiore pazienza e così via.
Questa visione unitiva delle virtù si
manifesta per esempio nella lettera scritta a Mitarella, moglie di
Vico da Mogliano, in cui Caterina, per l’inseparabilità di tali
virtù (e non per scorretto uso della parola) al posto della speranza
dice la parola fede: «Se voi starete in questa santa fede giammai
nel vostro cuore non cadrà tristizia. Perché la tristizia non
procede da altro se non dalla fede che poniamo nelle creature»57.
Analizzando
l’albero della carità nel primo capitolo, abbiamo raggiunto allo
stesso risultato osservando che le virtù sono collegatissime, grazie
alla carità e alla virtù della discrezione. Adesso aggiungiamo che
in Caterina il vero principio della connessione delle virtù
non è solo la discrezione che condisce tutte le altre virtù, né
soltanto la carità divina in generale che dà vita alle virtù, ma
per eccenllenza la persona di Cristo crocifisso, da cui
impariamo ad amare e da cui riceviamo ogni grazia e perfezione per
mezzo dello Spirito santo.
La stessa immagine dell’albero della
carità suggerisce che il rapporto fra le singole virtù cristiane è
simile al rapporto delle membra di un organismo vivente. Esiste -
almeno in un certo senso - una penetrabilità mutua ed una certa
invertibilità fra gli organi del corpo umano. Il cuore tiene vivo il
polmone, potremmo dire che è la madre di esso, ma nello stesso tempo
anche il polmone è necessario per la vita del cuore. Questa
considerazione può essere applicata benissimo anche al fegato che
riceve vita dal cuore e dal polmone, ma senza il quale non funziona
né il cuore, né il polmone. Mentre si trattano tre organi ben
diversi, i loro attributi sono permutabili. Si possono essere
cambiati gli attributi perché i soggetti di tali attributi fanno
parte di una unità più grande (il corpo). Quando si parla di un
organo (anche se non si dice esplicitamente), si parla di esso in
quanto esso è una parte del corpo. Ciò va applicato anche al
discorso cateriniano delle virtù. Le virtù infatti tutti fanno
parte dell’albero vivo della carità e sono sempre le pietre vive
del Cristo-ponte. L’interdipendenza degli organi raffigura l’unità
delle virtù cateriniane. L’esempio del corpo umano infatti spiega
il fatto che Caterina considera le virtù come realtà vive,
inseparabili e difficilmente classificabili.
Caratterizza la dottrina cateriniana
delle virtù che non si può strutturare così come per esempio
troviamo una classificazione meticolosa e - nello stesso tempo -
geniale in San Tommaso. Nel contesto della dottrina cateriniana non
si può parlare neanche delle virtù cardinali in quanto cardinali.
Le quattro virtù cardinali si trovano anche nell’ammaestramento di
Santa Caterina, ma non se ne parla da tale punto di vista. Una virtù
è significativa per Caterina in quanto appartiene a Cristo
crocifisso. Santa Caterina tiene presente la vita concreta. Ella è
meno scientifico di San Tommaso se la scienza significa analisi, ma è
allo stesso livello se la scienza significa: conoscere per le cause.
Nei scritti di Santa Caterina si
scopre una visione unitaria e universale della realtà: tutto è in
Cristo crocifisso. Ciò è la sua intuizione mistica fondamentale.
L’importanza delle virtù nella prospettiva cateriniana deriva dal
fatto che ogni virtù è di Cristo. Cristo infatti, da una parte, dà
esempio delle virtù che noi dobbiamo avere, dall’altra, le sue
virtù generano in noi delle virtù che possono essere anche diverse,
ma sempre collegate con le sue.
La gratitudine, per esempio è una
delle più fondamentali virtù cateriniane. Essa a sua volta è la
virtù tipica della creatura e come tale Cristo non può averla,
poiché lui non è una creatura, ma il nostro Creatore. Tuttavia
rimane il Crocifisso e la sua virtù il punto di riferimento per la
gratitudine umana. Non tanto la gratitudine di Cristo che il suo
amore è quello che diventa principio della nostra virtù. La
consapevolezza dell’amore del Verbo incarnato, morto per noi sulla
croce, suscita in noi la virtù della gratitudine.
Caterina non nega la gerarchia delle
virtù e sottolinea l’importanza della discrezione, come pure della
carità ecc., tuttavia quelle perfezioni che vediamo in Cristo
crocifisso e cerchiamo di acquistare, sono egualmente necessari, cioè
cardinali. Vediamo, ad esempio, la virtù della pazienza. Quando la
pazienza si presenta come una virtù da imparare da Cristo crocifisso
(e si presenta sempre così), quello che importa è la persona di
Cristo, fonte di ogni pazienza, e il suo esempio. Ciò potremmo dire
alla stessa maniera dell’obbedienza, della fortezza, e così via di
ogni virtù inclusa la virtù della carità. L’attributo più
importante di tutte le virtù è appunto il fatto che si può
attingerli a lui. Di conseguenza le altri attributi hanno una
importanza relativa e sono cambiabili.
L’insegnamento mistico di Caterina
(come la vera mistica sempre) è basato all’ardua sequela di Cristo
crocifisso; una sequela molto concreta e vissuta quotidianamente.
L’imitazione di Cristo che ha sofferto per amore è la sorgente e
l’essenza di un’autentica mistica che è frutto di preghiera, che
è verificata dalla stessa esperienza di vita. È da sottolineare che
Caterina prima nella sua vita poi nei suoi scritti ci presenta un
rapporto strettissiomo fra la vita mistica e quella pratica e
quotidiana.
L’ammaestramento di Santa Caterina
senza dubbio è mistico, tuttavia non riduciamo il suo insegnamento a
una dottrina mistica che spetti solo a quelli che sono chiamati alla
perfezione eccezionale. Riteniamo che ella ha una dottrina
universale, anche se mistica; una dottrina di Cristo crocifisso che è
la via della salvezza per tutti. 58
Un frutto di questo modo di vedere
mistico è, fra l’altro, che Caterina nei suoi scritti usa molte
immagini: i misteri della fede, intuiti dalla santa, vengono espressi
con l’aiuto di immagini forti, soprattutto bibliche, ma Caterina
illustra il suo pensiero spesso con qualsiasi altro oggetto della
vita quotidiana. Le immagini possono far vedere al primo colpo
d’occhio la ricchezza e l’unità interna della verità. Ora le
realtà mistiche sono espresse per le immagini ed esse vanno
interpretate nel contesto della mistica. Le immagini sue, non le
comprendiamo se non in tal contesto, come l’abbiamo già visto e
vedremo ancora. Certo che il pensiero va oltre le immagini ma Santa
Caterina l’esprima attraverso l’immaginazione. Santa Caterina
appunto per le immagini vivi ci porta vicine le realtà più profonde
della vita. In questo non fa altro che il suo Maestro che «senza
parabole non raccontava nulla»59.
1.4 La croce salvifica
Cristo crocifisso, «per cui - il
cristiano - ogni cosa può»60,
è la più tipica concezione della nostra santa. Caterina mette in
risalto ripetutamente che si deve seguire Cristo crocifisso. Lo dice
letteralmente; lo esprime per il fatto che scrive tutte le sue
lettere «al nome di Cristo crocifisso» e «nel sangue suo»; lo
insegna con le sue immagini, come con quella del ponte (il corpo
crocifisso del Salvatore), oppure con altre metafore bellissime che
riguardano piùttosto la croce di Cristo.
La croce di Cristo più volte viene
presentata come una tavola, «la mensa della santissima croce», dove
tutti noi - se vogliamo vivere - dobbiamo nutricarci con il cibo di
Cristo crocifisso che a questa mensa «mangiò il cibo dell’anime,
sostenendo pene, obbrobri e villanie, e nell’ ultimo l’obbrobriosa
morte»61.
Ma la croce è anche una cattedra
d’insegnamento, la cattedra cioè da dove Cristo ci insegna le
virtù, «manifestandoci il fuoco dell’amore ineffabile e la
misericordia del Padre eterno; insegnandoci la dottrina della verità,
e mostrandoci la via dell’amore, la quale noi doviamo tenere».
Infatti Caterina chiede: «Dove ce l’ha insegnata questa dottrina
questo dolce e amoroso Verbo?» e risponde: «Su la cattedra della
santissima croce. [...] Dico che c’insegnò
la via dell’amore e la dottrina della virtù. Egli ci mostrò in
che modo noi doviamo amare, a volere avere la vita»62.
Cristo soprattutto sulla croce è il nostro maestro e diventa la
nostra via, verità e vita. Chi va per Cristo crocifisso non va nelle
tenebre, ma giunge alla luce. «E così è: perocché, chi seguita
questa via, in verità, ne riceve vita di Grazia, - spiega la Santa -
e va col lume della santissima fede e con esso lume giugne all’eterna
visione di Dio».
La croce è un albero, il punto
d’incontro con Dio.
All’anima conviene fare come Zaccheo, salire cioè sull’albero
per vedere Dio. Là trova immenso amore e carità.63
La croce poi è un albero, i cui
frutti sono le virtù. Come il ponte è Cristo stesso, così anche
l’albero della croce - invece di essere puramente un pezzo di legno
- rappresenta tutta la persona vivente del Crocifisso. Questi è
«l’arbore fruttifero» in cui bisogna essere innestata per poter
amare. In questa figura sembra di leggere anche la parabola
evangelica in cui si fa presente che un albero si riconosce dai
suoi frutti; se dunque i frutti sono buoni non c’è dubbio che lo
sono perché sono frutti di un albero buono. Senza la virtù non
possiamo piacere a Dio - dice Caterina -, ma le virtù non si trovano
altrove che «nel dolce e amoroso Verbo» e «si notricano in sul
arbolo della santissima croce»64.
Perciò la Santa scrive all’abbate Martino che vuole vederlo
innestato nell’albero della croce, l’unico albero che porta i
frutti delle vere e reali virtù:
Al nome di Gesù Cristo
crocifisso e di Maria dolce. Reverendo e carissimo padre in Cristo
dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù
Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di
vedervi il cuore e l’affetto vostro innestato in su la dolce e
venerabile croce; [...] E perché ancora vediamo Dio e Uomo corso
alla obrobriosa morte della croce, ha fatto uno innesto questo Verbo
in su la croce santa, e bagnatici del sangue prezioso suo, germinando
i fiori e i frutti delle vere e reali virtù; e tutto questo ha fatto
il legame dell’amore. Questo amore caldo, lucido ed attrattivo ha
maturati i frutti delle virtù, e toltogli ogni acerbità. [...]
Sapete che in prima erano sì agre, che neuna virtù ci conduceva a
porto di vita, perocché la marcia della disobedienzia di Adam non
era levata con l’obedienzia del Verbo, unigenito figliuolo di Dio.
Anco vi dico che, con tutto questo dolce e soave legame, l’uomo non
participa, né può participare la Grazia se esso non si veste, per
affetto d’ amore, del crociato amore del Figliuolo di Dio,
seguitando le vestigie di Cristo crocifisso. Perocché noi arbori
sterili, senza verun frutto, ci conviene essere uniti con l’arbore
fruttifero, cioè Cristo dolce Gesù, come detto è65.
L’immagine della croce è sempre
connessa con l’immagine del sangue. Ne abbiamo già parlato
affermando che il «prezioso sangue sparto con tanto fuoco d’amore»66
ci libera dai legami del peccato e così dà inizio della vita
virtuosa. Adesso aggiungiamo che questo «sangue prezioso» -
rendendo fruttuoso l’albero della croce affinché esso porti in noi
i frutti delle virtù - rimane sempre la costante sorgente della vita
soprannaturale: «[Cristo] tutte le virtù maturò nel sangue suo; e,
come arbore di vita, produsse a noi questi frutti delle virtù:, però
che dopo la redenzione che ricevemmo nel sangue, e’ frutti delle
virtù ci son tutti valuti a vita eterna»67.
Soltanto in virtù del sangue può l’uomo esercitarsi con merito
nelle «vere e reali virtù» che sono necessarie perché l’anima
sia ammessa al banchetto dell’Agnello. Le forze umane saranno
fruttuose nella virtù solo se prima vengono affogate nel sangue di
Cristo68.
Il sangue ha un ruolo decisivo anche
per la geniale immagine del ponte. Leggiamo infatti nel Dialogo
che l’anima che cammina sul ponte deve «ponere le pietre delle
virtù fondate nel sangue di Cristo, le quali à trovate nell’andare
per lo ponte di Cristo crocifisso, unigenito mio Figliuolo. Sí come
Io ti dissi, se bene ti ricorda, che sopra del ponte, cioè della
dottrina della mia Verità, erano le pietre delle virtù fondate in
virtù del sangue suo, perchè le virtù ànno dato vita a voi in
virtù d’ esso sangue».69
L’immagine del sangue e della croce
viene collegata pure a un’altra immagine biblica che è l’agnello.
L’allegoria di una lettera scritta a Giovanna di Conrado a sua
volta testimonia che l’esempio delle virtù cristiane sono le virtù
dell’Agnello, cioè di Cristo crocifisso che ha dato la sua
innocente vita per noi peccatori. L’anima è un giardino che porta
frutti buoni delle virtù perché nel centro è piantata la santa
croce di Cristo-Agnello che è esempio e fonte d’ogni virtù:
Dirittamente l’ anima allora
diventa uno giardino pieno di fiori odoriferi di santo desiderio; e
nel mezzo si è piantato l’albore della santissima Croce, dove si
riposa l’Agnello immacolato, il quale diriga sangue, bagna e allaga
questo dolce e glorioso giardino, e tiene in sè e’ frutti maturi
delle vere e reali virtù. Se volete patientia, ine è fondata
mansuetudine, in tanto che non è udito il grido suo dell’Agnello
per neuna mormorazione; umilità profonda, vedendo Dio umiliato
all’uomo, il Verbo umiliato all’obrobiosa morte della croce. Se
carità, egli è essa carità
[...]70.
Chi non segue Cristo crocifisso, non
lo segue perché cammina sulla strada dei vizi: «chi
nol seguita per la via delle virtù, essofatto il perseguita col
vizio»71.
Senza le virtù però non c’è vera vita, ma morte.
Credo bene, che coloro che sono
innestati e legati nell’arbore morto del dimonio e nell’ amore
proprio di sé, nelle delizie, stati e ricchezze del mondo, fondati
nella perversa superbia e vanità sua; oimè, che questi sieno quelli
che sono privati della vita, e sono fatti non tanto che arbori
sterili, ma essi sono arbori morti; e, mangiando il frutto loro,
conduce nella morte eternale; perocché i frutti loro sono i vizii e
i peccati. Costoro fuggono la via e la dottrina di questo dolce
incarnato e amoroso Verbo: essi vanno per la tenebra, cadendo in
morte, e in molta miseria72.
L’umile sequela di Cristo crocifisso
è l’unica possibilità per arrivare al fine della vita. Questa via
però è sicurissima. «Solamente cadiamo quando il fondamento non è
bene cavato nella valle dell’umilità, e fondato sopra la viva
pietra Cristo dolce Gesù, volendo seguitare le vestigie sue»73.
1.5 Correre morto
Si riveste quindi delle virtù
innestandosi nella santissima croce di Cristo crocifisso. Ma come si
innesta in questa croce? La stessa lettera indirizzata all’abbate
Martino ce lo spiega: quelli infatti che «hanno aperto l’occhio
dell’ intelletto; e cognoscono loro non essere, e cognoscono la
bontà di Dio in loro, e l’essere, e ogni grazia che è posta sopra
l’essere», cominciano amare il buon Dio e odiare tutto quello che
li strappa dall’amore di Dio. «Allora cresce un fuoco e uno
affetto d’amore, e uno odio e dispiacimento del peccato e della
propria sensualità». L’anima che - nel «perfetto lume» della
fede74
- ha conoscuiuto la nullità di se medesima e l’infinita bontà di
Dio comincia a lavorare con le mani dell’odio e dell’amore:
«cavando con le mani dell’odio l’affetto del disordinato amore,
il quale è quella terra, che ingombra l’anima; e vuolsi riempire
con le pietre delle vere e reali virtù, con la mano dell’amore»75
La via delle virtù quindi, in quanto
è la sequela di Cristo crocifisso, comporta la mortificazione
delle passioni disordinate e del proprio egoismo. Solo tramite questa
mortificazione si acquistano le vere virtù che portano frutti degli
atti buoni: «con questo amore e odio, e con vera umilità si innesta
nel crociato e consumato amore del Figliuolo di Dio, e produce allora
i frutti delle reali virtù, le quali virtù notricano l’ anima sua
e del prossimo suo». Di questa mortificazine parla Dio Padre mentre
rivela che non basta «mortificare il corpo con le molte penitenzie
senza uccidere la propria volontà»76.
L’odio santo è lo strumento nella mano della libertà umana, con
il quale si uccide la propria volontà disordinata che si ribella
contro la santa volonta di Dio. Questo uccidere è una lotta lunga e
dura, ma la «morte della propria volntà» è la prima condizione
del progresso nella virtù, senza la quale non esiste neanche amore
autentico. Caterina in questo senso desidera nella persona di frate
Francesco Tebaldi «avere uno figliuolo che viva morto»; per questo
sollecita questo suo discepolo con le parole seguenti: «corriate
morto per la via della perfezione»77.
D’altronde la Santa non fa altro che invitare il suo discepolo alla
stessa lotta a cui lei stessa è chiamata da Dio Padre con queste
parole del Dialogo: «Corre per questa strada della verità,
morta, acciò che non sia poi ripresa andando tu lentamente»78.
La via della vita virtuosa - senza
dubbio - consiste nel combattimento contro ogni tendenza dell’anima
che si oppone alla dolce volontà di Dio. Si tratta di una fatica
quotidiana e duratura che mira a rinunciare sempre più perfettamente
alla propria volontà. Non conviene allora dormire «nel sonno della
negligenzia», ma si deve essere solleciti perché «il tempo è
breve, e ‘l cammino è lungo.»79
Vale la pena di leggere su questo tema la Orazione XXI, in cui
Caterina esprime, a modo suo, la verità evangelica: se qualcuno vuol
andare dietro a Gesù Cristo, deve rinnegare se stesso80.
Caterina anche qui applica un’immagine, in quanto l’uomo deve
spogliarsi della propria cattiva volontà e rivestirsi della volontà
di Dio:
Deità eterna, o alta eterna
Deità, amore insetimabile! [...] La verità tua dimostra che sì
come l’uomo si trae il vestito rovescio, così l’anima si debba
spogliare della sua propria volontà se perfettamente si vuole
rivestire della tua. [...] O fetido vestimento della volontà nostra,
tu non ricopri, ma scopri l’anima. O volontà spogliata, o arra di
vita eterna! Tu sei fedele fino alla morte, non al mondo ma al tuo
dolcissimo Creatore; tu leghi l’anima in lui perché in tutto s’è
sciolta da sé.81.
La propria volontà quindi è un
vestito al rovescio da rivoltare. Notiamo però che Caterina sotto il
«fetido vestimento della volontà» non intende la volontà in sé
che è un segno della dignità dell’uomo creato all’immagine del
suo Creatore. L’espressione della «propria perverasa volontà»
indica infatti la volontà in quanto è disordinatamente sottoposta
ai desideri egoistici e alle tendenze devianti della persona.
Qual è il segno dimostrativo di
questo, cioè che l’anima sia libera dal dominio dei desideri
cattivi, cioè «è perfettamente sciolta da se medesima»? Il segno
è che «non cerca tempo né luogo a modo suo», ma in ogni cosa
cerca di compiere la volontà di Dio, in tale tempo e in tale modo
come piace a Dio.
Pure nel Dialogo possiamo
leggere che solo quelli sono vestiti delle vere virtù e uniti con
Dio per amore ché hanno rinnegato la loro volontà: «E però ti
dico che se tu dimandassi me chi sono costoro, rispondarei - diceva
el dolce e amoroso Verbo - sono un altro me; perché ànno perduta e
annegata la volontà loro propria, e vestitisi e unitisi e
conformatisi con la mia»82.
Qui si vede che la mortificazione della propria volontà - appunto
per l’esercizio delle virtù - non è un moto puramente negativo,
anzi questa mortificazione serve essenzialmente per immedesimarsi -
non solo con la volontà divina, ma - con Cristo stesso, Verbo
incarnato. Il brano dimostra pure che proprio in questa
mortificazione della volontà si effettua la sequela di Cristo che è
l’unico modo di compiere la verità di Dio e quella dell’uomo:
«questa è la via; altra via non ci è»83.
Caterina quindi desidera di vedere
tutti noi «innestato nell’arbore della santissima croce», poiché
senza la «perfetta unione» che ci lega a Cristo «non possiamo
giugnere a quello fine per lo quale fummo creati»84.
Benché sia evidente che questa unione non si realizza senza pena,
tuttavia la Santa insegna dell’anima perfettamente unita con
Cristo: «Non mi maraviglio se ella è privata della pena, però che
ella à tolto da sé quella cosa che dà pena, cioè la propria
volontà fondata nell’ amore proprio, e vestito della volontà di
Dio, fondata in carità»85.
A questo punto
conviene aggiungere qualcosa a quella definizione di virtù che
abbiamo dato nel primo capitolo. Abbiamo infatti descritto la
concezione della virtù secondo Santa Caterina affermando che le
virtù sono perfezioni della persona che la rendono forte e la
ordinano verso il vero scopo della sua vita, il quale è la
partecipazione della vita di Dio. Adesso sottolineamo però che la
via della virtù è insieme faticosa e facile, appartiene cioè
alla natura della virtù - anche se il suo esercizio è sempre
partecipazione della croce di Cristo - che dà gioia nel fare il
bene, soprattutto quando ci si è già esercitati «per alcuno spazio
di tempo nella virtù»86.
La via delle virtù allora è la via della beatitudine, non solo in
quanto porta alla felicità futura e definitiva, ma anche perché
rende felice chi la esercita. Secondo la Santa vale la pena che
l’uomo prenda la faticosa strada della virtù poiché «vivere
virtuosamente gli dà sempre letizia, pace con Dio e pace con
prossimo»87.
Così che i veri discepoli di Cristo crocifisso «corrono
come ebbri del sangue di Cristo, [...] non corrono per la via delle
virtù a loro modo; anzi a modo di Cristo crocifisso, seguitando le
vestigie sue. E se gli fusse possibile servire a Dio ed acquistare le
virtù senza fatica, non le vogliono»88.
Nell’insegnamento
cateriniano sono due i motivi della gioia di chi cammina sulla strada
ardua dell’umiltà, dell’amore, della pazienza, dell’obbedienza,
ecc. Il primo è il progresso nella mortificazione, il secondo è la
dolce unione con Cristo. Certo infatti è che se ci si abitua ad
agire secondo il giudizio della giusta ragione illuminata dalla fede
obbedendo alla coscienza, mano a mano, trova sempre meno resistenza
nella proria natura, così che con serenità e con facilità può
compiere gli atti della virtù. La virtù allora facilita la sequela
di Cristo, sì che il seguace perseverante prova meno pena, anzi
gioia, nell’osservare i comandamenti ed i consigli, nel praticare
le buone azioni. Tuttavia il secondo e principale motivo per cui il
giogo diventa dolce e il carico leggero89
è che mortificata la propria volontà, si unisce con Cristo stesso
nell’amore. L’unione fra l’anima e Cristo con il tempo diventa
sempre più perfetta per l’amore provato. Chi è unito con Cristo,
è beato per l’amore che unisce, anche se l’aumento di questo
amore non diminuisce la sofferenza, anzi l’aumenta. Di questa
coincidenza dell’amore con il dolore parla Dio Padre nel Dialogo
dicendo che nel sangue di Cristo si accende amore e dolore:
Allora l’ anima s’ accenderà
in questo cognoscimento di me con uno amore ineffabile, per lo quale
amore sta in continua pena, non pena affligitiva, che affligga nè
disecchi l’ anima, anco la ingrassa; ma perchè à cognosciuta la
mia verità e la propria colpa sua e la ingratitudine e cechità del
prossimo, à pena intollerabile; e però si duole perchè m’ama,
che se ella non m’amasse non si dorrebbe90.
Caterina tante volte si riferisce al
mistero della lieta sofferenza con il concetto «dolcezza». La
pazienza, ad esempio, benché sia la tipica virtù del sofferente,
per lei, è dolce. Il ponte che il simbolo di Cristo crocifisso è
dolce come pure la croce stessa é dolce. Parla del dolce sangue di
Cristo, della dolce amaritudine dell’anima perfetta, delle lacrime
di grande dolcezza, di colui che con dolcezza piange ecc. In ultima
analisi tutte le veri e reali virtù sono dolci, cioè comportano una
gioia reale e profonda perché rendono l’uomo vero amico di Cristo.
Quindi se il cristiano non camminasse nella sassosa strada delle
virtù sarebbe «in tristizia, perché il gaudio della grazia non
sarebbe in»91
lui.
Tutti quelli che vogliono raggiungere
la vita, devono camminare sulla via tracciata da Cristo, prendendo la
propria croce ogni giorno92.
La resurrezione, cioè la sequela del Padre, sarà il frutto appunto
della sequela del Crocifisso. Perché? La risposta si trova nella
santa volontà di Dio: «[a Dio] piace e vuole essere seguitato per
la via della croce». La volontà divina è il principio dei
principi; non esiste cioè alcuna causa dalla quale dipenderebbe la
decisione di tale volontà. Il cristiano riconoscendo in ogni cosa
l’amorosa volontà di Dio, non si lamenta per le fatiche e
sofferenze, anzi «è contento e gode di ciò che Dio permette, o per
infermità o per paura o ingiuria o villania, o obedientzia
incomportabile e indiscreta. D’ogni cosa gode e esulta; e vede che
Dio il permette per sua utilità e perfezione»93.
Quindi nonostante tutte le pene «è grande consolazione il vivere
bene e virtuosamente»94
1.6 Le lacrime dell’amore
Parlando della sofferenza che dà
gioia non possiamo fare a meno di riportare la dottrina delle
lacrime di Santa Caterina, poiché il linguaggio delle immagini
pure a questo punto sembra adattissimo per esprimere un mistero. Il
pianto è causato sempre dalla sofferenza, tuttavia anche gli amici
di Dio piangono. Anzi sulla
terra - in quanto l’amore non é senza dolore - sono gli amanti del
buon Dio che piangono di più, ma con lacrime perfette che non hanno
niente a che fare con le lacrime della disperazione. Queste
lacrime dei beati sono lacrime «dell’unitivo
stato», dove «l’anima sta beata e dolorosa»95
Questa trattazione del Dialogo96
ripercorre l’itinerario del ponte in chiave di sofferenza.
Apre
bene l’ occhio dell’intelletto e mostrarotti, per li detti stati
dell’anima che contati t’ò, le lagrime imperfette fondate nel
timore. E prima, delle lagrime degli iniqui uomini del mondo. Queste
sono lagrime di dannazione. Le seconde sono quelle del timore, di
coloro che si levano dal peccato per timore della pena, e per timore
piangono. Le terze sono di coloro che, levati dal peccato, cominciano
a gustare me, e con dolcezza piangono e comincianmi a servire; ma
perchè è imperfetto l’ amore è imperfetto il pianto, sí come Io
ti narrarò. Il quarto stato è di coloro che giunti sono a
perfezione nella carità del prossimo, amando me senza veruno
rispetto di sè. Costoro piangono e il pianto loro è perfetto. Il
quinto, che è unito col quarto, sono lagrime di dolcezza gittate con
grande suavità.97
«ogni
lagrima procede dal cuore, però che nullo membro è nel corpo che
voglia satisfare al cuore quanto l’occhio»98.
La gradualità della perfezione nell’allegoria del ponte
concerne la dottrina cateriniana sulle lacrime, dove si distinguono
cinque tipi di lacrime. Il fiume - che è l’immagine della
schiavitù del peccato - è conforme alle lacrime di morte spirituale
o di dannazione. Il primo gradino del Ponte è conforme alle lacrime
di timore servile (che sono già le lacrime di vita). Il secondo
gradino del Ponte è conforme alle lacrime di pianto sensitivo
spirituale; il terzo gradino è conforme alle lacrime perfette, cioè
le lacrime di affetto filiale e quelle di fuoco.
E così con questo lume si veste
di fuoco. A mano a mano séguita la lagrima; perché l’occhio,
quando sente il dolore del cuore, gli vuole satisfare, e geme,
siccome il legno verde quando è messo nel fuoco, che per lo grando
valore gitta l’acqua. Così l’anima che sente il fuoco della
divina carità, il desiderio e l’affetto suo stanno nel fuoco, e
l’occhio piange mostrando di fuore quella particella che gli è
possibile di quello che è dentro99.
Se il piangere non è necessariamente
segno della disperazione, anzi può essere un espressione dell’amore
perfetto si capisce l’invito del Dialogo: «Ora t’invito
ad pianto, te e gli altri servi miei»100.
Chi ama, piange.
La
dottrina delle lacrime sottolinea la verità dell’amore che é
sacrificio. E’ da notare però che Santa Caterina non solo
con i suoi scritti, ma con tutta la sua vita dà testimonianza del
sacrificio di amore. La mistica senese infatti fu consegnata in
maniera inconfondibile col segno della croce. La sua vita è una vita
di sofferenza per le anime.101
Una vita breve: serie delle sofferenze naturali e soprannaturali
(malattie, incomprensioni, congiure, infermità corporale, le
stimmate, le tentazioni e disturbi del diavolo, la corona di
spine...)
A Santa Caterina la dottrina delle
lacrime - come tante altre cose - l’ha insegnata la prima e dolce
Verità. Questo ammaestramento è stato aiutato dai santi che «nelle
valle di lacrime»102piangono
con pianto dello Spirito. Se diamo una occhiata all’afresco della
Crocifissione nel refettorio di San Marco a Firenze, vediamo che
Beato Angelico - pittore della dottrina cateriniana103
- ha dipinto proprio quei santi, che contemplando Cristo crocifisso,
tutti piangono con perfetto pianto dell’amore.
Beato Raimondo racconta che la cella
di Santa Caterina - quella interiore come quella esteriore - è stato
proprio il paradiso nel senso che la Santa godeva la dolce compania
degli abitanti del cielo. Mentre pregava erano presenti -
accompagnando il «dolce Figliuolo di Dio» - diversi santi: prima di
Tutto la Regina dolce Maria, Maria Maddalena, San Pietro e San Paolo
apostoli, come pure San Giovanni evangelista ed altri104.
Questi santi hanno insegnato a Santa
Caterina la dottrina misteriosa del pianto, ma fra di loro la prima
maestra - evidentemente - è stata la Madre delle lacrime, quella
Mater Dolorosa Lacrimosa che iuxta crucem stabat, dum
pendebat Filius105.
Ha «imparato» questa dottrina da
Santa Maria Maddalena, a cui il Signore l’ha affidata: «
“Dolcissima Figliuola, a maggiore tua consolazione ti dò per Madre
Maria Maddalena. Ricorri a lei con tutta fiducia: affido a lei una
cura speciale di te» ... Da quel momento la vergine si sentì tutta
con Maddalena, e sempre la chiamava sua madre.»106
Maria Maddalena che ha bagnato i piedi
del Signore con le sue lacrime107
, ha esperimentato, «che l’anima passa agli stati con lagrime»108,
cioè si passa piangendo agli diversi stati del dolore che si sente
per la colpa, si passa con pianto ai diversi gradi della conoscienza
di sé e di Dio. E Maria Maddalena «che piangendo se ne stava fuori
presso il sepolcro di Gesù»109,
conosce bene le lacrime di quella sposa che dice «nel cuor della
notte, cercai l’amato dell’anima mia; lo cercai e non lo
trovai.»110
San Paolo ha insegnato a Santa
Caterina «piangere con chi piange»111
e scrivere e pregare «fra molte lagrime»112.
E pure il dolce apostolo San Pietro,
le ha insegnato a piangere per l’infedeltà113.
Tuttavia per il fatto che «ogni
lacrima procede dal cuore»114
il maestro principale di Santa Caterina in questa materia è stato il
Signore stesso, Gesù Cristo che ha concesso a Santa Caterina il
proprio cuore115,
quel cuore che accanto il sepolcro dell’amico Lazaro «lacrimatus
est»116.
Il cuore di Gesù ha pianto: «Detto
t’ò delle lagrime perfette e imperfette, e come tutte escono del
cuore. E di questo vasello esce ogni lagrima di qualunque ragione si
sia, e però tutte si possono chiamare «lagrime cordiali»: solo sta
la differenzia nell’ordinato o disordinato amore e ne l’amore
perfetto o imperfetto».117
Poiché questo cuore sacrissimo è
«fornace del fuoco della divina Carità»118,
Santa Caterina poteva attingere a questo cuore l’insegnamento delle
«lacrime di fuoco».
uno
pianto di fuoco, cioè di vero e santo desiderio, il quale si consuma
per affetto d’ amore. Vorrebbe dissolvere la vita sua in pianto per
odio di sè e salute dell’ anime, e non pare che possa. Dico che
costoro ànno lagrima di fuoco, in cui piagne lo Spirito santo
dinanzi a me per loro e per lo prossimo loro, cioè dico che la
divina mia carità accende con la sua fiamma l’anima che offera
ansietati desideri dinanzi a me, senza lagrima d’occhio. Dico che
queste sono lagrime di fuoco: per questo modo dicevo che lo Spirito
santo piagne. Questo non potendo fare con lagrime, offera desideri di
volontà che à del pianto, per amore di me. Benchè, se aprono
l’occhio de l’intelletto, vedranno che ogni servo mio che gitta
odore di santo desiderio ed umili e continue orazioni dinanzi da me,
piagne lo Spirito santo per mezzo di lui. A questo modo parve che
volesse dire il glorioso apostolo Paulo, quando disse che lo Spirito
santo piagneva dinanzi a me, Padre, «con gemito inenarrabile» per
voi.119
Benchè nel Dialogo si trovi un
trattato intero sulle lacrime, queste tuttavia hanno anche nelle
Lettere un ruolo significativo, come compagne della preghiera
continua e del desiderio santo. La bevanda dell’amatore della virtù
è la lacrima. La lacrima diventa alimento di colui che ama Dio:
«Fuerunt mihi lacrimae meae panes die ac nocte» 120,
ma questo pianto è dolce e dà gioia. Scrive in una Lettera Santa
Caterina: «Facendo così, l’amaritudine vi sarà dolcezza e
refrigerio, offrendo lagrime, con dolci sospiri per ansietato
desiderio, per le miserabili pecorelle, che stanno nelle mani delle
dimonia. Allora i sospiri vi saranno cibo, e le lagrime beveraggio».121
Come leggiamo nei Salmi: «cibabis nos pane lacrimarum et potum dabis
nobis in lacrimis in mensura»122.
C’è un altro versetto del Salterio che risuona nelle Lettere:
«Exitus aquarum deduxerunt oculi mei, quia non custodierunt legem
tuam»123
Si legge infatti in Santa Caterina che «Dissolvasi dunque la vita
nostra, diamo agli occhi nostri fiumi di lagrime; mugghi il desiderio
sopra questi morti, acciocché si partano dalla morte e giungano alla
vita.»124
Queste lacrime versate nel
fuoco dell’amor divino eliminano le colpe.125
La Chiesa sarà rinnovata per le lacrime dei servi di Dio:
Figliuola mia dolcissima, vedi
come ha lordata la faccia sua con la immundizia e con l’amor
proprio, ed enfiata per superbia ed avarizia di coloro che si pascono
al petto suo. Ma tolli le lagrime e le sudore tuo, e tràle dalla
fontana della divina mia carità, e lavale la faccia. Perocché io
ti prometto che non le sarà renduto la bellezza sua con coltello, ne
con crudelità, né con querra, ma con la pace, e umili e continui
orazioni, sudori e lagrime, gittate con ansietato desiderio de’
servi miei. E così adempirò il desiderio tuo con molto sostenere; e
in neuna cosa vi mancarà la mia provvidenzia.126
Per questo «Non dobbiamo
terminare la vita nostra altro che in pianto e amaritudine»127.
2. La realizzazione della
sequela di Cristo crocifisso
2.1 Conoscere per meglio amare
Senza virtù non ci si salva. Le virtù
le troviamo in Cristo crocifisso. Dobbiamo seguire lui sulla strada
ardua della mortificazione. Si deve combattere contro il proprio
egoismo. Ma come prepararci a questa battaglia, cosa dobbiamo fare
praticamente se vogliamo vivere la vita di grazia, la vita virtuosa
di Cristo?
Abbiamo già menzionato che l’albero
di vita ha le sue radici dentro il cerchio della vera conoscenza e
che si raggiunge sul ponte riconoscendo la propria nullità e la
bontà infinita di Dio.
La conoscenza di sé risultava il
principio di ogni progredimento spirituale. Se poniamo dunque una
domanda a Caterina sulla vita giusta, ella risulta socratica nella
sua risposta128:
la conoscenza di sé costituisce il fondamento della vita morale.
Tale conoscimento è il primo passo che l’anima muove per il
perseguimento della santità.
Quelli
che vogliono passare allo stato perfetto «debbono entrare e
rinchiudersi in casa, cioè nella casa del cognoscimento di loro
medesimi, che è quella cella nella quale l’anima debbe abitare»129.
Ma questa
conoscenza di sé ha senso perché porta all’amore di Dio Anzi ogni
conoscenza serve per l’amore più perfetto. Si deve conoscere la
bontà di Dio per meglio amarla, ma non si riconosce l’infinità
bontà del Creatore se non attraverso la conoscenza di sé. Ciò
viene espresso nella rivelazione della Prima Verità nel Dialogo:
« [...]dimandi
di volere cognoscere e amare me che so’ somma Verità. Questa è la
via a volere venire a perfetto cognoscimento e gustare me, Vita
eterna: che tu non esca mai del cognoscimento di te; e abbassata che
tu se’ nella valle dell’ umilità, e tu cognosce me in te, del
quale cognoscimento trarai quello che ti bisogna ed è necessario.»130
Dunque la conoscenza di sé va sempre
condita dalla conoscenza di Dio: «al
cognoscimento della verità si viene per lo cognoscimento di te: non
puro cognoscimento di te, ma condito e unito col cognoscimento di Me
in te»131.
La fonte dell’amore e tutte le virtù connesse ad esso si
trovano infatti «nel cognoscimento che aviamo di Dio, quando col
lume l’anima raguardasé essere amata inestimabilmente da lui"132.
La
vera conoscenza di sé Santa Caterina la paragona a una casa o a una
cella dove ci conviene sempre abitare. Questa dimora però porta a
meglio conoscere non solo la verità su di sé ma anche su Dio.
Infatti la santa senese in una sua lettera della cella della
conocsenza di sé che l’anima in questa «cella
truova un’altra cella, cioè la cella del cognoscimento della bontà
di Dio in sé»133.
Oltre a parlare della cella, Santa
Caterina paragona questo principio della conoscenza - «a un pozzo
che tiene in sé l’acqua e la terra, cioè l’acqua della grazia
divina e la terra della natura nostra; a due cerchi, o sfere,
concentrici: immagini queste ultime, che servono a illustrare la
necessità in cui siamo d’integrare la conoscenza di noi con la
conoscenza di Dio, e la conoscenza di Dio con quella di noi» 134.
Questa conoscenza provoca l’amore:
«colui che cognosce sé, cognosce Dio e la bontà di Dio in sé; e
però l’ama»135.
Questa conoscenza conduce alle vere e reali virtù e singolarmente
alla virtù dell’umiltà, e dell’ardentissima carità. L’
umiltà a sua volta è balia e nutrice della carità, l’anima
infatti conoscendo la sua imperfezione, conoscendo che tutto quello
che ha (anche l’essere suo), l’ha avuto da Dio, si umilia ed
«acquista vera e perfetta carità amando Dio con tutto il cuore e
tutto l’affetto, e con tutta l’anima sua»136.
Il vero «cognoscimento» a cui ci
invita Santa Caterina non è affatto una conoscenza meramente
filosofica, ma è un frutto della ragione illuminata dallo
Spirito Santo. In questo senso dice Caterina che la cella (o la casa)
del conoscimento di sé, è il «luogo» dove la fede irradia
la sua luce137.
Il «lume» perfetto della fede perfeziona quello naturale della
ragione138.
La fede è una virtù fondamentale, perché è una condizione per
avere le altre virtù. Lo dichiara Caterina inequivocabilmente: «Il
primo, dico che ci conviene avere il lume della Fede, nel quale lume
della Fede santa acquisteremo ogni virtù; e senza questo lume
anderemo in tenebre...»139.
D’altronde è logico che senza la
luce soprannaturale della fede non si può sviluppare compiutamente
la vita virtuosa che è una reale partecipazione alla vita divina per
mezzo della grazia140. Per
comprendere l’importanza della vera luce che fa vedere la verità
leggiamo cosa insegna la prima Verità a Santa Caterina sulla miseria
di quelli che non ce l’hanno per colpa loro:
non
vede nè cognosce sè medesimo non essere, nè i difetti suoi che
egli à commessi, nè cognosce la bontà mia in sè, donde à avuto
l’essere e ogni grazia che è posta sopra l’ essere. Non
cognoscendo me nè sè, non odia in sè la propria sensualità anco
l’ ama, cercando di satisfare all’ appetito suo, e cosí
parturisce i figliuoli morti di molti peccati mortali. Nè me non
ama: non amando me, non ama quello che Io amo, cioè il prossimo suo;
non si diletta d’aoperare quello che mi piace, ciò sono le vere e
reali virtù, le quali mi piacciono di vedere in voi.141
Conoscere, volere, fare: la vita di
Caterina non ha mai conosciuto alternativa a questa logica
concatenazione. Non si può amare se non ciò che si è veduto, e
perciò la luce è il punto di partenza di tutto l’itinerario
spirituale. Tutta la questione dell’acquisto delle virtù è per
Santa Caterina una questione di Luce. La perfetta luce della fede
cresce esercitando la luce della ragione. La ragione è una facoltà
nobilissima che può, anzi deve legare il libero arbitrio. Decidersi
per la ragione, infatti, significa, in ultima istanza, decidersi per
Dio in quanto la ragione è strettamente legata a Lui: «Voi avete la
ragione legata in me»142
dice il Dio Padre nel Dialogo. La virtù non è per lei
abitudine per bene, acquistata attraverso la ripetizione quasi
meccanica da atti buoni, ma decisione ferma della volontà nel volere
il bene conosciuto alla luce della Fede».143
Nel Dialogo troviamo un
trattato - dai capitoli XCVIII. fino ai CVIII. - che porta il titolo:
La dottrina della luce. Pure Le Orazioni portano
ripetutamente questo concetto della luce144.
Ma anche nelle Lettere questo «lume» risulta il
fondamento di ogni perfezione. Adesso solo per dimostrare
l’importanza della luce in cui si riconosce la verità di sé e
quella di Dio, vediamo un brano da una lettera, scritta a un
domenicano che è uscito dall’ordine:
O carissimo figliuolo, quanto c’
è necessario questo lume! Perocché in esso si contiene la salute
nostra. O carissimo figliuolo, io non veggo che noi potiamo avere il
detto lume dell’intelletto senza la pupilla della santissima fede,
la quale sta dentro nell’ occhio. E se questo lume è offuscato, o
intenebrito dall’amore proprio di noi medesimi; l’occhio non ha
lume, e però non vede: onde non vedendo, non cognosce la verità.
Convienci dunque levare questa nebula, acciocché ‘l vedere rimanga
chiaro. Ma con che si dissolve, e leva questa nebula? con l’ odio
santo di noi medesimi, cognoscendo le colpe nostre, e cognoscendo la
larghezza della divina Bontà, come adopera verso di voi. [...]
Questo cognoscimento che l’ uomo ha di sé, germina umilità
profonda. E’ non leva il capo per superbia, ma sempre più s’
umilia. E per lo cognoscimento della bontà di Dio in sé, si
notrica, e cresce nell’ affettuosa carità; la quale carità
notricata dalla umilità, ha il figliuolo della vera discrezione.
Onde discretamente rende il debito suo a Dio, rendendo, laude e
gloria al nome suo; e a sé rende odio e dispiacimento della propria
sensualità, e al prossimo rende la benivolenzia, amandolo come si
debbe amare, con carità fraterna, libera, ed ordinata, e non finta
né senza ordine. Perocché la virtù della discrezione ha la radice
sua nella carità; e non è altro che un vero cognoscimento che l’
anima ha di sé, e di Dio. Onde a mano a mano rende a ciascuno il
debito suo. Ma non senza il lume; perocché, se non avesse il lume,
ogni suo principio e operazione sarebbe imperfetta. [...] va col
lume; ed essendo nel mare tempestoso, gusta e riceve in sé pace.145
Basta
questa citazione perché siamo persuasi anche noi che dal terreno
incluso nel cerchio del duplice conoscimento germoglia l’albero
dell’amore con tutte le altre virtù; questo albero quanto più
s’innalza, tanto più affonda le radici in quel terreno da cui trae
la sua linfa vitale146.
Nella luce si vede, vedendo conosce e conoscendo odia e ama. L’uomo
con odio libera sé stesso dal disordinato amore che è la terra che
ingombra l’anima e con amore ed affogato desiderio riempie l’anima
sua con le pietre della virtù.147
Ma
che cosa nasconde questa immagine del lume della fede, e perché è
così necessario per le virtù? La Cavallini ci spiega: «Come senza
luce l’occhio non vede, così senza un termine di riferimento
l’uomo non può dare di sé un giudizio vero, e oscilla tra il
credersi ninte meno che Dio e il credersi ninte più che un animale.
In uno spirito che non sa svincolarsi dallo spazio compreso tra i due
estremi opposti della presunzione e dell’avvilimento, non c’è
posto per il desiderio della virtù»148.
Attingendo alla ricchezza della
dottrina cateriniana, dopo aver trattato l’importanza nel cammino
spirituale di quella luce che comporta la vera conoscenza di sé e di
Dio, possiamo definire da questo punto di vista - con le parole di
Santa Caterina - l’uomo virtuoso. Il virtuoso è quella persona che
ha «ordinato sé col lume della fede»149.
Essere virtuoso significa appunto la giusta ordinazione degli atti e
dei desideri dell’anima e del corpo secondo la verità.
2.2 L’orazione, madre delle virtù
L’amore segue immediatamente ed
inesorabilmente alla conoscenza, se il bene riconosciuto è il bene
perfetto, che appaga l’anima totalmente. «La cosa che non si vede
non si può conoscere»150,
ma la luce della fede ci fa conoscere la perfezione che dobbiamo
raggiungere e l’orazione è quel mezzo che ci trasmette la luce
della fede. Questa luce ci fa vedere il nostro essere in profondo,
perchè possiamo conoscere noi stessi in verità. Di conseguenza la
preghiera gioca un ruolo importantissimo per avere le virtù:
«L’orazione è quella madre che nella carità di Dio concepe le
vere virtù, e nella carità del prossimo le parturisce»151.
Santa Caterina esorta «Piglia bene
l’arme dell’umile continua e fedele orazione». Perché è così
importante la preghiera? Perché «l’orazione è una madre vestita
di fuoco e inebriata di sangue», cioè vestita del fuoco della
carità divina ed inebriata del sangue redentore di Cristo
crocifisso; è una madre che proprio per la grazia di cui diventa
mediatrice «notrica al petto suo i figliuoli delle virtù»152.
Sotto il termine «orazione»
generalmente intendiamo il dialogo con Dio153.
Ma come definisce il mistero della preghiera la nostra santa? Cosa è
l’orazione che è madre? Santa Caterina anche a questo punto
utilizza un’immagine: l’orazione è un attaccamento al petto
della divina carità. Ella scrive infatti a una superiora: non si può
crescere nelle virtù «se non s’attacca al petto della divina
carità, da qual petto si trae il latte della divina dolcezza»154.
Questo attaccamento alla divina carità
inizialmente è un semplice desiderio di Dio dato da Lui all’anima
prima che questa possa pensare di chiederlo, desiderio che si precisa
e si acquisisce quando l’anima, guardando in sé, scopre la propria
miseria e intuisce il bisogno che ha del aiuto155.
Questo desiderio però trova il suo oggetto nella persona di Gesù
Cristo. La mistica senese continua la sua lettera in questo senso: «A
noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo, il quale
volendo prendere il latte, prende la mammella della madre, e
mettessela in bocca; onde col mezzo della carne trae a sé il latte:
e così dobbiamo fare noi, se vogliamo notricare l’anima nostra.
Perocché ci dobbiamo attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui
è la madre della carità.»156
Per Santa Caterina non esiste preghiera se non per Cristo, l’Amore
incarnato: «col mezzo della carne sua trarremo il latte che notrica
l’anima nostra, e’ figliuoli delle virtù: cioè per mezzo
dell’umanità di Cristo»157.
Si scorge che non abbiamo esagerato per niente affermando che Santa
Caterina vede proprio tutto in Cristo crocifisso. Se esiste nel cuore
umano il desiderio di Dio, ciò esiste e si compie per il
Crocifisso.
La cognizione dell’amore di Dio è
che aiuta la persona a riconoscere la propria verità e a comportarsi
di conseguenza158.
Questo amore divino però si é manifestato in Cristo crocifisso.
Perciò dice Santa Caterina: «l’ occhio dell’ intelletto non si
veda mai serrare, ma sempre debba stare aperto nel suo obietto e
amore ineffabile, Cristo crocifisso: e ivi truova l’amore, e la
colpa sua propria»159.
Appunto per questo il desiderio di Dio si esprime poi in quelle
semplici, elementari preghiere che - sappiamo dal Vangelo - hanno
ottenuto miracoli: «Signore, se vuoi... Signore, che io veda».
«L’umiltà di questa semplice preghiera ci apre gli occhi alle
realtà sopranaturali e ci conduce ai piedi della Coroce per
cominciarvi la nostra ascesa Spirituale; poi ci aiuta ad approfondire
e amare il mistero dell’amore che si rivela del dolore, e a volere
ciò che esso esige da noi.»160
La
luce presa da Cristo nell’orazione ci aiuta a vedere su quale
strada dobbiamo camminare, ed a controllare le eventuali deviazioni
dalla via retta, inoltre per trovare le radici dei vizi. Perciò dice
la Santa: «veruna virtù à in sé vita, se non è fatta ed
esercitata nell’anima col lume della verità»161
La luce della verità di Cristo crocifisso illumina talmente l’anima
che ella non può non umiliarsi davanti al suo Dio amandolo e
pregandolo. Caterina spiega a frate Francesco di Tolomei che l’anima
trova il fondamento di tutte le virtù in quella duplice conoscenza
che è nello stesso tempo frutto e fonte dell’orazione:
dal
cognoscimento di sé trae una vera umilità, con odio santo dell’
offesa che ha fatta e fa al suo Creatore; e per questo viene a vera e
perfetta pazienzia. E’ nel cognoscimento di Dio, che ha truovato in
sé, acquista la virtù dell’ardentissima carità: onde trae santi
e amorosi desiderii. E per questo modo truova la vigilia e continua
orazione; Allora l’anima si leva con grandissimo affetto ad amare
quello che Dio ama, e ad odiare quello che egli odia. E tutte le sue
operazioni drizza in Dio, e ogni cosa fa a gloria e loda del nome
suo.162
Santa Caterina apprezza molto la
capacità dell’uomo di poter vedere la verità. L’anima non solo
può, ma ha bisogno di vedere per poter amare; l’amore però segue
immediatamente, inesorabilmente, alla vista se il bene veduto è il
bene perfetto che appaga l’anima totalmente163.
Questo bene perfetto lo vediamo in Dio per Cristo crocifisso. Questa
è la verità da conoscere e da ammirare per mezzo dell’orazione
umile e perseverante. L’orazione - come l’intende Santa Caterina
- abraccia tutta la vita, nella triplice denominazione di orazione
vocale, orazione mentale, e orazione della buona volontà. Quando
Santa Caterina dice che l’orazione genera e conduce a perfezione le
virtù, si riferisce principalmente alla orazione vocale e alla
orazione mentale164.
Se l’anima pone «il cuore e la mente in Cristo crocifisso», la
sua preghiera diventa veramente «quella madre che nella carità di
Dio concepe le virtù, e nella carità del prossimo le parturisce»165.
L’anima inginocchiata ai piedi della croce si affida all’orazione
per entrare in contatto con il Maestro delle virtù: «quanto più ci
accostiamo a Dio, più participiamo della sua bontà, e più sentiamo
l’odore delle virtù; perché solo egli è il maestro dell virtù:
e da lui le riceviamo, e l’orazione è quella che ci unisce col
sommo Bene»166.
Si scorge subito l’importanza e la
nobiltà della preghiera se si considera il fatto che l’anima che
prega, contemplando ai piedi della croce l’amore «crociato»,
concepisce l’amore, ma pregando con desiderio per la salvezza dei
fratelli, già pratica, cioè partorisce l’amore.
La preghiera è il mezzo per cui
l’anima si accosta a Cristo crocifisso ed impara «a spogliarsi di
sé, e vestirsi di» Lui167.
Ne fa testimonianza già la seconda frase del Dialogo
affermando che «in
veruno modo gusta tanto ed è alluminata d’ essa verità quanto col
mezo dell’orazione umile e continua, fondata nel cognoscimento di
sé e di Dio, però che l’ orazione, esercitandola per lo modo
detto, unisce l’ anima in Dio seguitando le vestigie di Cristo
crocifisso, e cosí per desiderio, affetto e unione l’ amore ne fa
un’ altro sè»168.
Ora il primo ufficio dell’orazione è di farci conoscere le virtù
nel divino esemplare di Cristo crocifisso e condurci a desiderare di
riprodurrlo in noi. L’anima che la grazia conduce a Cristo
crocifisso, leva a Lui uno sguardo desideroso di sapere e Cristo ci
insegna dalla cattedra della croce quella divina carità che
comprende ogni altra virtù169.
È vero che l’orazione è
fondamentale nell’acquisto delle virtù, ma chi dimora nella cella
del conoscimento di sé è come se pregasse già. Anzi, prega senza
intermissione. Questo è la preghiera continua che è tale
poiché non cessa mai la sua causa: il santo desiderio.
2.3 Il santo desiderio
Il
desiderio é un’espressione essenziale170
in quanto tutta la fatica dell’uomo vale
«per la virtù
del desiderio dell’ anima, sì come il desiderio ed ogni
virtù vale e à in sé vita per Cristo crocifisso unigenito mio
figliuolo, in quanto l’anima à tratto l’amore da lui e con virtù
seguita il vestigie sue»171.
In virtù del desiderio tutte le azioni dell’uomo diventano «uno
continuo orare».172
Tale
desiderio, che è fonte di orazione continua, anzi è la stessa
orazione, deve rimanere sempre nella casa dell’anima173.
Il concetto del
desiderio santo sottolinea la caratteristica dinamica dell’amore.
Nell’amore c’é un dinamismo
che non si
quieta finché non abbia raggiunto il suo oggetto174.
Si stabilisce un ciclo
perenne tra
desiderio e conoscenza perché come dalla luce della conosceza è
partita la scintilla che ha acceso il fuoco dell’amore175,
così nel santo desiderio dell’amore l’anima trova nuova luce e
nella luce nuovo fuoco. «L’anima alluminata a questo venerabile
fuoco»176
infatti conosce sempre meglio ed ama di più. Dio é amato perché la
luce della fede e della ragione lo ha presentato all’intelletto
come bene sommo e perfetto, e la volontà si è trovata quasi
costretta all’assenso. Se l’oggetto dell’amore è Dio, il
desiderio dell’anima andrà, sì, al momento in cui l’unione con
Lui sarà piena, ma insieme si cerca di attuare questa unione sin
dalla vita terrena. Questa unione terrena (attraverso le virtù,
l’Eucharistia ecc.) é la premessa indispensabile dell’unione
perfetta: «In altro modo non potremmo gustarlo nella vita durabile,
ne vederlo facia a facia, se prima nol gustassimo per affetto e amore
e desiderio in questa vita»177.
Il
desiderio è un anticipo della vita eterna in quanto riveste, unisce
l’anima con il suo Creatore.178
A questo punto facciamo cenno al fatto che il piangere e desiderare
con amore sono quasi sinonimi, cioè in questa vita sono realtà
collegate. La lacrima attinge il suo infinito valore dal desiderio
infinito che è nel cuore per dono di Dio179.
L’anima reca il suo infinito desiderio anche nel regno beato della
Carità eterna, ma lascia dietro di sé la «lagrima», cioé il
tormento della propria insensibilità all’amore, la pena del male,
il timore di non poter raggiungere il Bene amato. Le rimane il
desiderio come fame di Dio: fame senza pena.
Sulla
croce si incontrano l’amore di Dio e quello dell’uomo, cioè
l’attrattiva che ci viene dal divino Crocifisso e il desiderio
dell’anima che a
quella risponde: «sì come disse la dolce bocca della verità: “Se
io sarò levato in alto, ogni cosa trarrò a me”... E veramente, il
cuore vulnerato da questa saetta si leva tutta sua forza»180.
Il
santo desiderio è quella preghiera continua che proviene dal
conoscimento di sé e di Dio e rende tale conoscimento più profondo;
il desiderio nasce dall’amore e partorisce l’amore. In ultima
analisi questo
desiderio-preghiera è quell’omaggio che Dio vuole da noi.181
Questa preghiera non solo continua ma è anche infinita, cioè ha
infinito valore. Il desiderio - la causa e sostanza di tale preghiera
- infatti è infinito «per l’unione che ha fatta nello infinito
desidirio di Dio»182.
Una
manifestazione del santo desiderio è l’odio
santo, che è
altrettanto necessario. Questo odio è quell’atto fondamentale
dell’anima di cui già abbiamo parlato dicendo che accompagna il
vero amore e combatte contro l’amor proprio. Anche questo santo
odio proviene dalla luce, dalla vera conoscenza: «Onde
potremo ricevere questo odio? solo dal conoscimento di noi medesime,
vedendo noi non essere: el quale tolle ogni superbia e infonde vera
umilità.»183Non
brama sinceramente la verità e il bene chi non odia la menzogna ed
il male. Chi vuol unirsi a Dio necessariamente odia tutto quello che
- sia in sé o fuori di sé - impedisce questa unione. Il desiederio
santo - se è sincero - comporta un odio santo verso tutto quello che
priva dell’oggetto desiderato.
Sembra quindi che il desiderio santo
sia il primo passo che l’anima fa sulla via della perfezione, un
passo che accompagna la duplice conoscenza di sè. Anzi, pare che il
desiderio sia proprio il primo principio della salvezza, in quanto
l’anima vedendo la passione di Cristo crocifisso vuol vedere di
più. Siamo però davanti a un vero mistero. Benché il desiderio
santo sia un moto fondamentale nell’anima grato a Dio, tuttavia non
si può dire che solo il desiderio sia il principio della perfezione
spirituale. Abbiamo visto infatti che l’Alfa e l’Omega della vita
di grazia è il Crocifisso, ma fuori di lui non si può trovare un
vero principio che sarebbe principio da ogni punto di vista e avrebbe
la spiegazione della sua esistenza in sé.
Il fondamento dell’amore di Dio non
è solo il desiderio, o la luce della fede ecc., ma sembra essere una
catena che raccoglie più anelli di catena: la duplice conoscenza, il
desiderio santo, l’odio santo, l’orazione, e la luce.
Per quanto riguarda la connessione fra
i fatti e moti dell’anima sulla strada della perfezione è molto
istruttiva un’attenta rilettura della prima frase del Dialogo.
Levandosi una anima ansietata di
grandissimo desiderio verso l’onore
di Dio e salute dell’anime, esercitatasi per alcuno spazio di tempo
nella virtu, abituata e abitata nella cella dell’cognoscimento di
sé, per meglio cognoscere la bontà di Dio in sé, perché al
cognoscimento seguita l’amore, amando cerca di seguitare e vestirsi
della veritá.184
Questa frase - oltre a riassumere i
«princìpi» dell’amore di Dio - richiama la
nostra attenzione sul fatto che non vi è nell’anima niente di
buono se il santo desiderio non la spinge. Ma il brano stesso
suggerisce anche che il santo desiderio l’anima non lo possiede se
Dio non glielo dona. Siamo veramente nel campo dei veri misteri. Per
poter avvicinarci a questo mistero ricordiamo quello che abbiamo
detto sulla libertà della creatura. Infatti il «desiderio verso
l’onore di Dio e salute dell’anime»185-
non senza la libera collaborazine dell’uomo - proviene dallo
Spirito dell’Amore. Il cuore della creatura non si può convertire,
se non in quanto Dio stesso lo converte e la stessa creatura si forza
volontariamente.
Santa
Caterina insegna che «l’affetto delle virtù» è il segno
più certo che una «visitazione mentale» sia da Dio186.
Ciò è così proprio perché
un autentico amore verso le vere e reali virtù non può provenire se
non da Colui, da cui proviene ogni santo desederio:
«lo Spirito santo gli [all’anima] dà amore, il quale
consuma e tolle ogni amore sensitivo dell’ anima, e solo gli rimane
l’ amore delle virtù.»187Benché
l’amore delle virtù sia quel primo atto che dobbiamo al nostro
Creatore, senza un aiuto soprannaturale non ce la facciamo.
Santa Caterina scrive ogni sua lettera
«con desiderio». Questo desiderio - con il quale la Santa desidera
non solo di avere le virtù ma di vedere anche i suoi figli
spirituali fondati sulle vere e reali virtù188-
è il dono dello Spirito Santo che infiamma e alimenta l’amore di
Santa Caterina verso i suoi.
Il desiderio santo, che è il frutto
dell’opera dello Spiriro Santo nell’anima, non è solo inizio ma
anche compimento. Mentre asseriamo che il desiderio santo è la base
delle virtù, non neghiamo che lo stesso desiderio sia una
conseguenza della vita virtuosa: quando infatti tutte le facoltà
spirituali e corporali sono ordinate per le virtù, si ha una sete,
cioè un desiderio, puro e santo dell’onore di Dio e della salvezza
del prossimo, come pure un desiderio della virtù stessa: «Allora
l’appetito dell’anima si dispone ad avere sete. Sete, dico, della
virtù e de l’onore di me e salute dell’anime»189.
Applicando questo concetto del desiderio si potrebbe definire lo
stato di virtù così: quando per il desiderio santo l’appetito
dell’anima si dispone ad avere sete dell’onore di Dio e della
salvezza dell’anime. Il desiderio santo quindi è un fatto che
è presente in ogni istante della vita spirituale.
2.4 Amare le virtù
Leggendo ancora la prima e
fondamentale frase del Dialogo osserviamo una particolarità
della dottrina cateriniana. L’anima - benché già da tempo si
eserciti nella virtù - cerca di vestirsi della verità. Abbiamo
dimostrato nel primo capitolo che cosa il vestirsi nella verità vuol
dire: conoscere la verità e conformarsi ad essa appunto per le
virtù. L’anima che è abituata a sostare nella cella del
conoscimento e a praticare le virtù è già vestita di verità.
Tuttavia come la libertà della creatura risulta un cammino verso
quella perfetta, così anche il possedere la virtù è piuttosto una
mèta, e quello che conta è l’amore di essa. L’anima - di cui
parla il proemio del Dialogo - è sulla strada della
perfezione, non è perfetta ma cerca di esserlo: non possiede tutta
la perfezione della virtù, ma l’ama.
È vero che in realtà non si ha un
amore della virtù senza avere la virtù stessa in una certa misura.
Chi ama la discrezione l’ama perché cerca l’onore di Dio e la
salvezza degli uomini già con una certa discrezione. Chi desidera
servire Dio con umiltà, lo fa perché è già umile per poter
riconoscere che ha bisogno di questa piccola virtù e ciò vale per
tutte le perfezioni dell’anima. La distinzione fra il conquistare
le virtù ed amarle sembra una fumatura marginale, ma non lo è. Si
vede anche a questo punto che la dottrina della Santa è frutto non
solo una considerazione puramente teorica, ma di esperienza vissuta e
approfondita per la preghiera.
Affinché l’uomo raggiunga la
felicità, cioè l’unione con Dio, deve camminare nella via delle
virtù seguendo Cristo crocifisso. La via delle virtù dunque è
l’unica per cui si deve percorrere. Però lo scopo pratico e
immediato della vita umana, secondo Santa Caterina, è nient’altro
che amare con desiderio santo le vere virtù. Il possesso vero e
proprio delle virtù sarà il frutto di tale desiderio. Altronde
questo amore della virtù è che distrugge l’amor proprio che è
l’inizio di ogni male.
Cercando una risposta sintetica alla
domanda dell’uomo che vuol compiere la verità di Dio in sé e non
sa concretamente cosa fare e dove comincare la strada della
perfezine, in Santa Caterina ripetutamente troviamo una regola
semplicissima: «Siate, siate amatore della virtù»190.
[...] la dottrina e ‘l
principale fondamento che tu debbi dare a coloro che venissero a te
per consiglio, e che volessero escire della tenebre del peccato
mortale e seguitare la via delle virtù, ciò è che tu lo’ dia per
principio e fondamento l’ affetto e l’ amore delle virtù, nel
cognoscimento di loro e della mia bontà in loro; e uccidano e
anneghino la loro propria volontà, acciò che in neuna (cosa)
ribbellino a me191.
Santa Caterina spesso chiama l’uomo
che cerca Dio e cerca di essere gradito a Lui: «amatore della
virtù». In questo senso invita certi figliuoli ad essere «amatori
della virtù; però che in altro modo non potreste avere la vita
della Grazia, né partecipare il sangue del Figliuolo di Dio»192
oppure scrive a un altro: «Cosa voglio che facciate voi, carissimo
fratello; che siate amatore della virtù, con una pazienzia santa, e
con una confessione spessa»193.
Dopo che l’anima «vede che Dio vuole che esso sia amatore della
virtù e spreggiatore del vizio»194cerca
di amarla. Chi ama la virtù, non ce l’ha ancora, ma desidera di
averla. Cioè in una certa misura la possiede, ma non perfettamente.
Possiede, perché l’ama, tuttavia desidera di averla così
perfettamente come vede che Cristo crocifisso ce l’ha.
Anzi, l’anima che desidera la virtù,
non desidera l’altro che il Crocifisso stesso. Chi ama la virtù,
non ama che Cristo crocifisso. Per questo scrive Santa Caterina a un
suo discepolo che «nella memoria della santa Croce diventiamo
amatori della virtù, e spreggiatori de’ vizi»195,
infatti la croce di Gesù, di cui si ricorda nella preghiera, ci fa
contemplare l’amore - tutto gratuito - di Dio. Rispondendo a questo
immenso e perfetto amore cerchiamo di vestirci in virtù anche noi.
L’amore delle virtù comporta che si
deve fare tutto per il possesso delle virtù e non per il successo,
pagamento o ringraziamento da parte degli altri uomini. L’ Haro
afferma nel suo manuale di teologia morale che l’acquisizione delle
virtù poggia fondamentalmente sul desiderio di imparare ad amare196.
Pure la mistica senese vede il fondamento in questo desiderio. Santa
Caterina, maestra esperta della vita spirituale, non dice allora che
si debba subito avere tutte le virtù, ma esorta ad amarle subito:
«in altro modo non sarebbe grato nè accetto a me se non concepesse
l’ odio del peccato e amore delle virtù.197Cioè
senza l’amore delle virtù non ci si salva: «Vedi tu, cotoro si
sono levati con timore servile dal vomico del peccato mortale, ma se
essi nonsi levano con amore della virtù non è sufficiente il timore
servile a darlo’ vita durabile»198.
2.5 La virtù provata per il
contrario
Il
desiderio è l’omaggio al Bene infinito, è l’espressione
essenziale del servizio che dobbiamo rendere a Dio. Questo desiderio
però ha bisogno di concretarsi in atti: cioè ha bisogno di provare
a Dio e a sé stesso la propria sincerità.199
Se è vero che «senza il mezzo della
virtù non potremmo piacere al nostro Creatore» è vero anche che è
necessario raggiungere «alla virtù provata». «Non basta concepire
il desiderio del bene: questo non è che un primo passo. Le virtù
vanno conquistate nella lotta, con pena e con fatica, perchè siano
degni del loro nome.»200
Altrimenti si ha soltanto una virtù «concepita per desiderio» ma
non quella vera201.
Ma come nasce la provata e vera virtù dal desiderio della virtù?
Tramite il contrario:
Giudica e vede bene che Dio non
vuole altro che la nostra santificazione; e ciò ch’egli ci dà e
permette, o tribolazioni, o consolazioni, o persecuzioni o strazi o
scherni o villanie, ogni cosa ci è data perché siamo santificati in
lui. Perché la santificazione non si può avere senza le virtù, e
le virtù non si possono avere, se non per lo suo contrario. E però
l’ anima che cognosce questo amore, non si può turbare né
contristare di veruna cosa che avvenga, di qualunque cosa si sia;
perché sarebbe dolersi del suo bene, e della bontà di Dio che il
permette a noi. E’ vero che la sensualità si vuole sentire quando
la cosa che gli dispiaccia: ma la ragione la vince, e fàlla stare
suggetta siccome debbe.202
Il contrario - che mette alla prova la
virtù - sono quei fatti che appesantiscono la nostra croce
quotidiana. Può essere infatti un nostro sentimento ribellarci
contro la ragione, o un influsso da parte del prossimo che cerca di
allontanarci dalla via di Cristo, oppure una tentazione del mondo il
quale ci confonde con i sui beni apparenti e transitori, o
semplicemente un atto del demonio che vuole avvelenare il nostro
rapporto con il buon Dio.
Quando si ha apparentemente un
insuccesso la virtù non viene meno ma viene messo alla prova. Per
questo dice Santa Caterina in una lettera: «Dunque per farci venire
a vera virtù [...] si conviene sostenere
con vera e reale pazienzia le tribulazioni della mente, cioè quelle
che ci dessero le creature per infiamme o per altri scandali che ci
fussero date. E così veniamo a virtù; peròcche questi sono quelli
mezzi che ci fanno parturire la virtù, perchè è provata nelle
fadighe siccome l’oro si pruova nel fuoco»203.
Il frutto della virtù messa alla
prova è quella serenità di cui abbiamo detto che gli amici di
Cristo crocifisso possiedono: «Onde allora si diletta delle molte
tribolazioni» 204.
Dio ci comunica che dobbiamo
sopportare. Anche qui rivediamo il Crocifisso, Figlio di Dio, come
punto di riferimento:
Onde né tribolazioni né
persecuzioni del mondo non sono male; né ingiurie, né strazii, né
scherni, né villanie, né tentazioni del dimonio, né tentazioni
degli uomini, le quali tentano i servi di Dio; né le tentazioni, né
le molestie che dà l’uno servo di Dio all’ altro: le quali Dio
tutte permette per tentare, e per cercare se truova in noi fortezza e
pazienzia e perseveranzia infino all’ultimo; anco, conducono l’
anima a gustare il sommo ed eterno Bene. Questo vediamo noi
manifestamente nel Figliuolo di Dio, il quale essendo Dio e uomo, e
non potendo volere veruno male, non le averebbe elette per sé; ché
tutta la vita sua non fu altro che pene e tormenti e strazii e
rimproverii, e nell’ultimo l’obrobriosa morte della croce: e
questo volse sostenere, perchè era bene, e per punire la colpa
nostra, che è quella cosa ch’ è male.205
Non soltanto il male apparente, ma
pure il demonio stesso contribuisce a portare a termine il disegno di
Dio. Molestando la creatura senza averne l’intenzione, la mette
nella condizione di potersi perfezionare nella virtù.206
Ci si pone la domanda: per quale scopo
Dio permette tutto ciò che prova la virtù? Perché bisogna mettere
alla prova la virtù per perfezionarla? E la risposta di Santa
Caterina chiarisce che la verifica della virtù comporta la
fortificazione di essa in quanto porta a una più profonda conoscenza
di sé e di Dio:
Ma perché ci permette queste
fatiche e tante ribellioni? Perché si pruovi in noi la virtù; e
acciò che col lume cognosciamo la nostra imperfezione, e l’adiutorio
che l’anima riceve da Dio nella battaglia e fatiche; e acciò che
cognosciamo il fuoco della sua carità nella buona volontà che egli
ha riservata nell’ anima nel tempo della tenebra e delle molestie e
delle molte fatiche.207
La prova è nel servizio dell’amore.
La prova accettata con fede fortifica il legame che si stabilisce
fra il Creatore e la creatura. Quando questa verità diventa una
convinzione profonda dell’anima dà forza alla mortificazione, cioè
a rinunciare a sé stessa per amor di Dio e per affetto delle virtù.
Vedendo questo l’anima cerca di conformarsi a Cristo crocifisso ed
abbraccia con diletto le difficoltà. Fortificata dalla persuasione
che Dio permette le sofferenze e tutte le difficoltà per far
crescere l’anima nell’amore, lei diventa tutta libera da sé
medesima: «non elegge lo strumento delle tribolazioni, che provano
le virtù, a suo modo, ma a modo di colui che gli ‘l dà, cioè
Dio; il quale non vuole altro se non che siamo santificati in lui, e
però gli ‘l concede. Così egli ha tratto l’amore dell’amore»208.
Dio Padre rivela «Io per esercitargli
nella virtù ... ritaggo a me la consolazione della mente e permetto
lo’ battaglie e molestie...»209Per
quale motivo? Per il motivo che l’anima riconosca la propria
miseria e la dipendenza da Dio, e cercando e trovando rifugio a Lui
raggiunga una più profonda conoscenza dell’amore di Dio. Tutto
questo serve a portare alla maggiore perfezione nella virtù, come
dice la prima Verità: «Io gli poto, acciò che faccino molto
frutto»210.
Nella prova l’anima è priva del
sentimento della presenza di Dio in modo che si sforzi di continuare
ad amare Dio come prima pur non provando più alcun piacere
spirituale. Solo così riuscirà a dare una prova del suo autentico
amore, tutto gratuito. Così prende coscienza della sua imperfezione
precedente, perché soffrendo per la mancanza di gioia spirituale
scoprirà che ciò che prima la spingeva a rivolgersi a Dio era più
il desiderio del gaudio che non il desiderio di Lui stesso.
Smascherando l’amor proprio, l’anima si umilia211
e cerca di vestirsi più perfettamente nelle virtù di Cristo
crocifisso.
Nel Dialogo212leggiamo
ancora un modo per il quale aumenta la virtù in colui che Dio
permette la prova. Infatti una mèta della sofferenza - come nel caso
di San Paolo apostolo - è una maggior comprensione degli altri.
L’esperienza della propria miseria genera nel cuore dei servi di
Dio un magiore compassione del prossimo, la quale alimenta in loro la
carità.
Certo che l’anima verificata ha
bisogno dell’aiuto di Dio, ma questo aiuto non lo trova se non nel
sangue di Cristo crocifisso. Perciò Santa Caterina esorta ad
accostarci al suo infinito amore che si è manifestato sulla Croce e
viene simboleggiato dall’immagine del sangue: «v’annegate nel
sangue di Cristo crocifisso; perocché ora è il tempo di provare la
virtù nell’ anima»213.
Solo così, attingendo amore per il combattimento spirituale
all’amoroso sangue di Cristo crocifisso, si può vincere, cioè
diventare più virtuosi. Se si fa così, la prova non porta danno, ma
dà vantaggio: «Sicché dunque vedete, che nel tempo delle grandi
battaglie l’anima viene a maggiore perfezione, e provasi nella
virtù»214.
Va sottolineato che Dio non permette o
concede una prova, se non nel servizio della virtù. Riaffermando
quello che abbiamo detto della libertà umana nel primo capitolo
asseriamo che se diminuische la nostra virtù, la responsabilità è
nostra, poiché Santa Caterina inevocabilmente insegna: benché le
virtù vengano provate per i contrari, tuttavia «non tolte mai, se
noi non vogliam»215.
Come se leggessimo le parole di San Paolo: «Iddio è fedele, e non
permetterà che siate tentati oltre quel che potete, ma con la
tentazione vi procurerà anche la via d’uscita, onde possiate
sopportarla»216.
La malizia del demonio cospira con la
debolezza della nostra natura (per cui il desiderio s’infiacchisce,
abbandona l’impresa nel mezzo) e cerca di persuaderci che non
riusciamo mai a combinare qualche cosa di buono.217
L’aiuto nostro è l’orazione è l’arma con la quale ci
difendiamo, è «uno legame che lega e fortifica la volontà nostra
in Dio»218.
Se si riconosce che la virtù «non
si pruova se non per lo suo contrario»219,
i pesi della vita cristiana diventano veramente dolci. Chi ama Cristo
crocifisso e si unisce a Lui è libero e lieto pure nella sofferenza.
Or che può fare il mondo, il
dimonio, e i servi suoi a colui che si truova in questo smisurato
amore, che s’ à posto per obietto il sangue? niente. Anzi sono
istrumento di darci, e di provare in noi, la virtù; imperocché la
virtù si prova per lo suo contrario. E però debbe l’anima godere
ed esultare, cercare con sua pena sempre Cristo crocifisso, e per lui
annichilare e avvilire sé medesimo; dilettarsi sempre di pena e di
croce. Volendo pena, tu hai diletto; e volendo diletto, tu hai pena.
Adunque meglio ci è annegarci nel sangue, e uccidere le nostre
perverse volontà con cuore libero al suo Creatore, senza veruna
compassione di sé medesimo. Allora sarà pieno il gaudio e la
letizia in voi.220
2.6 Il prossimo
Il
desiderio infinito dell’anima si concreta nel servizio del
prossimo221.
Il prossimo è il reagente indispensabile per trasformare il puro
desiderio in atti concreti e in offerta di sacrificio.
La
virtù, qualità dell’anima, non può non manifestarsi anche
esternamente. Agere
sequitur esse,
se l’essere è virtuoso altrettanto lo sarà il suo agire.
L’azione d’altra parte coinvolge sempre anche le persone distinte
dall’agente ed è per questo che Caterina dice che è impossibile
fare del bene a sé senza farlo anche agli altri: «niuno può fare
bene a sé che non faccia al prossimo suo»222.
L’orazione è la madre di tutte le
virtù: nella carità divina le concepisce e nella carità del
prossimo le partorisce. Quindi dove e quando nasce la virtù? La vera
virtù viene alla luce quando si realizza in rapporto con il
prossimo. Se in questo capitolo stiamo cercando le caratteristice
particolari della dottrina catreriniana delle virtù, adesso possiamo
dire che pure questa risposta - la virtù nasce nel prossimo - è
molto tipica.
Chi comincia ad amare Dio non può
fare a meno di amare anche il suo prossimo, poichè per l’opera
dello Spirito Santo ha un solo desiderio nel cuore che è il
«desiderio verso l’onore
di Dio e salute dell’anime»223.
Trattando l’immagine del ponte, a proposito della libertà abbiamo
osservato che Santa Caterina metteva in evidenza che l’amore
di Dio e quello del prossimo era una medesima cosa, perché l’amore
verso il prossimo derivava dall’amore di Dio224.
Santa Caterina non distingue tra amore di Dio e amore del prossimo:
non c’è che un unico amore di carità, e l’oggetto suo è Dio.
Se l’albero dell’anima vive la vita di grazia, dà lode a
Dio e utilità a sé e al prossimo. (Anche a sé che è il primo suo
prossimo.) Ora l’amore è unico e se uno vuole bene a Dio, vuole
bene a sé stesso e agli altri, ma se uno non ama Dio, «fà danno al
prossimo e al sé medesimo»225.
Il Dialogo ci spiega
inequivocabilmente che «ogni
virtù si fa col mezzo del prossimo , e ogni difetto»226.
Quindi non vi è peccato che non sia di pregiudizio verso il prossimo
e non vi è atto di virtù che non contribuisca alla sua salvezza227.
Il contrario della virtù è qando
spesso la prova proviene dal prossimo. Ciononostante dobbiamo amarlo.
Questo amore significa una carità molto concreta: «[...]
l’anima [...] vedendo che a Dio
non può fare utilià neuna, distenderà l’amore al prossimo suo,
facendo a lui quella utilità ch’egli non può fare a Dio;
visitando gl’infermi, sovvenendo e’ poverelli, consolando e’
tribolati, piangendo con coloro che piangono, e godendo con coloro
che godono [...] »228.
Le virtù si attuano in questo
servizio del prossimo, il quale servizio può significare due tipi di
agire: opere di misericordia corporali oppure opere di misericordia
spirituali. Anche queste ultime sono importantissime, anzi le più
importanti, perché fanno parte del piano della Provvidenza per il
governo del mondo e si inseriscono nel piano della Redenzione. Pare
che quando Santa Caterina dice che l’orazione partorisce le virtù
nel prossimo, pensi soprattutto a quell’atto di misericordia
spirituale che consiste proprio nell’orazione per il prossimo. Così
l’orazione diventa non solo l’inizio, ma anche la realizzazione
completa della virtù. Così la preghiera diventa una vera madre che
non solo concepisce, ma porta anche alla luce i suoi figli.
«Fare utilità al prossimo» è da
molti inteso come sinonimo di soccorrere i poveri - con cibo, vesti,
denaro o in altre forme di aiuto - nei loro bisogni materiali. Santa
Caterina non esclude certo questo aspetto della carità; lo vuole, lo
raccomanda esplicitamente ed implicitamente. Lo raccomanda
implicitamente vivendo questa forma di carità così radicalmente
«che potremmo chiamare “la Santa dei poveri” se altri aspetti
più singolari della sua vita non distoglissero da quello la nostra
attenzione»229.
Il Beato Raimondo scrive che «Caterina sentiva un’ammirabile
compassione verso i poveri, e verso gli infermi era di una pietà
senza limiti.»230
Tuttavia della carità spirituale, più ancora che della carità
materiale, Santa Caterina ci ha dato l’esmpio, strappando al
peccato «una infinità di persone, uomini e donne»231.
Mentre sottolineiamo che il santo
desiderio deve concretarsi in atti di utilità verso il prossimo, non
dimentichiamo che abbiamo asserito sopra che il nostro primo servizio
a Dio si attua per il desiderio puro che nutriamo verso l’onore di
Dio e la salvezza di tutti gli uomini. Per questo non detengono il
primato le opere di misericordia corporali, ma quelle spirituali.
L’anima che infatti cerca nel prossimo il mezzo per attuare la
carità divina, vorrebbe poter giovare agli uomini di tutto il mondo,
e si sforza di farlo con la preghiera e l’ardore del desiderio.
Soltanto in un secondo tempo, quando sente il bisogno di unire alla
preghiera le opere, si trova costretta a concentrarsi in campo di
azione proporzionato alle proprie possibilità, ma anche qui il bene
spirituale terrà il primo luogo e l’utilità fisica avrà il
secondo posto232.
Perché «doviamo esser costanti e
presevereanti nella carità di Dio e del prossimo»? Perché Cristo
crocifisso, «questo dolce e amoroso Verbo» ce ne ha dato esempio233.
Ma perché non possiamo dimostrare il
nostro amore direttamente al Creatore? Perché è necessario il
prossimo? Santa Caterina spiega a una Mantellata, Caterina da Scetto:
Ma non veggo che del nostro noi
potiamo fare utilità a lui (Cristo crocifisso); dobbiamo adunque
fare utilità al prossimo nostro, perocché egli è quel mezzo dove
noi proviamo e acquistiamo la virtù... Sicché vedi che in Dio
concipiamo le virtù, e nel prossimo si partoriscono. Sai bene che
nella necessità del prossimo tuo, tu partorisci il figliuolo della
carità ...; e nella ingiuria che tu ricevi da lui, la pazienza.234
Le virtù concepite nella preghiera,
cioè nel santo desiderio, vengono alla luce nel prossimo. La
creatura riconoscendo nella luce della fede che, benché ami il suo
Creatore non gli può fare nessuna utilità cerca di essere utile al
suo prossimo.
Il prossimo è il mezzo che Dio ci
offre per amare di un amore disinteressato e premuroso, con il quale
amore proviamo la sincerità del nostro amore verso Dio,
rispecchiando in modo più fedele l’amore suo per noi.235
Dio infatti lo amiamo di «debito» in quanto Egli ci ha amati per
primo; il prossimo invece lo possiamo amare tutto gratuitamente senza
pensare di essere contracambiati236.
Allora facciamo al prossimo quello che non possiamo fare a Dio
amandolo gratuitamente, per la «delizione della carità» e così
imitiamo Cristo crocifisso.
Come l’anima ama in verità il suo
Creatore e Redentore, «fà così utilità al prossimo suo»237.
E Santa Caterina spiega anche il motivo del fatto che proprio il
prossimo, cioè la creatura che ha in sé ragione, è il mezzo per
poter dimostrare l’amore verso Dio. Il motivo è la natura
dell’amore stesso. L’anima infatti «ama la creatura perché vede
che il Creatore sommamente l’ama; e condizione è dell’amore,
d’amare tutte quelle cose che sono amate dalla persona amata238.
Dobbiamo essere utili, non a Dio
direttamente, perché non lo possiamo fare, ma a nostro fratello. «Or
con questo mezzo potiamo osservare quello che egli ci richiede per
gloria e loda del nome suo.» Per mostrare il nostro amore verso Dio,
dobbiamo amare tutti quelli che sono amati da Lui: «servire e amare
ogni creatura che ha in sé ragione, e distendere la carità nostra a
buoni e cattivi»239.
Il prossimo allora non vuol dire «amico», anzi i veri seguaci di
Cristo crocifisso devono amare anche quelli che non l’amano «perché
sono creature di Dio» e «perché sono strumento e cagione di ponere
le virtù in loro, e farli venire a perfezione; e specialmente in
quella reale virtù della pazienzia, virtù dolce, che non si
scandalizza né si turba, né dà a terra per alcuno vento contrario,
né per alcuna molestia d’ uomini»240.
Il virtuoso che è virtuoso proprio per la carità divina, ama quindi
tutti: perfetti, imperfetti, buoni, iniqui imitando la perfetta
carità di Dio.
L’anima quindi riconosce l’infinito
amore di Dio che non si estende solo a lei, ma «ad ogni creatura che
ha in sé ragione, ad amici, e a nemici». Vedendo ciò anche lei
comincia ad amare tutti, anche se non per gli stessi motivi. Il
virtuoso lo «ama per amore della virtù, e in quanto egli è
creatura; e lo ingiusto e iniquo peccatore, l’ ama, sì perché
egli è creato da Dio, e si perché egli si parta dal vizio, e venga
alla virtù». Per questi motivi quindi l’uomo comincia ad amare il
fratello sia buono o meno. Questa carità verso il prossimo alimenta
l’amore stesso, o - come dice Santa Caterina - l’uomo che ama il
prossimo «diventa gustatore e mangiatore dell’ anime»241.
Chi pratica la virtù è utile allo
stesso tempo a sé ed agli altri nel senso che i virtuosi con
l’esempio della loro vita provocano la conversione dei peccatori.
Anco
ti dico, che non tanto che si pruovi la virtù in coloro che rendono
bene per male, ma Io ti dico che spesse volte gittarà carboni accesi
di fuoco di carità, il quale dissolve l’ odio e ‘l rancore del
cuore e della mente de l’ iracundo, e da odio torna spesse volte a
benivolenzia; e questo è per la virtù della carità e perfetta
pazienzia che è in colui che sostiene l’ ira de l’ iniquo,
portando e sopportando i difetti suoi.242
Anche se la carità verso il prossimo
è l’unico modo di poter provare che si ama Dio, questa carità
deve essere molto ordinata. Altrimenti non sarabbe affatto
un’autentica espressione dell’amore di Dio. I limiti della carità
per il prossimo sono ben precisi: Dio è colui che va amato per sé,
le creature solo per Dio:
La Carità non cerca le cose
sue, e non cerca sé per sé, ma sé per Dio, ... e non cerca Dio per
sé, ma Dio per Dio, in quanto è degno d’essere amato da noi per
la bontà sua; e non ama né cerca né serve il prossimo suo per sé,
ma solo per Dio, per rendergli quello debito il quale a Dio non può
rendere, cioè di fare utilità a Dio. Perché già io ti dissi che
utilità a Dio non possiamo fare: e però il fa Dio fare al prossimo
suo; il quale è uno mezzo, che c’è posto da Dio per provare la
virtù, e per mostrare l’amore che abbiamo al dolce ed eterno Dio.243
La stessa verità viene espressa negli
scritti di Santa Caterina quando si distingue tra l’amore infinito,
senza misura, reso a Dio e quello regolato ed ordinato, reso al
prossimo. Ciò non è una distinzione vera e propria, poiché l’amore
è sempre lo stesso, quello infinito e divino, ma con questo amore
infinito Dio va amato «senza modo» il prossimo invece «con modo»244.
I veri servi di Cristo crocifisso sono
quelli «i quali amano per Cristo e per amore della virtù e non per
propria utilità»245.
Amare il prossimo in modo giusto vuol dire che egli va amato non per
utilità o per qualsiasi altro motivo, ma per amore di Cristo e per
amore della virtù. (In ultima analisi questi due amori sono una cosa
sola.)
Una verità fondamentale è che il
«principale prossimo»246
è il proprio io, che va amato con una carità molto ordinata, ma
vera e intensa. Come abbiamo già visto, l’amare noi stessi in
ultimo istante significa amare ed acquistare le vere virtù. Siamo
responsabili prima di tutto per la nostra salvezza e solo dopo per la
salvezza altrui. Tuttavia questo amore verso noi stessi è
inseparabile da quello del prossimo, anzi diventa il primo atto del
amore verso gli altri infatti «
[...] l’anima non può fare
vera utilità di dottrina, d’esemplo e d’orazione al prossimo suo
se prima non fa utilità a sè, cioè d’ avere ed acquistare la
virtù in sé»247.
Santa Caterina scrive alla badessa del monastero di santa Maria degli
Scalzi in Firenze che «non si può nutrire gli altri con le virtù
se prima non si nutre con quelle»248.
Una vera «crudeltà verso il prossimo
non dare l’esempio di virtù»249.
Per evitare questa crudeltà verso il prossimo conviene essere «uno
specchio di virtù, acciocchè la virtù ammonisca più che le
parole».250Per
l’esempio della vita, con la dottrina della parola e con la
continua e umile orazione dobbiamo diventare strumenti della
Provvidenza per salvare le anime, poiché questo è il nostro
dovere251.
Poiché «non potremmo nutricare
altrui se prima non nutricassimo l’anima nostra di vere e reali
virtù»252
è necessario attendere a noi stessi per poter servire gli altri.
Tuttavia il servizio del prossimo reagisce su noi stessi
positivamente. Chi è vero seguace di Cristo crocifisso gusta il cibo
delle anime e per questo cresce in virtù. Dedicandosi alla salvezza
dei fratelli si viene liberati dall’egoismo. Questa liberazione è
frutto del sacrificio di sé per il prossimo, il quale è
simboleggiato per esempio dall’immagine dello stomaco che scoppia
per il troppo cibo. Tale anima infatti «tanto rigonfia per
l’abondanzia del cibo, che il vestimento della propria sensualità
[...] criepa quanto all’appetito sensitivo. Colui che criepa muore:
così la voluntà sensitiva rimane morta. Questo è perché la
voluntà ordinata mia, e però è morta la sensitiva.»253
Dopo aver analizzato il ruolo decisivo
del prossimo nella vita virtuosa, potremmo definire la virtù come
l’esercizio della carità nel prossimo.254
Questa pratica delle virtù nel prossimo viene facilitata dal fatto
che Dio non ha dato a ciascuno tutte le doti di cui avesse stretta
necessità, ma abbiamo bisogno gli uni degli altri. Gli uomini sono
tra loro interdipendenti255.
Ciò proviene dalla sapienza di Dio: «bene
potevo fare gli uomini dotati di ciò che bisognava, e per l’ anima
e per lo corpo; ma Io volsi che l’ uno avesse bisogno dell’altro»256.
Questo aspetto però lo rivediamo nell’ultimo capitolo della tesi
nell’analisi della giustizia.
2.7 Maria dolce
Trattando la dottrina cateriniana
della virtù non si può trascurare Maria Santissima.257
Se è vero che non si puo considerare la virtù se non nel contesto
della dottrina di Cristo crocifisso, è vero anche che il
cristocentrismo è inseparabile dal riconoscimento del ruolo della
Santa Madre di Dio258.
Ciò è vero sempre, ma vale in modo particolare nell’insegnamento
di Santa Caterina da Siena. Il ruolo decisivo di Maria viene
dimostrato dal solo fatto che Santa Caterina comincia tutte le sue
lettere «Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce»; e
non di rado finisce con il dolce nome di Maria così: «Gesù dolce,
Gesù amore. Maria»259,
«Maria dolce»260,
«Maria dolce madre»261,
oppure «Laudato sia Gesù Cristo crocifisso e Maria dolce»262,
«Laudato sia Cristo crocifisso, e la sua dolcissima Madre, gloriosa
Vergine, Madonna santa, Maria, Gessù dolce, Gesù amore»263.
Come Maria santissima, beata e addolorata è stata sotto la croce del
suo Figlio così è anche accanto a noi sulla strada della virtù.
Maria è l’esempio di ogni virtù.
Se Cristo crocifisso è la nostra via, allora Maria Santissima è
quella pedagoga che ci conduce su questa via. Per Santa Caterina la
collaborazione di Maria all’incarnazione è il fatto per cui Maria
diventa l’esempio delle virtù. Citiamo un tratto della preghiera
pronunciata da Caterina in estasi il 25 marzo 1379, festa
dell’Annunciazione:
O Maria vassello d’umilità,
nel quale vassello sta e arde el lume del vero cognoscimento, col
quale tu levasti te sopra di te, e però piacesti al Padre etterno,
unde egli ti rapì e trasse a sé amandoti di singulare amore. Con
questo lume e fuoco della tua carità e con l’olio della tua
umilità traesti tu e inchinasti la divinità sua a venire in te
[...] In te [...], o Maria, si dimostra oggi la fortezza e libertà
dell’uomo perché, dopo la deliberazione di tanto e sì grande
consiglio, è mandato a te l’angelo ad annunciarti il mistero del
consiglio divino e cercare la volontà tua, e non discese nel ventre
tuo il Figliuolo di Dio prima che tu lo consentissi con la volontà
tua.» 264.
Il corpo del Verbo incarnato è «della
carne di Maria»265.
L’umanità del Verbo è «tratta dal ventre dolce di Maria»266.
L’eccezionale dignità della Beata Vergine proviene dal fatto che
ella è la vera madre di Cristo, vero uomo e vero Dio. È vero che
Santa Caterina non usa il linguaggio teologico del ventesimo secolo,
tuttavia afferma inequivocabilmente che Maria è vestito di ogni
perfezione ed è nello stato perfetto delle virtù dall’inizio
della sua vita come nuova Eva:
Dato è a noi el Verbo etterno
per le mani di Maria; e della sostanza di Maria si vestì della
natura nostra senza macchia di peccato originale, perché quella
concezione non fu per opera d’uomo, ma per opera nello Spirito
santo; la quale cosa non fu così in Maria, poiché che ella
procedette della massa di Adamo non per opera di Spirito santo, ma
d’uomo. E perché tutta quella massa era putrida e corrotta, però
non si poteva infondere quella anima in materia non corrotta, né
propriamente si poteva purgare se non per grazia di Spirito santo, la
quale gracia corpo non può ricevere, ma spirito ragionevole o
intellettuale; e perciò Maria non poté essere purgata di quella
macchia se non dopo che l’ anima fu infusa del corpo, la qual cosa
così fu fatta per reverenza del Verbo divino el quale doveva entrare
in quel vassello. Poiché, così come la fornace in poco tempo
consuma la gocciola dell’acqua, così fece lo Spirito santo della
macchia del peccato originale, infatti dopo la concezione sua subito
fu mondata da quel peccato e le fu data grande grazia. Tu sai,
Signore, che questa è la verità.267
Abbiamo dimostrato sufficientemente
che - secondo l’ammaestramento di Santa Caterina - noi, peccatori
impariamo le virtù, nella misura in cui impariamo ad imitare Gesù
che sulla croce è morto per amore. Benché la Santa Vergine non ha
delle colpe da soddisfare, non ha bisogno di combattere contro le
proprie passioni disordinate, tuttavia risulta la più fedele seguace
di Cristo crocifisso: Maria, soffriva anche lei. Anzi la sua «croce»
è paragonabile solo a quella di suo Figlio. Per questo Maria
Santissima è tra gli uomini la più autentica maestra di virtù,
anche se la sua vita è tutta eccezionale, poiché è perfettamente
unita alla vita del suo Figlio:
Ella (Maria), come arbore di
misericordia, riceve in sé l’anima consumata del Figliuolo, la
quale anima è vulnerata e ferita della volontà del Padre; ella,
come arbore che à in sé lo’nnesto, è vulnerata col coltello
dell’odio e dell’amore. Ora è tanto moltiplicato l’odio e
l’amore nella Madre e nel Figliuolo, che ‘l Figliuolo corre alla
morte per lo grande amore che egli à di darci la vita; tanta è la
fame e ‘l grande desiderio della santa obbedientia del Padre, ch’
egli à perduto l’amore proprio di sè e corre alla croce. Questo
medesimo fa quella dolcissima e carissima Madre, che volontariamente
perde l’amore del Figliuolo: che non tanto ch’ ella faccia come
madre, che ‘l ritraga dalla morte, ma ella si vuole fare scala e
vuole ch’ egli muoia. Ma non è grande fatto, però ch’ella era
vulnerata della saetta dell’amore della nostra salute.268
Se Cristo ci insegna la dottrina delle
virtù dalla cattedra della croce, Maria ne dà un esempio perfetto
sotto la croce. Santa Caterina scrive a Beato Raimondo della dottrina
di Maria la quale non è che la dottrina di Cristo crocifisso:
«Ricordivi, carissimo padre e negligente figliuolo, della dottrina
di Maria, e di quella della dolce prima Verità. [...] Ho speranza in
quella dolce madre Maria, che adempirà il desiderio mio. Perdete voi
medesimo e cercate solo Cristo crocifisso, e non veruna altra
creatura»269.
Ella da una parte è il modello più
splendente della vita degna dell’uomo e gradita a Dio, dall’altra
è la nostra educatrice alla vita virtuosa. Per questo Caterina ci
esorta ad essere docili: «Io voglio che impariate da quella dolce
madre Maria, che per onore di Dio e salute nostra ci donò il
Figliuolo, morto in sul legno della santissima croce»270.
L’amore di Maria ci incoraggia per
rivolgerci a Lei con fiducia, poiché Maria è la vera e dolce madre
dei fedeli, soprattutto di coloro che si affidano e servono a Lei:
la quale è nostra avvocata,
madre di grazia e di misericordia. Ella non è ingrata a chi la
serve; anco, è grata e cognoscente. Ella è quello mezzo, che
drittamente è uno carro di fuoco, che concependo in sé il Verbo
dell’unigenito Figliuolo di Dio, recò e donò il fuoco dell’amore:
perocch’egli è esso amore. Adunque servitela con tutto il cuore e
con tutto l’affetto, perocché ella è madre dolcissima vostra.271
L’eterno Padre rivela nel Dialogo
di Maria che «ella è
come una esca posta da la mia bontà a pigliare le creature che ànno
in loro ragione»272.
Dunque se vogliamo seguire Cristo crocifisso, rivolgiamoci
alla sua e nostra dolce Madre Maria, come esorta Santa Caterina:
«Ricorri a quella dolce Maria che è madre di pietà e di
misericordia. Ella ti menerà dinanzi alla presenzia del figliuolo
suo.»273
3. Conclusioni
In questo capitolo abbiamo
approfondito la nostra domanda su quello che riguardava la via della
salvezza. Abbiamo asserito nel primo capitolo che le virtù
caratterizzano talmente l’uomo creato all’immagine di Dio che
quegli non può raggiungere la méta della vita senza di esse. Il
peccato originale ha compromesso il vestito originale della virtù in
cui la creatura che ha in sé ragione è stato creato. Per questo
bisogna riacquistarle. Sempre nel primo capitolo abbiamo affermato
che per Cristo crocifisso è possibile rivestirsi delle veri e reali
virtù in quanto Egli è il nostro vero liberatore e noi siamo fatti
liberi per il sangue suo.
Nel capitolo presente abbiamo posto
qualche domanda più particolare. Dove si trovano le vere e reali
virtù da imparare e in quale maniera si acquistano? La risposta di
Santa Caterina è inequivocabile, in quanto le vere virtù si trovano
in Cristo crocifisso e si acquistano per Lui con fatica seguendolo.
Le virtù uniscono l’anima a Cristo crocifisso e l’unione con Lui
comporta l’essere virtuoso. Solo chi ama Cristo crocifisso può
possedere quella perfezione dell’anima che si chiama virtù.
La concreta realizzazione della
sequela del Crocifisso non è che l’amore del prossimo. Questo
amore però presuppone prima di tutto la vera conoscenza di sé e di
Dio. Da questa conoscenza - che non può esserci senza la
contemplazione della croce di Cristo - nasce il desiderio santo
dell’onore di Dio e della salvezza dei fratelli (siano buoni o
cattivi). L’anima, vedendo che senza le virtù non può né piacere
a Dio né fare utilità al prossimo, si accende di amore per le virtù
stesse. Ma non basta amare le virtù, dobbiamo anche acquistarle per
«il contrario». La sequela pratica di Cristo significa una lotta
quotidiana per avere le virtù e così glorificare Dio e promuovere
la salvezza propria e quella degli altri.
Chi pratica la virtù, - pur faticando
- trova gioia in tale esercizio. La trova perche è unito con Dio,
fonte di ogni felicità, e anche perché si è abituato ad operare
secondo l’indicazione della ragione illuminata dalla fede. Se le
virtù vengono provate, sarà sempre più facile attuarle. I perfetti
«parturiscono le virtù senza pena sopra del prossimo loro»274.
Per la prova, la virtù si interiorizza e così per un virtuoso
l’amare il prossimo non è un obbligo estraneo da soddisfare. Anzi
si possono anche dimenticare i precetti di Cristo, poiché il
virtuoso si è talmente unito con Lui che non può agire se non
secondo il suo esempio275.
Nell’ultimo punto di questo capitolo
abbiamo unito la dottrina di Cristo crocifisso con la dottrina di
Maria dolce. Quest’ultima fa parte integrale della prima, in quanto
Maria non solo dimostra la perfetta sequela del suo Figlio, ma - come
dolce Madre ed avvocata nostra - ci aiuta a compiere la verità di
Dio in noi.
1Dial.
IV. p.9.
2Dial.
XXVII. p.72-73.
3Cf.
T. Mazzei, Le
virtù nel Dialogo Cateriniano, p.24.
4Dial.
CXXXV, p. 433.
5Dial.
XXVII, 75; cf. XXXI, 84.
6G.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle
anime. Le virtù», A. XIV, n. 1. p. 12.
7Dial.
XXIX, 78-79.
8Cf.
Dial. CXV, 323.
9Lett.
2, p.1480; Cf. Sal
104,15, 2Re 1,14.
10Dial.
XXIX, 80-81 r.292-303; cf. Dial.
CXV, 322.
11G.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle
anime. Le virtù», A.XIV, n.2, p.16.
12G.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle
anime. Le virtù», A.XIV, n.2 p.16.
13
Dial. XXVI, p. 70.
14Cf.
Dial. LXXVI;Cf. T. Mazzei,
Le virtù nel Dialogo Cateriniano,
p.70-71.
15Lett.94, p.1430.
16Lett.120, p.
585-586.
17Dial.LI, p.138.
18Dial.
LXXXVI, p. 227.
19Dial.LIV, p.143.
20Dial.LIV, p.143.
21Dial.LIV, p.
142.
22Dial.LI, p.137.
23Dial.LIV, p.143-144.
24Dial.CXXIV.
25Dial.
LXXIX.
26Dial.CXXIV.
27Dial.
CXLV.
28Oraz.,
XVI, p.129.
29Lett.
224, p.602.
30Certo,
da un altro lato, dobbiamo seguire «le vestigie dell Padre» amando
i buoni e cattivi, come lo fa Dio Padre. Cf.
Lett.94, p.1229.
31Dial.LIII, p.139.
32
Se Caterina fosse stato membro di un ordine, nel quale si avesse
avuto un secondo nome corrispondentemente alla propria spiritualità
(vedi per es.: Santa Teresa del Bambino Gesù), Caterina avrebbe
potuto avere questo nome: «Caterina di Cristo Crocifisso e di Maria
Dolce».
33Lett.108, p.963964.
34Cf.
Vita, 207, p.221;
Lett. 16. p. 229.
35Cf.
Gv 14,6; Dial.
XXVII; CCC, 1694:
«Alla sequela di Cristo e in unione con lui, i cristiani possono
farsi «imitatori di Dio, quali figli carissimi», e camminare
«nella carità» (Ef
5,1), conformando i loro pensieri, le loro parole, le loro azioni ai
«sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil
2,5) e seguendone gli esempi.»
36Dial.
XXVI, p. 72.
371
Sam 25,25
38Vita,
90, p.102.
39Cf.
Gal 2,19-20.
40Lett.
196.
41Mt
17,4
42Cf.
Es 20,4
43Lett.
172. p. 1338.
44Cf.
Mt 11,6
45Cf
. «Con questo dolce e vero Agnello passerete questa tenebrosa
vita, e giungerete alla vita durabile, dove si pascono e’ veri e
dolci gustatori.» Lett.
224. p. 602.
46Oraz.,
II, p. 9.
47Oraz.,
I, p. 3.
48Lett.
169, p. 1240.
49Lett.
331. p. 1419-1420.
50Dial.
XLI.
51Cf.
Dial. CXIX, p. 343;
CXXXIV, p. 425; CXLVIII, p. 495;
52Lett.
225. p. 1246.
53
Dial. IV, p. 9.
54Vita,
100, p.113.
55Cf.
Vita, 334, p.348.
56Cf.
Gn 1,16.
57Lett.
31, p.549.
58La
Chiesa stessa ha riconosciuto questa universalità con il titolo
«Dottore della Chiesa».
59Cf.
Mt 13,34
60Lett.
62, p. 868.
61Lett.
33.
62Lett.
35, p..
63Cf.
Lett. 34, p. 1320.
64Lett. 251.
65Lett. 27.
66Cf.
Dial. C, p.276-277.
67Lett.
354. p.659.
68Cf.
Mazzei, T., Le
virtù nel Dialogo Cateriniano, p.2-3.
69Dial. LXIV, p.
166
70
Lett. 241, p.903.
71Lett.
35.
72Lett. 27.
73Lett.173, p.1470.
74Cf.
Lett. 46.
75Cf.
Lett. 340, p.1690.
76Dial.
XI, p.31.
77Lett. 150. p.1394.
78Dil.,
CLXVI, p.583.
79Lett.
27
80Cf.
Mt 16,24.
81Oraz.,
XXI. p.48.
82Dial.
I, p.3.
83Lett.
173, p.1472
84Lett. 27.
85Lett.108, p.963.
86Dial.
I, p.1.
87Lett.
184, p.1524
88Lett.94, p.12311232.
89Mt
11,30.
90Dial.
IV, p.10-11.
91Lett.173, p.1472;
cf. «Nella catechesi è importante mettere in luce con estrema
chiarezza la gioia e
le esigenze della via di Cristo». CCC,
1697.
92Cf.
Lc 9,23.
93Lett.108, p.963.
94Lett.
107, p. 1540
95Cf.
Dial. LXXXIX, p. 236.
96
Cf. Dial. cap.
LXXXVII - XCVI.
97Dial.
LXXXVIII, p. 231-232.
98Dial.
cap. LXXXVII, p.232.
99Lett.
154. p. 1398.
100Dial.
CLXVI, p.583.
101Cf.
T. S. Centi
«Il mistero della Croce nella vita e nel pensiero...», XXIV (1975)
n.4, p.330-338.
102Cf.
L’antifona mariana Salve Regina.
103Cf.
I. Venchi, una lezione,
tenuta all’Angelicum, 15.03.1996. sul tema: Santa Caterina e la
riforma dei domenicani all’inizio del cinquecento.
104Cf.
B. Raimondo, Vita, I. könyv, 2. fej. p. 41-42; II. könyv, 6. fej.
p. 201-213.
105Jacopone
de Todi, † 306.
106Vita
183, p.201.
107Cf.
Lc. 7,44
108Dial.
LXXXVII, p. 230.
109Lc
20,11
110Ct
3,1
111Rm
12,15
112Cf.
IICor 2,4; Fil
3,18; IITm 1,4
113Cf.
Mc 14,72
114Dial.
LXXXIX, p. 232.
115B.
Raimondo, Vita, II.cap. VI. 180. p.199.
116Cf.
Gv 11,35
117Dial.
XCI, p. 243.
118Lett.
228. p. 709.
119Dial.
XCI, p. 243-244.
120Sal
41,4; Cf. Lett. 87;
53; ed ancora: 84; 100; 119; 296.
121Lett.
63. p. 1543.
122Sal
79,6
123Sal
118, 136
124Lett.
356. p. 1640. Cf. Lett.
141; 348
125Cf.
Lett. 44. p. 735.
126Lett.
272. p. 1153.
127Lett.
356. p. 1640.
128
Cf. Platone, Alcibiade
Maggiore, 128d - 130e: «Socrate: Qual è
l’arte di rendere migliori noi stessi, non lo potremo sapere mai,
se noi ignoriamo che cosa siamo noi stessi? [...] è così: se noi
conosceremo, noi sapremo forse anche qual è la cura che dobbiamo
avere di noi stessi; se non ci conosceremo, non lo sapremo mai.»
(traduzione presa da: Reale, Giovanni,
Storia della filosofia antica, I. Dalle
origini a Socrate, Vita e pensiero, Milano
[1991], p.307.)
129Lett.
94, p.12321233.
130Dial.
IV.
131Dial.
LXXXVI, 286.
132Lett.
154.
133Lett.
94, p.12321233.
134G. Cavallini,
«Le virtù», A.XIV, n.3, p.17; Cf. Lett.
226. Cf. Lett.
340
135
Lett. 37.
136
Lett. 37; cf.
Dt 6,5; Mt 22,37;
Mc 12, 30; Lc
10,27.
137
Cf. Lett. 154.
138 Cf.
G. Cavallini, «Le
virtù», in L’Albero della Carità,
A.XIV, n.3, p.17; cf. Lett. 340.
139
Lett. 13.
140Cf.
Haro, p. 35.
141Dial.
XLVI, p. 120.
142Dial.
LI,
143G.
Cavallini, «Le virtù»,
in L’Albero della Carità,
A. XIV, n.3, p.17
144Cf.
Oraz., V, p. 27; XV, p. 123; VIII, p. 75; XI, p. 94; XXI, p. 48, 52;
XXII, p. 56; XIX, p. 37; XII, p. 107; ecc.
145Lett.173, p.1470.
146Cf.
Dial. X
147Cf.
Lett. 340.
148G.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle
anime. Le virtù», A. XIV.n.3. p. 17.
149Lett.173, p.1470.
150Lett.
199.
151
Lett. 203; cfr. .
G. Cavallini, «Le virtù», A. XIV, n.1,
p.13.
152Lett.
150, p.1393.
153Cf.:
«Oratio est conversatio sermocinatioque cum Dio» San Gregorio da
Nyssa, Orat. I de orat. dominic., Migne, Patr. graec.. 44, 1125.
154Lett.86, p.1081.
155Cf.
G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle
anime. Le virtù»,A. XIV, n. 1, p.13; cf. Lett.
p. 203.
156Lett.86, p.1081.
157Lett.86, p.1081.
158Cf.
R. G. de
Haro, La
vita Cristiana, p.461.
159Lett.
94, p.1233.
160Cf.G.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle
anime. Le virtù», A. XIV, n. 1, p.13; cf. Lett.
p. 203.
161
Lett. 213.
162Lett.94, p.12321233.
163Cf.
Lett. 220.
164Cf.
G. Cavallini, «Caterina
madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV. n. 2, p. 15
165Lett.
194. p. 606.
166Lett.
203. p. 1359.
167Cf.
Lett. 194. p. 606.
168Dial.
I, p. 1.
169Cf.
G. Cavallini, «Caterina
madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV, n.2. p. 17
170Cf.
G. Cavallini «Caterina
madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XV, n.2, p.14- 17.
171Dial.IV, p.9
172Cf.
Lett. 203. p. 1361.
173Cf.
Lett. 213.
174G.
Cavallini Le virtù,
in L'Albero della Carità,
A.XV, n.1, p.15 - 18.
175Lett.
154.
176Lett.
109.
177Lett.
226.
178Cf.
Lett. 213.
179Cf.
Dial. XCII.
180Lett.
34.
181Cf.
Dial. XI.
182Lett.
213.
183Lett.108, p.963964.
184Dial.I, p.1.
185Dial.
I, p.1.
186Cf.
Cav. Intr. del Dial.
p.XXII.
187Dial.
XXIX: p.19
188Cf.
Lett. 71, p. 588.
189Dial.LIV, p.142.
190Lett.
20. p. 266.
191Dial.CV:
p6.
192Lett.
179. p. 1579.
193Lett.
20. p. 809.
194Lett.
60. p. 1665.
195Lett.
142. p. 875.
196Cf.
R. G. de Haro, La
vita Cristiana, p.461.
197Dial.
VII: p.10.
198Dial.LVIII, p.149.
199Cf.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.
XV. n. 2. p.14.
200Cf.
Cavallini, n.2, 15:
201Cf.
Lett. 71, p. 590.
202Lett.
184, p.1522-1523.
203Lett.
71, p. 590.
204Lett.
80.
205Lett.
80.
206Cf.
Dial. XVIII.
207Lett.
83.
208Lett.
80.
209Dial.
LX.
210Dial.
XXIV.
211Cf.
T. Mazzei, Le
virtù nel Dialogo Cateriniano, p. 63.
212Cf.
Dial. CXLV, p. 480.
213Lett.
117.
214Lett.
287.
215Lett.
213. p. 1011.
216ICor
10,13
217Cf.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.
XIV. n.2. p.17.
218Lett.
169.
219Dial.
XVIII.
220Lett.
187.
221Cf.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù»,
A.XV. n. 2. p.14.
222Dial.
XXIV. Cf. T. Mazzei, Le
virtù nel Dialogo Cateriniano, p. 57-58
223Dial.
I, p. 1.
224Cf.
Dial. VII., p.22;
«Ratio autem diligendi proximum Deus est: hoc enim debemus in
proximo diligere, ut in Deo sit. Unde manifestum est quod idem
specie actus est quo diligitur Deus, et quo diligitur proximum. Et
propter hoc habitus caritatis non solum se extendit ad dilectionem
Dei, sed etiam ad dilectionem proximi». ST,
II-II q.25, a.1; Weis Fritz, Gottes- und Nechsten- Liebe nach d. hl.
Katharina von Siena, in «Zeitschrift für Asze und Mystik», XIII,
1938, p. 131-140: dove l’autore afferma che sono unico amore del
prossimo e quello di Dio; e questo coincide con San Tommaso.
225Dial.
VI.
226Dial.
VI.
227Deman
Thomas, La parte del prossimo nella vita spirituale secondo il
Dialogo, in «Saggi e
Studi sulla spiritualità di Santa Caterina da Siena», Firenze, Ed.
di «Vita Cristiana», 1974, p. 58-66.
228Lett.40, p.989.
229Cavallini,
XV. n. 3, p. 12.
230Vita
4.
231Vita
7.Cf. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù»,
A. XV. n. 3, p. 16.
232Cf.
Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.
XV. n. 3, p. 14., Dial.
VII.
233Cf.
Lett.35, p.1324-1325.
234Lett.50, p.823.
235Cavallini,
XV. n. 2, 15
236Cf.
T. Mazzei, Le
virtù nel Dialogo Cateriniano, p.33.
237Dial.
VII.
238Lett.51, p.1282.
239Lett.94, p.1227.
240Lett.94, p.1231.
241Cf.
Lett.104, p.1122.
242Dial.
VIII.
243Lett.113, p.569.
244Cf.
Dial. XI, p. 35.
245Lett.
79, p.1047.
246Dial.
VI.
247Dial.
I, p.1.
248Lett.
86.
249Dial.
VI.
250Lett.
79.
251Cf.
Lett. 369.
252Lett.86, p.1081.
253Dial.LXXVI, p.198.
254Cf.
T. Mazzei, Le
virtù nel Dialogo Cateriniano, p.13.
255Cf.
Dial. CXLVIII.
256Dial.
VII, p. 24.
257Cf.
Carlo Riccardi C.M., Maria
Santissima nella Vita e nel Pensiero di S. Caterina da Siena,
Cantagalli, Siena, (1996)
258Cf.
Giovanni Paolo II, Lett.
apost. Tertio millennio adveniente (10
nov. 1994). n.43
259Cf.
Lett. 184. p. 1527.
260Cf.
Lett. 21. p. 1663.
261Cf.
Lett. 276. p. 1658.
262Lett.
17. p. 1278.
263Lett.
15. p. 1604.
264Oraz.,
XI.
265Lett.
256. p. 1536.
266Lett.
134. p. 1293; cfr. Lett.
110. p. 579.
267Oraz.,
XVI, p. 130-131.
268Lett.
30. p. 1061-1062; cf. Lett.
144. p. 994-997; Lett.
240. p. 804-805.
269Lett.104, p.11251126.
270
Lett. 240.
271Lett.
184. p. 1525.
272Dial.
CXXXIX., p.445
273Lett.
276. p. 1656.
274Dial.LXXVI, p.198
275Cf.
Quando si impara una lingua e la possiede perfettamente: non pensa
più alle regole, tuttavia parla senza offendere tali regole.
«le
virtù sono connesse fra di loro, perché parlando con semplicità,
una non può stare senza dell’altra; tuttavia ognuna ha il suo
carattere particolare, che nessun altra può avere»1
Capitolo
III
Le
virtù cateriniane
1. La
catena delle virtù
«Io
Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi
nel pretioso sangue suo, con desiderio di vedervi fondata in vera e
reale virtù: però che senza il mezzo della virtù non potremmo
piacere al nostro Creatore»2.
Affinché le parole, che Santa Caterina ha rivolte una volta al
destinatario di questa lettera, parlino anche a noi, cioè per lo
scopo che il desiderio di Santa Caterina, concepito «nel pretioso
sangue» del Figliuolo di Dio, sia compiuto in noi, e ella possa
vederci «fondati in vera e reale virtù», adesso, in questo terzo
capitolo, tento di compendiare quelle veri e reali virtù, che
costituiscono il fondamento della dottrina e vita di Santa Caterina.
Beato
Raimondo nel prologo della Legenda
mette in risalto che Santa Caterina è veramente «Maestra di virtù»3
e questo fatto viene espresso pure dal suo nome, Caterina. «Se
pronunci Caterina con una sincope, tu avrai catena, tu angiungi una
sillaba, avrai il nome di Caterina.»4
Il nome di Santa Caterina afferma infatti che il fondamento della sua
vita è la catena delle virtù. Come l’angelo dell’Apocalisse
pure Caterina aveva una gran catena in mano5,
in quanto ha «ricevuto dal Signore l’insieme di tutte le virtù»6
e le possedeva in modo perfetto. In seguito analizzeremo nel
contesto della dottrina
cateriniana questa catena delle virtù per anelli, tratteremo le
singole virtù come gli anelli di una catena, poiché «una non può
stare senza l’altra; tuttavia ognuna ha il suo carattere
particolare, che nessun altra può avere»7.
Scegliendo
questi anelli di catena, trattiamo più particolarmente la virtù
della fede, della speranza e della carità, di cui parla Santa
Caterina come colonne dell’anima. Pure tra queste tre osserviamo
principalmente, e con un’attenzione particolare, la virtù della
carità che è la madre di ogni virtù. Delle altre virtù (l’umiltà,
l’obbedienza, la giustizia, la perseveranza, la sollecitudine, la
purezza, la povertà e la gratitudine) mi occupo invece
secondariamente. Questo perchè per i limiti di questo lavoro ed
anche per evitare le ripetizioni inutili. Se infatti è vero che la
carità è la madre delle virtù, allora parlando di questa virtù
parliamo così di tutte le altre. Tutto sommato la nostra
considerazione non può corrispondere alle esigenze di completezza,
ma vuol essere una sintesi che contiene i lineamenti più
caratteristici del tema.
1.1 Le
tre colonne dell’anima8
Santa
Caterina spesso sottolinea l’unità fraterna di queste sorelle
(fede, speranza, carità), figlie della sofia9:
i servi di Dio «come banditori poveregli» portando con loro «la
ricchezza della fede e della speranza, e con la fortezza e legame
della carità» annunciano la verità10.
Queste tre virtù sono tre colonne connesse «che conservano e
mantengono la rocca dell’ anima», e poiché l’uomo non può
avere né fede, né speranza se non in che ama: «queste tre virtù,
l’una tiene dietro all’altra, però che amore non è senza fede,
né fede senza speranza»11;
«i giusti vissuti in carità, morendo in dilezione, quando viene
l’estremità della morte se egli è vissuto perfettamente in virtù
alluminato del lume della fede, con l’ occhio della fede, con
perfetta speranza del sangue dell’ Agnello, veggono il bene il
quale Io l’ò apparecchiato, e con le braccia de l’amore
l’abbracciano»12.
Or
con questo lume della fede e vera speranza passerete questo e ogni
altro inganno del dimonio; con profonda umilità, inchinando il capo
a passare per la porta stretta: seguitando la dottrina di Cristo
crocifisso, acquisterete il dono della fortezza e della carità,
della quale abbiamo detto ch’ è l’ arme con che noi ci
difendiamo. Con che s’ acquista quest’ arme? col lume della
santissima fede, come detto è. Sicché la fede con ferma speranza e
con la carità (che altrimenti, non sarebbe fede viva) ci darà lume
in cognoscere la nostra fortezza, Cristo dolce Gesù, e la debilezza
de’ nemici. E la speranza ci farà certi ch’ ell’ è così,
aspettando che ogni colpa sarà punita, e ogni fatica remunerata. E
la carità ci fortifica contra ogni avversario.13
Oppure in un altro luogo:
Che
dunque c’è bisogno? Ècci bisogno il sangue, nel quale sangue di
Cristo trovaremo una speranza ferma, che ci tollarà ogni timore
servile, e trovaremo la fede viva, gustando che Dio non vuole altro
che el nostro bene, e però ci dé el verbo dell’ unigenito suo
Figliuolo, e il Figliuolo ci dié la vita per rendarci la vita, e del
sangue ci fece bagno per lavare la lebbra delle nostre iniquità. Per
questo l’anima cognosce e tiene con fede viva che Dio non
permettarà alle demonia che ci molestino più che noi potiamo
portare, né al mondo che ci triboli più che siamo atti a ricevere,
né al prelato che c’imponga maggiore obedientia che noi potiamo
portare. [...] Chi ne sarà cagione? el lume della santissima fede,
la quale trovaste nel sangue. Chi è cagione del lume? l’amore
dell’ affocata carità, che truovaste nel sangue, [...] E perché
el caldo del divino amore, che trovaste nel sangue, destrusse e
consumò la tenebre dell’ amore proprio che obumbrava l’occhio
che non vedeva14
1.1.1 La
fede
Rimanendo
all’espressione applicata da Santa Caterina possiamo dire che la
sua propria
vita era fondata nella fede, nella vera e reale virtù della fede.
Ella era davvero quel giusto che viveva di fede sulla terra - come ha
detto il suo caro maestro San Paolo apostolo15.
Una
fede forte ha reso capace Caterina di servire il lebbroso come il suo
celeste Sposo, il cui piacere l’ha cercato in ogni modo16.
Beato Raimondo racconta della sua figlia spirituale che una frequente
domanda che ha rivolta a Cristo era «che si degnasse aumentarle la
fede, e le donasse la perfezione della virtù della fede. Il Signore
[...] le rispose: “Io ti sposerò a me nella fede”»17,
dimostrando quasi che ogni esperienza mistica ha le radici nel
terreno della fede.
L’oggetto
di tale fede è Dio, Colui che è, che è solo, che è il sommo Bene,
che è la prima e dolce Verità, la Verità suprema.
Questa
fede che dà vita all’anima è luce
per essa. In questa luce della fede il giudizio dell’anima di ogni
cosa del mondo diventa chiarissimo: sì o no.18
Per questo luce si distingue il bene dal male, l’eterno dal
transitorio, la virtù dal vizio, il Creatore dal creato, quello che
è degna d’amore da quello che è da odiare.
Si
può dire che la fede è il fondamento del sistema delle virtù. La
fede è infatti quella luce che - per sé - è la prima virtù,
perché non si può amare Dio, né sperare in Lui, se non lo si
conosce per fede; accidentalmente però - siccome senza umiltà non
c’è fede - si può dire che la prima virtù è l’umiltà19.
La
nobiltà dell’uomo proviene dal fatto che egli può vedere in
questa luce della fede ed è capace di accorgersi delle grandezza di
Dio nelle cose visibili ed invisibili.20
Il frutto della fede in questa vita è la pienezza della grazia, in
quella futura è la vita eterna.
Questa
luce è la luce della ragione. Questa luce ordina ogni cosa
corrispondendo all’unico fine che è l’onore di Dio e la salvezza
del prossimo. Questa luce ha reso possibile a Santa Caterina di
scrivere come «serva e schiava de’servi di Gesù Cristo » a
uomini diversissimi (piccoli e grandi, giovani ed anziani, casalinghe
e singore nobili, religiosi e laici, governatori e papi, soldati e
sacerdoti ) «nel prezioso sangue» del figlio di Dio «con desiderio
di vedere in» loro «uno vero e perfettissimo lume», affinché
riconoscano la verità che è necessaria per la loro «salute»21.
L’anima
vede con gli occhi della ragione e con la pupilla22
della fede, e riconosce se stessa e la bontà di Dio in sé. Senza
luce non si può riconoscere la verità. Chi crede però è
illuminato dalla verità «col lume della santissima fede, la quale è
la pupilla dell’occhio dell’intelletto, con che si cognosce la
verità»23
di sé e di Dio.
Dove
cognosceremo lui e noi? dentro nell’anima nostra. Onde c’è di
bisogno d’intrare nella cella del cognoscimento di noi, e aprire
l’occhio dell’intelletto, levandone ogni nuvila d’amore
proprio. E cognoscendolo, noi non esser niente, e specialmente nel
tempo delle molte battaglie e tentazioni; perocché, se fussimo
alcuna cosa, ci leveremmo quelle battaglie che noi non volessimo.
Bene abbiamo adunque materia di umiliarci, e spogliarci di noi;
perché non è da sperare in quella cosa che non è. La bontà di Dio
cognosceremo in noi, vedendoci creati all’imagine e similitudine
sua, affine che participiamo il suo infinito ed eterno bene: e
essendo privati della Grazia per lo peccato del primo uomo, ci ha
ricreati a Grazia nel sangue dell’unigenito suo Figliuolo24.
Nel
cognoscimento di noi, in verità cognosciamo, noi non essere, ma
troviamo l’essere nostro da Dio, vedendo che egli ci ha creati alla
imagine e similitudine sua. E nel cognoscimento di noi troviamo
ancora la recreazione che Dio ci fece, recreandoci a Grazia nel
sangue dell’unigenito suo Figliuolo; il quale sangue ci manifesta
la verità di Dio Padre. La verità sua fu questa; che egli ci creò
per gloria e loda del nome suo, e perch‚ noi participassimo l’
eterna bellezza sua, perch‚ fussimo santificati in lui. Chi cel
dimostra, che questo sia la verità? Il sangue dello immacolato
Agnello. Dove truoviamo questo sangue? nel cognoscimento di noi.25
L’anima
riconosce che Dio - in quanto Egli è il sommo bene e l’origine di
ogni bontà - «non può volere altro che ‘l nostro bene e, per
darci quello vero bene, dié sé medesimo infino all’obrobiosa
morte della croce: del quale bene fumo privati per lo peccato [...]
adunque, bene è vero che Dio non vuole altro che ‘l nostro bene.»
In questa luce si rafforza la convinzione della fede «che veramente
ciò che aviene a noi, o per morte o per vita, o per infermità o per
sanità, o ricchezza o povertà, o ingiuria che fusse fatta a noi da
amici o da parenti o da qualunque creatura» è con il permesso e
volontà di Dio, e senza la sua volontà non succede niente.26
Per
questo la fede si collega molto fortemente con la virtù della
pazienza e con le altre virtù nella concatenazione di esse. La fede
rende il cuore semplice, poiché libera dal timore servile (che sorge
sempre dall’amor proprio27).
Così l’anima per la fede avrà la virtù del coraggio.
Senza il coraggio l’uomo è timoroso e taglia il vigore di ogni
santo proponimento28.
Il vizio contrario del coraggio nato dalla fede è il timore servile
che non riesce se non a danno proprio e a quello altrui, e finisce
per perdere quel che si affamava di conservare. Il suo prototipo è
l’agire di Pilato che per questo vizio ha lasciato crocifiggere
Cristo29.
La
fede rende perseveranti, perché dimostra nella sua luce che le
difficoltà e le tentazioni Dio le permette soltanto per il nostro
bene, per aumentare e rafforzare la nostra perseveranza30.
Essa ci rende obbedienti e veramente umili (in quanto non permette
che il vedere i nostri peccati causi confusione in noi dimostrando
che Dio è più pronto a perdonare che noi a peccare31).
Ad ogni perfezione noi giungiamo per la luce soprannaturale32.
Questa luce rende tutto l’uomo maturo ed ordinato33,
dà un cuore soprannaturale che non è schiavo delle sue passioni34,
un cuore che non è triste, ma ha una gioia piena35,
poiché è libero dalla fede messa nelle creature36.
Il
vizio contrario della fede è l’incredulità, dalle cui tenebre
libera l’anima il sacramento del battesimo37,
il cui vermine lo uccide un coltello di due tagli: il coltello
dell’amore e dell’odio38.
L’incredulità è il frutto dell’orgolio e dell’amor proprio, e
mette l’anima sotto il dominio del demonio39.
L’incredulità rende incostante40
e «attosca tanto il gusto dell’anima, che la cosa buona gli pare
cattiva, e l’amara dolce; il lume gli pare tenebre, e quello che
già vide in bene, gli pare vedere in male.»41
sappiate
che combattere e avere vittoria non potremmo fare, se non ci fusse il
lume della sanctissima fede; né il lume potremmo avere, se
dell’occhio dell’intelletto nostro non fusse tratta la terra
d’ogni affetto terreno e gittata la nuvila dell’amore proprio di
voi medesimo. Però che ella è quella perversa nuvila che in tutto
ci tolle ogni lume, e spiritualmente e temporalmente. Temporalmente
non ci lassa cognoscere la fragilità nostra e la poca fermezza e
stabilità del mondo, né quanto questa vita è vana e caduca, né
gl’inganni del demonio, quanto occultamente in queste cose
transitorie elli ci inganna, e spesse volte sotto colore di virtù.42
La
forza e la luce della santa fede è irradiata dalla santissima croce.
Chi guarda con fede sulla croce e contempla «Dio umiliato a sé
uomo» e crocifisso avrà una forza divina - non propria - contro il
male:
l’anima
fedele, che tutta la fede e la speranza sua abbi posto in sul legno
della santissima croce [...], acquista ine tanta fede che non sarà
neuno monte43,
cioè monte di neuno peccato o superbia o ignorantia o negligentia
nostra, comandandolo con fede viva per virtù di quella santissima
croce, la volontà nostra non muova questo monte da vitio a virtù,
da negligentia a sollicitudine, da superbia a vera e perfetta
umilitù44.
L’anima
che crede è molto attiva, poiché «la fede senza le opere è
morta»45.
Le opere della fede sono la preghiera continua all’onore di Dio, e
il servizio del prossimo. L’azione della fede quindi è una lotta
costante per poter perseverare nel bene, nell’amore di Dio, è un
combattimento contro la sensualità, il mondo e il demonio46.
L’atto della fede viva è l’atto dell’amore: «Questa è
l’operazione della fede: che noi concepiamo in noi le virtù per
affetto d’amore, e parturiranno e’ frutti con vera pazienzia nel
mezzo del prossimo nostro, portando, e sopportando e’ difetti l’uno
dell’altro»47.
La fede quindi ha vita solo dall’amore. «fede viva non è mai
senza opera. Che se fede fusse senz’ opera, sarebbe morta e
partorirebbe e’ figliuoli suoi delle virtù morti, e non vivi. Però
che colui che è senza il lume della fede, è privato della virtù
della carità; e senza la carità neuno bene che faccia, o atto di
virtù, gli vale a vita eterna»48.
Questa
carità che fa viva la fede, sorge dalla luce della fede, per il
fatto che l’intelletto si immerge nella conoscenza di Dio e della
sua bontà.
Chi
ne sarà cagione? il lume della sanctissima fede, la quale trovaste
nel sangue. Chi è cagione del lume? l’amore dell’ affocata
carità, che truovaste nel sangue, ché per amore questo dolce e
amoroso verbo corse all’ oprobiosa morte della croce. E perché il
caldo del divino amore, che trovaste nel sangue, destrusse e consumò
la tenebre dell’amore proprio che obumbrava l’occhio che non
vedeva, però ora vede, e vedendo ama, e amando teme Dio e serve al
proximo suo.
In
questa vita terrena dunque la fede e l’amore si incatenano come due
anelli di catena e pongono le condizioni di tutte le altre virtù
nell’anima. Questa catena però che unisce la fede e la cartià (e
per la carità ogni altra virtù), collega pure la vita terrena con
quella celeste, poiché «l’anima virtuosa, quando si parte da
questa vita, entra a vita eterna, colla virtù della carità»49.
L’anima non avrà bisogno della fede laddove vedrà faccia a faccia
Colui in cui avrà avuto fede.
1.1.2 La
speranza
L’anello
seguente nella concatenazione delle virtù è la speranza, che è
«dolce sorella della fede» e riguarda il frutto della fede che è
la vita eterna50.
Questa vita eterna realizza ogni speranza che è fondata nella
carità. Nella vita eterna quindi non c’è bisogno di alcun
speranza poichè l’anima possiede quello il cui possedere ha
sperato51.
Ma solo la speranza in Dio ha la ricchezza della vita eterna.52
Da
dove proviene la forza della speranza? Da Cristo crocifisso, per cui
l’anima può tutto, «in cui è posta, e si fermi continuamente, la
nostra speranza»53.
La
speranza in Cristo crocifisso spera nel Sangue dell’Agnello umile54.
In virtù di questo Sangue spera che otterrà la corona della
vittoria, e - con le chiavi del medesimo Sangue - apre la vita
eterna55.
«Annegatevi nel sangue di Cristo, dove ingrasserà l’ anima vostra
per speranza»56-
scrive Santa Caterina in una sua lettera.
L’anima,
la quale crede che Dio è buono e non vuole l’altro che il bene,
allora non spera né in sé, né in alcun altra creatura, ma solo in
Dio che è costante e sicuro. La speranza si accerta dalla verità
che ogni peccato sarà punito ed ogni fatica (fatta per il bene) avrà
il suo premio57.
La speranza rende capace l’uomo di sopportare le sofferenze con
fede viva «credendo in verità, che quando egli vedrà che sia
l’onore suo e la salute tua, egli il dolce Dio, ti darà altro
tempo»58.
«Chi
spera in lui, non gli manca mai; ma a misura tanto ci provede, quanto
noi speriamo nella sua larghezza. Onde tanto saremo proveduti, quanto
noi spereremo»59.
Qualche
volta Dio fa aspettare l’anima fino all’estremità: «quando in
tutto ella n’ à perduta la speranza, ed ella à quello che
desidera».60
Una
eroica manifestazione della speranza è la donazione totale a Dio
nella povertà61.
Il disprezzo del mondo (che è buono nella sua sostanza) è un altro
aspetto della virtù della speranza, è una premessa indispensabile
al suo pieno fiorire62.
I
vizi contrari della speranza sono la disperazione, sperare nelle cose
create e la speranza temeraria. Questi vizi fanno crescere il timore
servile e indeboliscono l’anima. Santa Caterina non esita a
ripetere l’oracolo del profeta: «maledetto si può chiamare colui
che si confida nell’uomo.63
coloro
che sperano in loro medesimi sono quegli che temono e ànno paura de
l’ombra loro, e dubitano che non lo’ venga meno il cielo e la
terra. Con questo timore e perversa speranza che pongono nel loro
poco sapere, pigliano tanta miserabile sollicitudine in acquistare e
in conservare le cose temporali, che pare che le spirituali si
pongano doppo le spalle, e non si truova chi se ne curi.64
Il
rimedio di tali vizi è il Sangue, da cui l’anima impara l’umiltà
e riconosce la misericordia di Dio. «Questa è quella speranza
umile, la quale non spera in sua virtù propria, né si dispera per
veruna colpa che sia caduta nell’anima sua; ma spera nel sangue, e
caccia la disperazione, giudicando maggiore la misericordia di Dio,
la quale truova nel sangue, che la miseria sua»65.
Nel
Dialogo
la Verità così dà istruzioni a Santa Caterina sui due tipi
contrastati della speranza:
quegli
che perfettamente sperano in me - e chi spera in me bussa e chiama in
verità, non solamente con la parola, ma con affetto e col lume della
santissima fede - gustaranno me nella providenzia mia. Ma non coloro
che solamente bussano e suonano col suono della parola, chiamandomi:
«Signore, Signore!» Dicoti che se essi con altra virtù non m’
adimandano, non saranno cognosciuti da me per misericordia, ma per
giustizia.Sí che Io ti dico che la mia providenzia non mancarà a
chi in verità spera in me, ma in quelli che si dispera di me e spera
in sè. Sai che speranza in due cose contrarie non si può ponere.
Questo volse dire a voi la mia Verità nel santo Evangelio, quando
disse: «Veruno può servire a due signori, chè, se serve a l’
uno, è in contempto a l’altro». Servire non è senza speranza,
però che ‘l servo che serve, serve con esperanza che egli à di
piacere al Signore, o serve per la speranza che à nel prezzo e
utilità che se ne vede trarre. Al nemico del suo signore ponto non
servirebbe; il quale servizio fare non potrebbe senza alcuna
speranza, e vederebbesi privare di quello che aspettava dal signore
suo. Or cosí pensa, carissima figliuola, che diviene a l’ anima: o
e’ si conviene che ella serva e speri in me, o serva e speri nel
mondo e in sè medesima66
1.1.3 La
carità67
La
carità è sorella della fede e della speranza. Il fatto che essa
«non cessa mai»68
eleva la carità sopra tute le altre virtù.
Non viene meno la
carità verso il prossimo per i difetti di esso, e non viene meno
l’amore di Dio nella prova, né per la mancanza delle
consolazioni69.
L’unica virtù che passa nell’aldilà, poiché la Pasqua del
Figliuolo di Dio era la Pasqua dell’amore e dell’obbedienza fatta
per amore70.
Delle altre virtù non ce n’è bisogno nella vita eterna, perciò
l’anima lasciando questa vita non porta con sé nessun’altra
virtù tranne la carità71.
La carità è la più perfetta virtù poiché entra nella vita eterna
con i frutti delle altre.
solo
la carità è quella che entra dentro come donna, menandone seco il
frutto di tutte le virtù - e l’altre rimangono di fuore - in me,
vita durabile, in cui essi gustano vita eterna, però che Io so’
essa vita eterna. Non ci salie la fede, perchè essi ànno quello,
per pruova e in essenzia, che ànno creduto per fede; nè la
speranza, perchè essi sono in possessione di quello che ànno
sperato; e così tutte l’ altre virtù. Solo la carità entra come
reina e possiede me, suo possessore.72
L’«inestimabile
carità» di Dio ha chiamato la creatura nell’essere ed è essa che
la ritiene alla vita eterna. La creatura che rimane «nella santa e
dolce dilezione di Dio» partecipa a questa immensa carità divina73.
L’amore nasce dall’amore e viene nutrito dall’amore. «Che è
carità? È uno amore ineffabile, che l’anima ha tratto dal suo
Creatore, con tutto l’affetto e con tutte le forze sue. Dico che
l’aveva tratto dal suo Creatore: e così è la verità. Ma come si
trae? coll’amore: perocché l’amore non s’acquista se non
coll’amore e dall’amore»74.
L’uomo non viene attratto se non dall’amore: «è conditione
dell’amore che, quando la creatura si vede amare, subbito ama, come
egli ama, elegge inanzi la morte che offendere quello che egli ama»75.
Dell’amore di Dio l’uomo si accorge in se medesimo:
Ella
si notrica nel fuoco dell’amore, perché s’à veduta tanto amare,
quando vede sé esser stato quel campo e quella pietra dove fu fitto
il gonfalone della santissima croce. Ché voi sapete bene che la
terra né la pietra averebbe tenuta la croce, né chiovi né croce
averebbero tenuto el verbo dell’unigenito Figliuolo di Dio, se
l’amore non l’avesse tenuto. Adunque l’amore, che Dio ebbe
all’anima nostra, fu quella pietra e quelli chiovi che l’ànno
tenuto.76
Nella
prospettiva dell’amore non pare più che sia crudele o arbitraria
la subordinazione a Dio. Dio ama l’uomo immensamente, lo crea
perché goda la felicità stessa di Dio ed abbia vita eterna, ma
aspetta una libera risposta dell’amore. Dio vuole che l’uomo ami
liberamente il suo Creatore77.
Perciò l’autentica realizzazione della libertà è l’amore78.
Questa
virtù è una regina, che possiede tutto quanto il mondo79.
Come regina «possiede me, suo possessore» dice nel brano
sopracitato il supremo, eterno e buon Padre. «Dunque bene è vero
che l’ amore transforma, e fa una cosa l’ amato con colui che
ama»80
Tutti quanti che servono a questa regina, accompagnandola,
raggiungono allo stato di regnare, poiché servire a Dio - che è
l’Amore - non è servire, ma regnare81.
Per questo la dignità dell’uomo - la cui dignità non è altro che
regnare nell’amore - è fondata in questa virtù, poiché questa
regina unisce l’anima con Dio: «quando l’amore e l’affetto si
leva da sé, e pollo tutto in Cristo crucifisso, egli viene nella
maggiore degnità che possi venire, però che diventa una cosa col
suo creatore. [...] E non la può riputare a sé quella dignità e
unione, ma all’amore»82.
In questo senso l’amore non è che il nostro debito che dobbiamo a
Dio83.
Peccando però l’uomo perde la sua dignità - ricevuta nella
creazione - e diventa debitore del demonio. Cristo però ha
«stracciata la carta dell’ubligagione fra l’uomo e ‘l dimonio,
che per lo peccato era ubligato a lui»84
«stracciandola in su legno della santissima croce»85.
L’uomo è così grande davanti a Dio come grande e vivo è il suo
amore86.
L’amore
è un albero il cui midollo sono la pazienza e la «benevolenzia»
verso il prossimo87.
La forte unità delle virtù è fondata in questo albero della vita.
Esprimendoci con un termine tecnico della teologina morale possiamo
dire che questa immagine mette in rilievo la connessione delle virtù.
La descrizione dell’albero lascia facilmente intuire le connesse
funzioni delle diverse virtù: come la terra nutre l’albero, così
l’umiltà alimenta la carità, e come la misura della terra è data
dal cerchio, così l’umiltà è in proporzione del duplice
conoscimento, dal quale germoglia, insieme con la carità, la
discrezione ed ogni altra virtù.88
Allora
l’arbore della carità si nutrica nella umilità, mettendo dallato
il figliuolo della vera discrezione come detto t’ ò. Il mirollo
dell’ arbore, cioè dell’ affetto della carità che è nell’
anima, è la pazienzia, la quale è uno segno dimostrativo che
dimostra me essere nell’ anima e l’ anima unita in me. Questo
arbore, cosí dolcemente piantato, gitta fiori odoriferi di virtù
con molti e variati sapori; elli rende frutto di grazia all’ anima
e frutto d’ utilità al prossimo, secondo la sollicitudine di chi
vorrà ricevere de’ frutti de’ servi miei89.
L’amore
è la madre delle virtù, ma come senza l’amore non ci sono gli
altri virtù, così senza le altre virtù non può esserci un
autentico amore90
di cui balia è l’umiltà91.
Una
forma speciale della carità è la politica. Santa Caterina apprezza
molto l’impegno politico e la pratica in modo eroico lavorando,
pregando, viaggiando nel servizio della pace, sì che «a pieno
titolo può essere considerata un vera mistica della politica»92.
Una
forma particolare dell’amore è l’amore verso la patria. Anche
questo deve essere ordinato in Dio, altrimenti produce ingiustizie e
dalle ingiustizie nascono guerre, rapine e violenze. La virtù
dell’amor patrio aiuta l’anima, unita a Dio, a compiere i doveri
che appartengono alla sua vocazione, questo amore rafforza in questa
anima lo spirito del sacrificio e della fedeltà, a volte fino al
martirio. Benché «la cittadinanza nostra sia nei cieli93,
noi non possiamo meritare qesta patria celeste se non per l’amore
verso la patria terrena, sapendo bene che «non doviamo fare
differenzia più d’uno che d’un altro»94.
La causa della mancanza dell’amor patrio - come il motivo
dell’assenza di qualsiasi virtù - è l’amor proprio: Santa
Caterina scrive ai tre Cardinali italiani che hanno rinnegato il vero
papa: «Cristo in terra italiano, e voi italiani, che non vi poteva
muovere la passione della patria, come gli oltramontani: cggione non
ci veggo, se non l’amore proprio»95.
Il
vizio contrario dell’amore è «l’amore sensitivo», che è il
principio di ogni disordinato amore e si manifesta per l’amor
proprio e per l’odio del bene96.
Questo vizio «tolle il lume della ragione e non lassa cognoscere la
verità; tolle la vita della Grazia, e dacci la morte; tolleci la
libertà e facci servi e schiavi del peccato»97.
La conoscenza di sé libera l’uomo da questo vizio e porta alle
veri e reali virtù98,
a quell’amore che vive nell’uomo nuovo. La legge dell’amore non
la può osservare alcun uomo se non l’uomo nuovo99.
Questo amore è fondato in Dio ed esige per natura che l’uomo ami
nel prossimo suo la virtù e l’immagine di Dio100.
Questo amore include pure l’odio, il cui oggetto però è la
sensualità propria che si ribella costantemente contro l’amore
autentica. L’amor proprio caccia l’amore di Dio101,
e per questo amore divino l’anima sale sulla croce dove attinge
all’amore ineffabile di Cristo crocifisso, Dio e uomo: «ci
dobbiamo attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre
della carità; e col mezzo della carne sua trarremo il latte che
notrica l’ anima nostra, e’ figliuoli delle virtù: cioè per
mezzo dell’umanità di Cristo; perocchè nell’umanità cadde, e
sostenne, la pena, ma non nella deità»102.
Possiamo
dire pure che ogni vizio è vizio proprio perché offende la carità.
Questo «offendere la carità» è il peccato:
Il
peccato è quello che ci chiude la porta, e tolleci il fine per lo
quale fummo creati: il peccato ci tolle la vita, e dacci la morte;
tolleci la luce, e dacci la tenebra, perché offusca l’ occhio
dello intelletto, e non gli lassa vedere il sole né la tenebra, la
tenebra dico del cognoscimento di sé, dove vede e truova la
tenebrosa sensualità, che sempre ribella e impugna contra il suo
Creatore; e perché non vede la tenebra sua, però non può
cognoscere l’ amore e il lume della divina bontà.103
Il
peccato è offesa dell’amore quindi una cosa gravissima: «Vedete
che è tanto abbominevole dinanzi a Dio il peccato, che permise che
il Figliuolo ne sostenesse morte e passione, ed egli con tanto amore
sostenne pena, strazi, scherni e villania, e nell’ ultimo l’
obrobriosa morte della croce»104.
Concludiamo
questa parte - in cui abbiamo parlato dell’amore - con le righe
prese da una lettera, che trasmettono una certa versione dell’inno
paolino indirizzato alla carità cristiana:
perfettissima
Carità. La quale Carità non cerca le cose sue. Ella è libera, e
non è serva della propria sensualità: è larga, che dilata il cuore
nell’ amore di Dio, e dilezione del prossimo suo; e però sa
portare e sopportare i difetti delle creature per amore del Creatore:
ella è pietosa, e non crudele, perch‚ ha tolto da s‚ quello che
fa l’ uomo crudele, cioè l’ amore proprio di s‚; e però
riceve caritativamente con grande pietà il prossimo suo per Dio:
ella è benevola, pacifica e non iraconda: ella cerca le cose giuste
e sante, e non le ingiuste; e come le cerca, così le serva in s‚;
e però riluce la margarita della giustizia nel petto suo. La Carità,
se elle lusinga, non inganna; e se riprende, non ha odio n‚ ira: ma
caritativamente ama tutti come figliuoli; o lusingando o riprendendo,
in qualunque modo si sia. Ella è una madre che concepe nell’ anima
i figliuoli delle virtù, e parturisceli per onore di Dio nel
prossimo suo. La sua balia è la profonda umilità. E che cibo gli dà
questa sua nutrice? Cibo del lume e del cognoscimento di s‚: col
quale lume ha cognosciuta la miseria sua e la fragile sensualità,
cagione d’ ogni miseria sua e la fragile sensualità, cagione d’
ogni miseria. Con questo cognoscimento s’umilia, e concepe odio
verso s‚ medesima; e con questo notrica in s‚ il fuoco della
divina carità, cognoscendo la ineffabile bontà di Dio, la quale
bontà è principio e fine d’ ogni suo cognoscimento.105
1.2 Le
figliuole della carità
Tra
le virtù sono quelle le più importanti che sono «le gemme»
dell’umanità di Cristo. Benché - per «l’unione della natura
divina con l’umana»106
- nel Dio-uomo si trovi il fondamento di tutte le virtù, tuttavia
sono eccezionalmente significative quelle virtù che nella
sofferenza, sopportata per la salvezza dell’uomo, ha dimostrato
«Colui che non conosceva il peccato»107.
Così è per esempio l’obbedienza che è la verificazione
dell’amore del Figlio verso il Padre; la perseveranza e la pazienza
per le quali il Figlio ha imparato questa obbedienza nella
sofferenza108;
l’umiltà, per cui lasciando la sua gloria divina il Verbo eterno
«svuotò se stesso»109
ha accettato le incomprensioni, le ironie, le ingiurie e - alla fine
- l’obbrobriosa morte della croce; l’amore della povertà, per
cui viveva come falegname di Nazaret, ed - Egli, donatore di ogni
ricchezza - è morto così che non aveva dove posare il capo110.
Le
virtù sono vere e reali appunto perché le ha avute il Figlio di Dio
che solo è
e vero.
1.2.1 La
perseveranza
Tra
le figlie della cartià Santa Caterina menziona la perseveranza
accanto alla pazienza e l’obbedienza come regina: «la
perseverazione è quella reina che è coronata, e sta in mezzo della
fortezza e vera pazienza; ma ella sola riceve corona di gloria»111.
Solamente la «perseveranza è incoronata, ma none il cominciare»112.
Dalla perseveranza nasce fortezza e pazienza, e la perseveranza rende
l’anima virile. La frase conclusiva di molte lettere - «Permanete
nella santa e dolce delezione di Dio» - in realtà non fa altro che
sollecitare alla perseveranza, cioè rivela il fondamento e la
condizione della perseveranza: il rimanere nel bene infatti è il
frutto dell’amore ordinato113.
L’essere
perseverante è lo stato «naturale» dell’anima, infatti «ella à
infinito essere, e però ella infinitamente desidera e non si satia
mai se non si congiogne collo infinito114».
L’anima dopo aver riconosciuto che senza perseveranza non raggiunge
lo scopo della vita, cerca di acquistarla con sollecitudine: «Con
fede viva cognobbe che ogni colpa è punita, e ogni bene è
remunerato; e però abbraccia la virtù e spregia il vizio. Con
grande sollecitudine diventa costante e perseverante in fino alla
morte; in tanto che né dimonio né creatura né la fragile carne il
fanno vollere il capo addietro, quando questo lume perfettamente è
nell’ anima»115
La
perseveranza «fa l’ anima forte, che mai non indebolisce; fa il
cuore largo e non stretto, che vi cape ogni creatura per Dio, in
tanto che tutte reputa che siano l’ anima sua»116.
In questa perseveranza l’anima viene aiutata dalla perghiera
continua, poiché l’orazione senza intermissione e la perseveranza
rafforzano e condizionano l’una l’altra.117
L’anima
che possiede la virtù della perseveranza:
-
non indietraggia per le prove e non si rallenta per la disordinata
gioia sopra i propri successi, cioè «non volle il capo a dietro»118.
-
impara ad affidarsi a Dio, perché essa riconosce - con il tempo -
che Egli permette tutto per il nostro bene, visto che abbiamo virtù:
Queste
sono battaglie che vengono; le quali non fanno però danno nell’
anima; né queste né altre molte miserabili e dissolute battaglie,
se la propria volontà non consente. Perocché Dio non le dà per
nostra morte, ma per vita; non perché noi siamo vinti, ma perché
noi vinciamo, e perché sia provata in noi la virtù. Ma noi, virili,
con lume della santissima fede apriamo l’ occhio dell’ intelletto
a ragguardare il sangue di Cristo crocifisso, acciocché si
fortifichi la nostra debilezza, e cognosciamo la virtù e la
perseveranzia in questo glorioso e prezioso sangue.119
-
si fortifica nelle virtù per la mortificazione, per le veglie, per
le preghiere umili e continue, e così le sue virtù diventano
provate120:
«E per questo va innanzi, e non torna indietro; crescendo di virtù
in virtù; esercitandosi con la vigilia e con la umile e continua
orazione»121
-
è capace di perseverare accanto a un consigliere122.
-
diventa colonna e fortezza per la Chiesa e per il prossimo123.
Il
vizio contrario della perseveranza è l’incostanza. La causa di
questo è l’amor proprio, per cui l’uomo si occupa di soddisfare
la sua voglia propria, e così si disperde nelle cose transitorie.
Per questo «egli è fatto incomportabile a sé medesimo»124.
L’incostante perde la sua libertà «facendosi servo e schiavo del
peccato, e del mondo con le sue delizie, e della propria fragilità»125.
Perseverare nel male è l’opera del malvagio: «Perocché umana
cosa è il peccare; ma la perseveranzia nel peccato è cosa di
dimonio»126.
1.2.2 L’obbedienza
L’obbedienza,
è quella virtù che condivide la dignità di regina della
perseveranza e che rimedia al primo peccato, il peccato di Adamo,
cioè ricostruisce l’ordine originale della creazione. La triste
situazione dell’umanità dopo il peccato infatti viene descritto da
Santa Caterina così: «neuna virtù ci conduceva a porto di vita,
perocché la marcia della disobedienzia di Adam non era levata con
l’obedienzia del Verbo, unigenito Figliuolo di Dio»127.
L’uomo infatti disobbedendo è diventato nemico di Dio, Egli però
con l’umile obbedienza ha distrutto la sua superbia128
in Cristo crocifisso. Il Padre eterno dice nel Dialogo
a Santa Caterina che il Verbo «v’insegnò la via dell’obedienza
come vostra regola, facendosi obedienti infino all’obrobriosa morte
della croce, Nella cui obedienza, che fu la chiave che diserrò il
cielo, è fondata l’obedienza»129.
Gesù attira dalla croce tutti gli uomini per coinvolgerli nel suo
stesso movimento di dedizione all’amore del Padre, che si attua
nell’obbedienza alla sua volontà. Perciò l’obbedienza non è
una virtù accanto a tante altre, ma è ciò che le assomma in quanto
è espressione dell’amore ardente verso Dio e per la salute delle
anime. Tale amore non è mai solo, ma è sempre accompagnato dalle
vere e reali virtù130.
Se
c’è negli scritti cateriniani una virtù che abbia una trattazione
completa e organica, questa è la virtù dell’obbedienza. Il
«trattato dell’obbedienza» costituisce l’ultima e conclusiva
parte del Dialogo,
ed è naturale che sia così, perché il Dialogo
è la storia dell’umanità nei suoi rapporti con Dio, e
l’obbedienza è la risposta dell’uomo alla Provvidenza divina che
lo conduce, per i casi vari della vita, al suo termine beato, senza
violentare la sua libertà131.
L’obbedienza
è la chiave che ha aperto il cielo che aveva serrato la
disobbedienza di Adamo. Cristo ha concesso questa chiave a «Cristo
in terra», al papa «questo vicario la pone in mano d’ ogni uno,
ricevuto e il santo battesmo, dove egli promette di renunziare al
dimonio, al mondo, alle pompe e delizie sue: promettendo d’
obbedire riceve la chiave de l’ obbedienzia. Sì che ogni uno l’
à in particulare, ed è la medesima chiave del Verbo.»132,
chi promette l’obbedienza, riceve la chiave dell’obbedienza.
L’anima
trova l’obbedienza nel «dolce ed amoroso Verbo». Per questa virtù
viene «il cuore e l’affetto [...] innestato in su la dolce e
venerabile croce [...] Perocché senza questo innesto non basterebbe
a noi che la natura divina sia innestata e unita nella natura umana,
e la natura umana con la natura divina.»133
L’obbedienza dunque - similmente alla carità - è un debito
dell’uomo, dovuto a Dio:
Ogni
creatura, figliuoli carissimi, che ha in sé ragione, debbe essere
obediente a’ comandamenti di Dio. La quale obedienzia leva via la
colpa del peccato mortale; e riceve la vita della Grazia. Perocché
con altro strumento non si leva la colpa. Nella obedienzia si leva la
colpa, perocché osserva i comandamenti della legge; e nella
disobedienzia offende, perché trapassa quello che gli fu comandato,
e fa quello che gli è vietato; onde ne gli nasce la morte e elegge
subito quello che Cristo fuggì, e fugge quello che egli elesse.
Cristo fuggì le delizie e li stati del mondo; egli lo cerca,
mettendo l’ anima sua nelle mani delle dimonia per potere avere e
compire i suoi disordinati desiderii; fuggendo quello che ‘l
Figliuolo di Dio abbracciò, cioè scherni, strazii, vituperii, i
quali con pazienza portò infino all’ obrobriosa morte della croce,
e umilmente, in tanto che non è udito il suo grido per veruna
mormorazione; ma sostenne infino alla morte per compire l’
obedienzia del padre e la salute nostra. Ma Colui che è obediente,
seguita le vestigie di questo dolce e amoroso Verbo, e cerca l’
onore di Dio e la salute dell’ anime134.
L’obbedienza
e la perseveranza, due figlie della cartià, vanno sempre insieme e
si rafforzano l’una con l’altra: «O obedienzia, [...] tu se’
una reina coronata di fortezza; tu porti la verga della lunga
perseveranzia»
135.
Ma
l’obbedienza comporta sempre anche l’umiltà, poiché Cristo -
Dio-uomo, il mediatore delle virtù per l’anima - è stato
obbediente per umiltà «sino alla morte e alla morte di croce»136.
L’umiltà è balia e nutrice della carità e dell’obbedienza.
Queste ultime sono connesse, «o due o veruna»137.
È
lo specchio dell’obbedienza pure Maria «quella dolcissima e
carissima Madre, che volontariamente perde l’amore del Figliuolo:
che non tanto ch’ ella faccia come madre, che ‘l ritraga dalla
morte, ma ella si vuole fare scala e vuole ch’ egli muoia»138.
Il
seguente brano rappresenta bene quella catena delle virtù di cui
anelli sono connessi per la carità, realizzata nell’obbedienza:
O
gloriosa virtù, che porti teco l’ umilità! Perocché, tanto è l’
uomo umile quanto obediente, e tanto obediente quanto umile. Il segno
di questa obedienzia, che ella sia nel suddito, è la pazienzia; con
la quale pazienzia non vorrà recalcitrare alla volontà di Dio n‚
a quella del prelato suo, guarda già che non gli fusse comandato
cosa che fusse offesa di Dio, perocché a questa non debbe obedire;
ma a ogni altra cosa sì. Questa virtù non è sola, quand’ ella è
perfetta nell’anima; anco, è accompagnata con lo lume della fede
fondata nell’ umilità; perocché altrimenti non sarebbe obediente
con la fortezza e con la lunga perseveranzia, e con la gemma preziosa
della pazienzia139.
Caterina
scrive in una lettera: «fatti liberi, sarete legati nel legame della
carità»140.
Il legame della carità è appunto l’obbedienza, come leggiamo nel
Dialogo:
Innamorati,
dilettissima figliuola, di questa gloriosa virtù. Vuogli tu essere
grata de’ benefizi ricevuti da me Padre eterno? Sia obbediente,
però che l’obbedienza ti mostra se tu se’ grata, perché
procede dalla carità. Ella ti dimostra se tu non se’ ignorante,
perché procede dal cognoscimento della mia Verità.141
«Si
potrebbe dire che l’obbedienza, così intesa, non è se non carità
in atto.»142
L’anima
obbediente corre «morto» sulla strada che viene segnata
dall’obbedienza di Cristo crocifisso. In Lui è la pienezza
dell’obbedienza, compiuta nella più eroica pazienza. L’obbedienza
infatti consuma i dolori disordinati del cuore poiché «l’obedienzia
tolle quella cosa che ci dà pena, cioè la propria e perversa
volontà»143e
l’amor proprio sensitivo.
O
obedientia dolce, che non ài mai pena: tu fai vivere e corrire gli
uomini morti, perché uccidi la propria volontà, e tanto quanto è
più morto, più corre velocemente; però che la mente e l’ anima
che è morta all’ amore proprio d’ una perversa volontà
sensitiva più leggiermente fa el corso suo e uniscesi col suo sposo
etterno con affetto d’ amore. E viene a tanta elevatione e dolcezza
di mente che, essendo mortale, comincia a gustare l’ odore e ‘l
frutto delli immortali»144.
L’obbedienza
è l’ornamento dell’abito della sposa, vestita di sole. Lo
dimostra splendidamente la vita di Santa Caterina che era obbediente
verso tutti145.
È
la colonna della vita religiosa (accanto alla povertà e la purità).
C’è infatti l’obbedienza generale che spetta a tutti e
l’obbedienza particolare che spetta ai religiosi. Tutte e due sono
carità tradotta in azione. L’obbedienza dei religiosi non è, in
sé, una virtù diversa da quella a cui tutti gli uomini sono tenuti.
Diverso è l’impegno, consacrato dal voto, col quale l’uomo che
ha ricevuto più luce e più amore si lega ad una obbedienza piena e
totale, e non dei soli comandamenti ma anche dei consigli
evangelici.146
Per questo soprattutto per i religiosi è necessario che «s’inchinino
per la porta stretta della santa obedientia, acciò che la superbia
della loro volontà non lo’ rompesse il capo»147
poiché «avendo tagliato per la virtù di Dio il vizio della
superbia, troverenci radicati nella virtù santa della carità, la
quale dimostreremo nella virtù della santa ubedientia, che
dimostraremo per la virtù della santa umilità»148.
Per i religiosi, che sono consacrati a Dio, la fedeltà alla virtù
dell’obbedienza è proprio fondamentale, infatii «I secolari
obedienti osservano i comandamenti di Dio; e i religiosi osservano i
comandamenti e i consigli, come hanno promesso alla santa
Religione»149.
L’amore,
umiltà e l’obbedienza sono eccezionalmente connessi: «Pensate,
che tanto quanto sarete umili, tanto sarete obedienti; ché della
obedienzia nasce la vena dell’ umilità, e dall’ umilità l’
obedienzia; le quali escono dal condotto dell’ ardentissima carità.
Questo condotto della carità trarrete dal costato di Cristo
crocifisso»150.
L’obbedienza
non è una difficoltà a chi vive nella carità perfetta151.
Questa
virtù rende il cuore sereno, poichè lo collega con Dio e separa dal
peccato come ha insegnato l’eterno Padre a Santa Caterina:
Tu
se’ dritta senza veruna tortura, perchè fai il cuore dritto e non
ficto, amando liberamente e non fittivamente la mia creatura. Tu se’
un’ aurora che meni teco la luce della divina grazia. Tu se’ uno
sole che scaldi, perchè non se’ senza il calore della carità. Tu
fai germinare la terra: ciò è che gli stormenti dell’ anima e del
corpo tutti producono frutto, che dà vita in sè e nel prossimo suo.
Tu se’ tutta gioconda, perchè non ài turbata la faccia per
impazienzia, ma à la piacevole con la piacevolezza della pazienzia,
tutta serena di fortezza. Se’ grande con longa perseveranzia: si
grande che tieni dal cielo alla terra, perchè con essa si diserra il
cielo. Tu se’ una margarita nascosta e non cognosciuta, calpestata
dal mondo, avilendo te medesima sottoponendoti alle creature. Egli è
sì grande la tua signoria, che niuno è che ti possa signoreggiare,
perché sei escita della mortale servitudine della propria sensualità
la quale ti tolleva la dignità tua. Morto questo nimico con l’odio
e dispiacimento del proprio piacere, ài riavuta la tua libertà.152
L’obbedienza
è la sposa dell’anima, (soprattutto nel caso di un religioso) «la
quale gli fu data dalla madre della carità, sposata con anello della
fede»153
Il
vizio contrario dell’obbedienza è la disobbedienza, che è figlia
della superbia e fonte di ogni peccato.
1.2.3 La
pazienza
La
carità-madre, che viene chiamata da Santa Caterina «reina», oltre
alla perseveranza e all’obbedienza fa partecipare della sua dignità
pure la pazienza: «nella ingiuria riluce la pazienzia, reina, che
tiene la signoria e signoreggia tutte le virtù, perchè ella è il
mirollo della carità»154
- dice
la prima e dolce Verità nel Dialogo;
e più avanti: «questa
pazienzia è reina, posta nella rocca della fortezza. Ella vince e
non è mai vinta»155.
Ed in una lettera leggiamo: «ella è una reina, che signoreggia la
impazienza, non si lascia vincere all’ ira: non si pente del bene
adoperato, del quale spesse volte ne riceve fatiche e tribulazione;
anco, gode e ingrassa, l’ anima, di vedersi sostenere senza
colpa»156.
La
pazienza è segno di amore157.
La carità si esercità infatti nel prossimo, e con la pazienza si
prova che la carità è vera.
La
pazienza - come regina - ha accanto a sé tutte le altre virtù. La
pazienza infatti è segno che l’anima è obbediente e verificata in
ogni vitù:
O
quanto è dolce e gloriosa questa virtù, in cui son tutte l’altre
virtù, perch’ella è conceputa e parturita dalla carità. In lei è
fondata la pietra della santissima fede; ella è una reina che, di
cui ella è sposa, non sente veruno male: sente pace e quiete. L’onde
del mare tempestoso non gli possono nuocere, che l’ offendano, per
veruna sua tempesta, il mirollo de l’anima. Non sente l’ odio nel
tempo della ingiuria, però che vuole obedire, chè sa che gli è
comandato che perdoni; non à pena che l’ appetito suo non sia
pieno, perchè l’ obbedienzia l’ à fatto ordinare a desiderare
solamente me, che posso e so e voglio compire i desideri suoi: àllo
spogliato delle mondane allegrezze.158.
La
pazienza «dimostra il lume ch’ è nell’anima che la possiede;
cioè dimostra che l’ anima col lume della santissima fede ha
veduto e cognosciuto che Dio non vuole altro che il suo bene: e ciò
che esso dà e permette a noi in questa vita; dà per nostra
santificazione»159.
La pazienza ha con sé la gratitudine e la conoscenza di sé, poiché
nasce dalla gratitudine che proviene dalla vera consoscenza160.
La
pazienza ha la virtù del discernimento, non dimenticando e ritenendo
sempre nella memoria che «le sofferenze del tempo presente non han
nulla a che fare colla gloria che dev’essere manifestata in noi»161.
L’anima paziente considera la piccolezza della fatica e la
grandezza del frutto. Il frutto è infinito, ma la fatica piccola
poiché relativa al tempo che è breve:
E
‘l vedrete bene, ch’ egli [il tempo] è tanto piccolo che l’
uomo nol può imaginare. Il tempo ch’ è passato, voi non l’
avete; ‘l tempo ch’ è a venire, non siete sicuro d’ averlo:
solo dunque questo punto del tempo presente avete, e più no. Dunque
la fatica passata non c’ è ne l’avvenire; però che non siamo
sicuri d’ averla, ma tanta fatica abbiamo quantoil tempo; più no.
Bene è dunque vero, ch’ è piccola162.
La
pazienza dimostra se noi in verità amiamo o meno il nostro Creatore;
perocché «ella è il midollo della carità: ché carità non è
senza pazienzia, né pazienzia senza carità»163.
Di conseguenza Santa Caterina afferma che «tra l’ altre virtù
questa ci è la più necessaria»164.
O
vera e dolce pazientia, la quale se’ quella virtù che non se’
mai venta, ma sempre vinci! Tu sola se’ quella che mostri se l’
anima ama el suo creatore o no. Tu ci dài speranza della gratia. Tu
solvi l’odio e il rancore del cuore. Tu tolli el dispiacere del
prossimo. Tu privi l’ anima della pena. Per te i grandi pesi delle
molte tribulationi diventano leggieri, e per te l’amaritudine
diventa dolce; in te, patientia, virtù reale, acquistata con la
memoria del sangue di Cristo crucifisso, troviamo la vita165
Il
vizio contrario della pazienza è l’impazienza. Essa è sorella
della incostanza (vizio contrastante alla perseveranza), e causa dei
danni simili a quelli della incostanza. Cioè l’uomo privo della
pazienza non è libero per il fatto che è legato al proprio egoismo
ed alle cose transitorie di questo mondo. Chi non è legato
fortemente dall’amore divino non può essere né perseverante, né
paziente.
1.2.4 L’umiltà
Il
punto di partenza della considerazione sulla virtù dell’umiltà è
un fatto storico: «Dio umiliato a sé uomo, e per stirpare la nostra
superbia, fugge l’ onore e la gloria umana, e abraccia le vergogne
e le ingiurie, scherni e vituperi, pena, fame, sete, e
persecutioni»166.
Questa è l’umiltà che attira la sposa, consacrata a Cristo,
quando ella contempla lo Sposo, immolato, trafitto ed inchiodato
sulla croce. Cioè nel Verbo incarnato risplende in tutta la sua
perfezione la virtù dell’umiltà167:
«La sua umiltà stirpa la nostra superbia; egli è regola che tutti
ci conviene seguitare»168.
La
luce della ragione unita con quella perfetta della fede porta
all’umiltà. Questa luce c’indica nella valle dell’umiltà il
luogo dove fondare l’edificio della nostra perfezione spirituale. E
se, invece di edificio, si parlerà di albero, la valle dell’umiltà
sarà ancora il luogo al riparo dei venti. Proprio con la figura
dell’albero Santa Caterina ci dà il senso della funzione
insostituibile dell’umiltà nella nostra crescita spirituale169.
Come la misura della terra di questa immagine è data dal cerchio che
la limita, così l’umiltà è proporzionale alla conoscenza che
abbiamo di Dio e di noi170.
Non
è necessario avere molti difetti per essere umili, perché la
massima perfezione che la creatura possa ragiungere non toglie nulla
alla sua essenziale dipendenza da Dio. Ma i difetti che abbiamo sono
utili per aiutarci ad esercitare praticamente l’umiltà ad
acquistarne un senso più vivo.171
L’umiltà
mostra i limiti e anche la nobiltà della natura umana172:
«Non potremo vedere la nostra dignità né i nostri difetti [...] se
noi non ci andassimo a specchiare nel mare pacifico della divina
Essenzia»173
L’amore
della verità rende umile l’uomo. E la verità è questa: l’uomo
non è da sé, il suo essere e tutti i doni sopra l’essere (tra
questi anche le virtù) li riceve da Dio. Dio ci ha dato l’essere
per amore, ce l’ha dato a sua immagine e somiglianza174.
Dopo che l’uomo ha perso i doni della vita Dio - mosso dall’amore
- l’ha ricreato nella grazia per Cristo crocifisso175.
«Per umiltà la somma altezza discese alla bassezza della nostra
umanità; e per umiltà e amore inefabile ch’egli ebbe a noi, si
dié l’umanità sua all’ obrobiosa morte della croce, eleggendo
la via de’tormenti, de’fragelli stratii e vituperi»176.
Che cosa ha causato questa opera dell’amore? - Santa Caterina
risponde con vera umiltà: «le nostre virtù che non ci sono? No:
ma solo la sua infinita misericordia»177.
Questa
è la verità per il cui amore l’anima umile sopporta ogni fatica
con pazienza; e per questo l’umiltà è balia e nurtice dell’amore,
e l’amore partorisce l’umiltà178.
Per l’unità della catena delle virtù l’umiltà è la balia pur
dell’obbedienza:
Questa
virtù à una nutrice che la nutrica, cioè la vera umilità, unde
tanto è obbediente quanto umile e tanto umile quanto obediente.
Questa umilità è baglia e nutrice della carità, e però notrica il
latte suo medesimo la virtù de l’obedienzia. Il vestimento suo,
che questa nutrice le dà, è l’avilire sè medesimo, vestirsi d’
obrobri, di scherni e di villanie, dispiacere a sè e piacere a me.179
L’umiltà
- come sorella dell’obbedienza - è la base e condizione di ogni
unità, sia questa unità nell’anima o «fuori» (cioè
nell’insieme di persone diverse)180.
I
santi camminavano tutti sulla strada dell’umiltà, cominciando da
Sant’Agnese da Montepulciano fino a Santa Maria Maddalena181.
Ma prima di tutti Maria Santissima, l’Ancilla del Signore, ha preso
questa strada: colei, sulla cui umiltà rivolgendo i suoi sguardi182,
Dio la amò183.
La piccola virtù dell’umiltà «costrinse e inchinò Dio a fare
incarnare il Figliuolo dolcissimo suo nel ventre di Maria»184.
L’umiltà ha fatto Maria capace di accompagnare suo Figlio dalla
povertà della grotta di Betlemme fino all’obbrobrio della croce,
in virtù di questa umiltà Maria era così unita con la verità di
Dio che ella - se fosse stato necessario - avrebbe voluto costruirsi
scala per aiutare il Figlio a salire sulla croce185.
E
in tanto gli piacque la virtù dell’ umilità di Maria, che fu
costretto per la bontà sua di donare a lei il Verbo dall’unigenito
suo figliuolo; ed ella fu quella dolce Madre che il donò a noi.
Sapete bene, che infino che Maria non mostrò col suono della parola
l’umilità e la volontà sua, dicendi: «Ecce Ancilla Domini; sia
fatto a me secondo la parola tua»; il figliuolo di Dio non incarnò
in lei; ma, detta che ella l’ebbe, concepette in sé quello dolce e
immacolato Agnello, mostrando in questo a noi la prima dolce Verità,
quanto è eccellente questa virtù piccola, e quanto riceve l’
anima che con umilità offera e dona la volontà sua al Creatore.
186
L’Onnipotente
ha mostrato in Maria non solo la perfetta umiltà ma anche il premio
di questa virtù, quando l’ha assunta e l’ha incoronata in cielo.
In Maria si manifesta pure il premio della povertà, voluta per
umiltà, poiché questa dolce Madre essendo pur povera aveva «la
ricchezza del Figliuolo di Dio»187.
Il
vizio contrario dell’umiltà è la superbia che è la madre di
tutti gli altri vizi, la cui manifestazione tra l’altro è
«l’umiltà stolta» che solo pare di essere vera umiltà188.
La
superbia è una nostra stima errata, quasi di esseri autonomi
189.
Come la carità ha per suo midollo la pazienza, così la superbia ha
per suo midollo l’impazienza. L’amor proprio nutre la superbia.
La superbia è insieme la prima e l’ultima colonna del male
(queste: superbia, avarizia, lussuria), perché tutti i vizi sono
conditi con essa, come tutte le virtù sono condite e ricevono vita
dalla carità190.
1.2.5
La sollecitudine
La
sollecitudine sorge dall’umiltà e dalla gratitudine, ed è mossa
dal santo desiderio. L’anima riconosce con la luce della fede la
ragione della vita: la vita è stata donata all’uomo affinchè
operi per la gloria di Dio, per la salvezza delle anime e per il bene
comune, cioè - in ultima analisi - servi il prossimo suo e fatichi
per acquistare le virtù. L’anima riconosce che non ha tanto tempo
per lavorare a questo scopo. Vede «la brevità del tempo, il quale è
tanto caro a noi. Però che nel tempo si può acquistare la vita
durabile, e perderla, secondo che piace a noi; e, passato il tempo,
neuno bene possiamo adoperare.»191
Questa verità è basilare rispetto alla virtù della sollecitudine.
Perciò Santa Caterina ammonisce spesso i destinatari delle sue
lettere che non si sa quanto tempo ci sia ancora per fare il bene:
«Ricordovi che voi dovete morire, e non sapete quando»192.
«che
dormi tu, anima mia? dormi e la divina bontà veglia sopra te: e ‘l
tempo passa e non ti aspetta. Vuo’ tu esser truovata a dormire dal
Giudice, quando ti richiederà che tu rendi ragione del tempo tuo,
come tu l’ hai speso, e come sei stata grata al benefizio del
sangue suo?» Allora si desterà la mente: e poniamoché sopra di
quello destare non sentisse, ella s’ è pure desta, e stirpa lo
amore proprio dell’ anima sua. E per questo modo va innanzi, e
vassi dalla imperfezione alla perfezione; alla quale pare che
vogliate venire. Perocché l’amore non sta ozioso, ma sempre
adopera grandi cose.193
Appunto
perchè l’amore ordinato non può essere ozioso, Santa Caterina
spesso sollecita i suoi: «Pregovi dunque per amore di Cristo
crocifisso, che siate sollicito, e non negligente. Non più dormite
nel sonno della negligenzia, perocché il tempo è breve, e ‘lcammino
è lungo»194.
Il
tempo è un tesoro prezioso che non aspetta noi, allora non dobbiamo
aspettarlo neanche noi. «Son certa, - dice Santa Caterina - se
averete il lume della santissima fede, e che in verità cognosciate
la verità [...] , voi terrete queste vie senza negligenzia, e senza
mettere intervallo di tempo, ma con sollecitudine piglierete il punto
del tempo che voi avete»195.
È
per opera della sollecitudne che l’uomo non ritardi né nella
gioia, né nella tribolazione, ma «corre morto» sulla strada delle
virtù fino al martirio: «Pregovi che siate solliciti di consumare
la vita per»196
Cristo, poiché «Ora è il tempo [...] , di perdere tutto sé, e di
sé non pensare punto; siccome facevano i gloriosi lavoratori che con
tanto amore edesiderio disponevano di dare la vita loro e inaffiavano
questo giardino di sangue, con umili e continue orazioni, e col
sostenere infino alla morte»197.
È
l’amore che rende il cuore
sollecito e muove i piedi dell’affetto di andare là dove si
trovano le virtù. Senza la sollecitudine infatti l’anima non può
né trovarle, né ritenerle. La sollecitudine allora è un segno
della presenza delle altre virtù, soprattutto dell’amore: «L’
anima dunque, che non è sollicita, segno è che non ama»198.
Chi invece «arde nella fornace della carità, non è negligente;
anco, ha perfetta sollicitudine, perocché la carità non sta mai
oziosa, ma sempre adopera»199.
Il
vizio contrario della sollecitudine è la negligenza e l’oziosità,
la cui causa è l’amor proprio, il temere per sé.
1.2.6
La discrezione e la giustizia
La
giustizia è particolarmente la virtù dell’amore ordinato. L’anima
vestita di tale virtù, dà a tutti un debito: la gloria, l’amore a
Dio; la fatica per le virtù, l’odio e dolore dei propri peccati; e
il servizio al suo prossimo nelle necessità spirituali e materiali.
La
giustizia serve e non esiste senza la virtù del discernimento, cioè
della discrezione200.
Il principio della pratica della giustizia è infatti un giudizio
«discreto». La discrezione infatti consiste nella veracità della
conoscenza, «non è altro che un vero cognoscimento che l’ anima
ha di sé, e di Dio»201.
Non
c’é virtù così tipicamente cateriniana come la discrezione.
Caterina considera questa virtù come indispensabile: «la virtù
santa della discrezione [...] ci é necessaria ad avere, se vogliamo
la salute nostra». E se chiediamo «Perché ci è tanto di
necessità?»202,
la risposta la troviamo nel legame forte tra la discrezione e la luce
della fede la quale talmente illumina l’occhio della ragione umana
che quell’ultima vede e conosce tutto in modo ben distinto (il bene
viene distinto dal male, la verità dalla menzogna ecc.)
Se
consideriamo il rapporto della discrezione con la fede vediamo
nell’ammaestramento di Santa Caterina un legame forte tra le due
virtù. La luce della fede infatti sta alla base dell’ascesi
cateriniana. In quella luce l’anima aquista la conoscenza di sé e
di Dio e sente nascere il desiderio di rendere il proprio debito a
Dio e a sé. A questo punto però bisogna che intervenga la virtù
della discrezione ad illuminare l’anima sul come le convenga farlo.
In questo senso si parla della luce della discrezione che è
indispensabile per una carità autentica. La carità infatti deve
essere ordinata alla luce della discrezione.
L’albero
ha un «un figliuolo da lato», un germoglio che s’innesta sul
ceppo del tronco principale. «Discrezione non é altro che un vero
cognoscimento che l’anima debba avere di sé e di Me, in questo
cognoscimento tiene la sua radice. Ella é uno figliuolo che é
innestato e unito con la caritá203».
Caterina distingue la funzione della discrezione nei nostri rapporti
con Dio, con noi stessi, col prossimo. Questi sono i tre rami
principali del figliuolo.
Nei
nostri rapporti con Dio la discrezione non avrà freni da imporre
all’anima, poiché Dio dobbiamo amarlo «senza modo».
La
discrezione dunque illumina l’anima «accioché l’anima serva a
Dio con cosa che non gli può essere tolta e che non sia finita, ma
con cosa infinita, cioé col santo desiderio [...] e nelle virtù204».
La discrezione ci aiuta a trovare la volontà di Dio, cioé ad
evitare un amore spirituale verso di noi stessi che cerca la
consolazione invece l’utilità del prossimo o vuol «uccidere il
corpo ma non la volontà».
Rispetto
all’amore del prossimo la discrezione fa vedere una precisa scala
dei valori, poiché l’amore del prossimo deve essere «con modo e
non senza modo». Possiamo, e qualche volta dobbiamo, sacrificare i
beni del mondo per la vita del prossimo; la nostra stessa vita può
arrischiarsi per l’anima dei fratelli; ma niente può esigere da
noi o giustificare il sacrificio della vita dell’anima. Infatti é
un’illusione pensare che possiamo giovare al prossimo offendendo
Dio.
L’anima
discreta evita di lasciarsi rimorchiare dal prossimo e compiacergli
nel male, ma evita pure la cosa peggiore - opera della indiscrezione
-, cioé giudicare il prossimo.
La
virtù della discrezione nella vita di Santa Caterina era eccellente,
pensiamo al fatto storico: dava consiglio al papa.
In
ultima analisi il discernimento è la virtù che rende giustizia,
dando a ciascuno quel che gli spetta. Il discreto giudizio su Dio
infatti si nutre dalla comprensione della sua verità: «Perocché
colui che è esso amore [...] ci amò prima che noi fussimo, perché
voleva che partecipassimo del sommo ed eterno Bene. E però ciò che
egli ci dà, cel dà per questo fine»205.
Quindi
la giustizia si nutre con la verità di Dio che è stato conosciuto
con discrezione e esige un comportamento ben preciso: che noi amiamo
Dio infinitamente, l’amiamo con l’amore dell’amore, per sé
medesimo e non per la nostra utilità. L’amiamo perché in Lui
l’anima trova tutto - come dono - che la rende felice, a misura che
Dio stesso l’ha rivelato a Santa Caterina:
Io
so’ ricco, potevalo e posso dare, e la ricchezza mia è infinita;
anco ogni cosa è fatta da me, e senza me veruna cosa può essere.
Unde, se vuole bellezza, Io so’ bellezza; se vuole bontà Io so’
bontà, perchè so’ sommamente buono; Io sapienzia, Io benigno, Io
pietoso, Io giusto e misericordioso Dio. Io largo e non avaro. Io
so’ colui che do a chi m’ adimanda, apro a chi bussa in verità e
rispondo a chi mi chiama. Non so’ ingrato, ma grato e cognoscente
a remunerare chi per me s’ afadigarà, cioè per gloria e loda del
nome mio. Io so’ giocondo, chè tengo l’ anima che si veste della
mia volontà di sommo diletto. Io so’ quella somma providenzia che
non manco mai a’ servi miei che sperano in me, nè ne l’ anima nè
nel corpo.206
La
virtù della giustizia però all’anima non dà solo l’amore di
Dio per la vera conoscenza di Lui, ma a causa del vero conoscimento
di sé comporta pure l’odio dell’amor proprio sensitivo. L’anima
infatti vuol fare giustizia sopra di sé quando vede che «il sangue
fu sparto solo per lo peccato [...]; e vedendosi difettuosa, vede
ancora nel sangue la divina giustizia: perocché per fare giustizia
del peccato commesso, sparse il sangue suo»207.
L’anima
attinge forza, per poter fare giustizia sopra di sé, alla fede che
Dio è giusto ed «ogni colpa sarà punita e ogni bene remunerato»208.
Questa fede rende l’anima sollecita nel bene, nel servizio del
prossimo, nel sopportare la persecuzione, nella fatica quotidiana
della virtù e soprattutto nel dare il debito dell’orazione e del
desiderio.
La
giustizia divina viene misurata dall’amore e dalla misericordia.
Perciò per le nostre buone opere finite ci dà «frutto infinito,
vivendo in questa per grazia» e nell’ altra ci dà la vita
eterna209.
Il sommo Giudice che è «rimuneratore d’ ogni bene e punitore d’
ogni male» fa tanta misericordia, che la colpa che merita pena
infinita per avere offeso il Bene infinito» la punisce «in tempo
finito dandoci fatica e tribulazioni»210
e non nell’eternità, con la dannazione eterna (eccetto se l’anima
si ostina nel male). «Questo vede e cognosce l’ anima alluminata
della dolce verità: e però ha ogni cosa in debita riverenzia;
giudica giustamente la volontà di Dio e la providenzia sua in sé:
perocché la sua providenzia provede a ogni nostra necessità, e la
sua volontà non vuole altro che il nostro bene»211.
Il
grado eroico della giustizia, quando l’anima chiede che Dio punisca
lei per i peccati degli altri212.
Questo è il più grande amore che ci ha dimostrato l’esempio di
Cristo: «[...] Maggiore amore non può mostrare l’ amico, che dare
la vita per l’ amico suo; ed egli v’ ha dato la vita, avendo
svenato ed aperto il corpo suo»213.
L’anima attingie all’amore di Cristo crocifisso che ha tolto i
peccati del mondo prendendoli sopra di sé.
Santa
Caterina offre se stessa al papa, affinché punisca lei al posto dei
suoi fratelli che hanno peccato:
Ma
se volete fare vendetta e giustitia, pigliatela sopra di me, misera
miserabile, e datemi ogni pena e tormento che piace a voi, infine
alla morte. Credo che per la puzza delle mie iniquità sieno venuti
molti defetti e grandi inconvenienti e discordie. Dunque sopra me,
misera vostra figliuola, prendete ogni vendetta che volete.
E
pur nel Dialogo più volte offre se stessa per soffrire per gli
altri. Per esempio in questo passo: «O Padre eterno, [...] perchè
delle pene che debba portare il prossimo mio, io per li miei peccati
ne so’ cagione, però ti prego benignamente che tu le punisca sopra
di me»214.
La
virtù della giustizia è indispensabile soprattutto per coloro che
guidano gli altri: superiori delle comunità, re, governatori delle
città. Certamente perché chi è responsabile per gli altri, ma
manca della giustizia ed agisce «ingiustamente, cioè con poco
timore e onore di Dio, bene vede che questo gli dà la morte e fallo
degno dell’ eterna dannatione», come pure Pilato «el quale, per
paura di non perdere la signoria, uccise Cristo, e per la sua
ignorantia perdé lo stato dell’ anima e del corpo»215.
La
giustizia sostiene ogni stato e città. La giustizia testimonia
infatti che ogni potere è dato dall’alto216
ed esso viene dato alle creature solo in prestito. Al re di Francia
scrive Santa Caterina:
voi
sapete bene che vita né sanità né ricchezze né onore né stato né
signoria non è vostra. Ché s’ ella fusse vostra, voi la potreste
possedere a vostro modo. Ma talora vuole essere l’ uomo sano, ch’
egli è malato; o vivo, ch’ egli è morto; o ricco, ch’ egli è
povero; o signore, ch’ egli è fatto servo. E tutto questo è
perché non so’ sue; e non le può tenere se non quanto piace a
colui che gli l’ à prestate. Adunque bene è semplice colui che
possiede l’ altrui per suo: drittamente egli è furo ladro, degno
di morte.217
Chi
non è in grado di dominare sé stesso, non può governare bene
neanché gli altri. «Conviensi dunque che l’ uomo che ha a
signoreggiare altrui e governare, signoreggi e governi prima sé.
Come potrebbe il cieco vedere e guidare altrui? Come potrà il morto
sotterrare il morto? Lo ‘nfermo governare lo ‘nfermo, il povero
sovvenire al povero? non potrebbe»218.
La
giustizia fondata nel vero amore di Dio costituisce il più verace e
saldo legame di ogni società
umana in ogni suo
grado e forma: della famiglia, della città, dello stato,
dell’insieme delle nazioni di cui si compone la grande famiglia
umana219.
La giustizia infatti impone i doveri reciproci nella famigia degli
sposi, dei genitori verso i figli, dei figli verso i genitori ecc.220La
stessa giustizia ordina i rapporti degli uomini nella socetà civile
ma anche nella Chiesa.
Il
vizio contrario della giustizia è l’ingiustizia che è conseguenza
del amor proprio. Dall’amor proprio infatti - che è l’anticarità
- nasce il timore servile, e dal timor servile il malgoverno, che
abusa dell’autorità e vìola la giustizia nell’unico intento di
conservare a sé il potere. Sono ingiusti verso il prossimo, ma prima
«sono crudeli a loro medesimi» vivendo in immondizia e in tanta
superbia che «per la loro superbia non possono sostenere che gli sia
detta la verità»221.
Chi
guida gli altri - per poter farlo in modo giusto - deve spogliarsi
dal vecchio vestimento del peccato, dell’amor proprio e vestirsi
del «vestimento nuovo della divina carità»222,
ma prima di tutto deve liberarsi dal timore servile, affinché abbia
coraggio di correggere gli altri:
Neuno
stato si può conservare nella legge civile e nella legge divina in
stato di grazia senza la santa giustizia, però che colui che non è
corretto e non corregge fa come il membro che è cominciato a
infracidare, che se ‘l gattivo medico vi pone subitamente l’
unguento solamente e non incuocie la piaga, tutto il corpo
imputridisce e corrompe223.
La
gemma della giustizia però risplende nei superiori veri e santi:
facevano
sacrificio di giustizia con santa e onesta vita. La margarita della
giustizia, con vera umilità e ardentissima carità, col lume della
discrezione, riluceva in loro e ne’ loro sudditi: in loro
principalmente. Giustamente rendevano a me il debito mio, cioè
rendendo gloria e loda al nome mio; a sè rendevano odio e
dispiacimento della propria sensualità, spregiando i vizi e
abbracciando le virtù con la carità mia e del prossimo loro. Con
umilità conculcavano la superbia e andavano come angeli a la mensa
de l’ altare; con purità di cuore e di corpo e con sincerità de
mente celebravano, arsi nella fornace della carità. E perchè prima
avevano fatta giustizia di loro, però facevano giustizia de’
sudditi, volendoli vedere vivere virtuosamente, e correggevano senza
veruno timore servile, perchè non attendevano a loro medesimi ma
solo a l’ onore mio e alla salute de l’ anime, sì come pastori
buoni, seguitatori del buono Pastore mia Verità, il quale Io vi diei
a governare voi pecorelle, e volsi che ponesse la vita per voi
224.
1.2.7
La purità
La
purità è lo stato dell’anima unita a Dio. Il Dialogo
perciò insegna così:
Vuogli
tu venire a perfetta purità ed essere privata degli scandali, e che
la mente tua non sarà scandelizzata per veruna cosa? Or fa che tu
sempre ti unisca in me per affetto d’ amore, però che Io so’
somma ed eterna purità e so’ quel fuoco che purifico l’ anima; e
però quanto più s’ accosta a me tanto diventa più pura, e quanto
più se ne parte tanto più è immonda. E però caggiono in tante
nequizie gli uomini del mondo perchè sono separati da me, ma l’
anima che senza mezzo si unisce in me participa della purità mia225.
L’importanza
della puritá viene dimostrata anche dal fatto che la purezza viene
contata tra le virtù più caratteristiche di Caterina226.
La purità perfetta è la figlia della carità227,
la quale nasce tra lacrime. Le lacrime del fuoco, le lacrime della
carità ardente, cioè le lacrime del pianto perfetto228
sono quelle che lavano l’anima nella contrizione sì che «sarà
bianca più della neve»229.
La
fonte della purità è l’umiltà e l’obbedienza230.
Questa preziosa virtù è sposa della povertà, e segue sempre quella
virtù che «riveste lo sposo suo di purità, tollendo via la
ricchezza che ‘l faceva immondo»231.
La purità è vestita «di sole di giustizia» ed è adornata «col
fibbiale dell’ obedienzia e colle margarite della fede viva,
speranza ferma e carità perfetta».
E
la purità viene aiutata dalla virtù della sollecitudine. La purità
riguarda la mente come il corpo e quando le facoltà dell’anima
vengono ordinate, raccolte in Dio, cioè pure, l’anima comincia ad
evitare le cose superflue, perché queste ritirerebbero ella dal
servizio di Dio e del prossimo.
E
voglio che voi pensiate, figliuole mie, che questa purità di mente e
di corpo non si potrebbe avere con le molte conversazioni delle
creature, né col ponere l’ affetto e l’ amore nostro in loro n‚
in cose create, fuori della volontà di Dio; n‚ con amore proprio e
tenerezza del corpo nostro; ma acquistasi con molta sollicitudine di
vigilie e d’ orazioni, e con confirma memoria del suo Creatore;
sempre ricognoscendo l’ amore ineffabile che Dio gli ha.232
La
perfetta purità - come tutte le virtù - è un dono del Figlio di
Dio, perciò incoraggia Santa Caterina un’anima consacrata per
andare a Cristo per acquistare una purità più perfetta: «in tanto
ché, quanto più t’accosti a lui, tanto più raffina il fiore
della verginità tua»233.
Il
vizio contrario della purità fa parte dei tre vizi principali «cioè
della immondizia e infiata superbia e della cupidità, [...] Di
questi tre vizi l’uno dipende da l’altro, e il loro fondamento di
queste tre colonne è l’ amore proprio di loro medesimi»234
1.2.8
L’amore della povertà
In
questa parte ho tentato di raccogliere quelle virtù cateriniane che
sembravano più importanti. Perciò non può mancareon la lode di
quella virtù che dalla Santa viene chiamata ancora regina. Questa
virtù è l’amore della povertà.
Questa
regina non trova posto, se non in quell’anima che l’accoglie per
un motivo particolare e ben preciso: per la salvezza dell’anima,
per «il regno dei cieli»235.
Non le cose create corrompono l’uomo - poiché tutta la creazione
proviene da Dio, dal sommo bene -, ma l’attaccamento disordinato ai
beni transitori fanno male all’anima.
La
base dell’autentico amore della povertà è la speranza che è
fondata nella fede che «Dio provvede a tutti, in diversi modi. In
modo tutto speciale provvede a quelli che hanno rinunziato all
richezza, causa di ogni male»236.
Questa
povertà soprannaturale ce la insegna il Figliuolo di Dio:
E
non ve la insegna con parole solamente ma con esempio; unde, dal
principio della sua natività infino a l’ ultimo della vita, in
esempio v’ insegnò questa dottrina. Egli la sposò per voi questa
sposa della vera povertà; con ciò sia cosa che egli fusse somma
ricchezza per l’ unione della natura divina, unde egli è una cosa
con meco, e Io con lui, che so’ eterna ricchezza. E se tu il vuogli
vedere umiliato e in grande povertà, raguarda Dio essere fatto uomo,
vestito della viltà de l’ umanità vostra. Tu vedi questo dolce e
amoroso Verbo nascere in una stalla, essendo Maria in camino, per
mostrare a voi viandanti che voi dovete sempre rinascere nella stalla
del cognoscimento di voi, dove trovarete nato me, per grazia, dentro
ne l’ anima vostra. Tu il vedi stare ine in mezzo degli animali, in
tanta povertà che Maria non à con che ricoprirlo. Ma essendo tempo
di freddo, col fiato de l’ animale, e col fieno ricoprendolo, sí
riscaldava. Essendo fuoco di carità, vuole sostenere freddo ne l’
umanità sua. In tutta la vita, mentre che visse nel mondo volse
sostenere, e senza discepoli e co’ discepoli: unde alcuna volta per
la fame sgranellavano i discepoli le spighe e mangiavano le granella.
E ne l’ ultimo della vita sua, nudo e spogliato e fragellato alla
colonna e asetato, sta in sul legno della croce, in tanta povertà
che la terra e il legno gli venne meno, non avendo luogo dove
riposare il capo suo; ma convennesi che sopra la spalla sua riposasse
il capo. E, come ebbro d’ amore, vi fa bagno del sangue suo, uperto
il corpo di questo Agnello, che da ogni parte versa. Essendo in
miseria dona a voi la grande ricchezza; stando in sul legno stretto
della croce egli spande la larghezza sua a ogni creatura che à in sè
ragione; assaggiando l’ amaritudine del fiele egli dà a voi
perfettissima dolcezza; stando in tristizia vi dà consolazione;
stando confitto e chiavellato in croce egli vi scioglie dal legame
del peccato mortale; essendosi fatto servo v’à fatti liberi e
tratti della servitudine del dimonio; essendo venduto v’à
ricomperati di sangue; dando a sè morte, à dato a voi vita.237
Ci
insegna la povertà la sposa del «Padre dei poveri»238,
Maria dolce che pur avendo tra le bracce il Verbo eterno come
bambino, «non ebbe panno dove invollerlo»239,
ma ha sperimentato come è «ricco Dio nella misericordia»240.
1.2.9
La gratitudine
La
gratitudine - come la carità - è madre di tutte le virtù, per
questo concludiamo questo breve riassunto delle virtù con la
gratitudine.
Ogni
gratitudine viene dalla conoscenza di sé241,
dal riconoscimento del fatto che tutto è dono, dono di Dio. L’anima
che - giungendo alla luce della conoscenza di sè - conosce questa
verità, può essere grata pur delle persecuzioni e tribolazioni,
poiché da queste nascono le virtù provate242.
Che
cosa dimostra la gratitudine? La gratitudine dell’anima non viene
dimostrata dalle parole, ma dalle opere243.
L’anima manifesta la sua gratitudine per la mortificazione della
volontà propria, per i santi e buoni atti. Poichè Dio non ha
bisogno dei miei servizi, noi dobbiamo verificare la nostra
gratitudine per il servizio del nostro prossimo:
Chi
è grata, [...] sovviene e fa utilità al prossimo suo, vedendo che a
Dio non la può fare. Perocché egli è lo Dio nostro che non ha
bisogno di noi; e volendo l’ anima grata dimostrare che in verità
ricognosce le grazie ricevute da lui, il mostra sopra la creatura che
ha in s‚ ragione, la quale vede che Dio molto ama. E in tutte
quante le cose s’ ingegna di mostrare nel prossimo suo gratitudine
a Dio. Onde tutte le virtù sono esercitate per gratitudine: cioè,
che per amore che l’anima ha conceputo, diventa grata; perché col
lume ha ricognosciute le grazie del suo Creatore in sé. Chi la fa
paziente, che con pazienza porti le ingiurie e rimproverii e villanie
dalle creature, battaglie e molestie del dimonio? la gratitudine. Chi
la fa annegare la propria volontà e soggiogarla al giogo della
obedienzia santa? la gratitudine.244
L’anima
grata attribuisce a Dio i frutti di ogni sua fatica e con vera umiltà
riconosce che tutte quelle grazie che possiede vengono da Dio e non
dal suo «proprio potere e sapere», poiché con tutto il suo «studio
umano» non avrebbe potuto fare, «senonché Dio ‘l fece» quando
«Egli volse l’occhio della sua misericordia sopra di» lei. E tale
anima, poiché è grata a Dio, è grata pure al prossimo suo245.
Uno
splendente esempio di questa virtù lo troviamo in Maria: «Ella non
è ingrata a chi la serve; anco, è grata e cognoscente»246.
Il
vizio contrario della gratitudine è l’ingratitudine. Anche questo
vizio è una delle conseguenze dell’amor proprio dell’uomo
anziano. È molto dannoso rispetto alla vita dell’anima, poiché
l’accompagnano tutti gli altri vizi247.
L’ingrato non conserva nella sua memoria il sangue248,
la prova del gratuito e incondizionato amore di Cristo crocifisso.
L’ingratitudine allontana l’anima dall’amore di Dio e del
prossimo «germina superbia, vanità e leggerezza di cuore, con molta
immondizia [...], priva l’ anima della carità fraterna inverso del
prossimo suo; e concepe odio e dispiacimento. E se egli pur ama;
amalo per propria utilità, e non per Dio.»249
Santa
Caterina conclude il Dialogo
con un bellissimo inno pronunciando anche che la creatura finita non
è capace mai di rendere grazie in modo sufficente per i doni
ricevuti a Colui che è infinito. Dio però può farlo quando riveste
l’anima in sé, nella Verità sua. Allora chiediamolo a Lui
affidandoci alle parole di Santa Caterina da Siena.
Grazia,
grazia sia a te, Padre eterno, chè tu non ai spregiata me, fattura
tua, nè voltata la faccia tua da me, nè spregiati i miei desideri.
Tu, luce, non ài raguardato alla mia tenebre; tu, vita, non ài
raguardato a me che so’ morte, nè tu, medico, per le mie gravi
infermità; tu, purità eterna, a me che so’ piena di loto di molte
miserie; tu che se’ infinito, a me che so’ finita; tu sapienzia,
a me che so’ stoltizia. Per tutti quanti questi ed altri infiniti
mali e difetti che sono in me, la tua sapienzia, la tua bontà, la
tua clemenzia e il tuo infinito bene non m’ à spregiata, ma nel
tuo lume m’ ài dato lume. Nella tua sapienzia ò cognosciuta la
verità, nella tua clemenzia ò trovata la carità tua e dilezione
del prossimo. Chi t’ à costretto? Non le mie virtù, ma solo la
carità tua. Questo medesimo amore ti costringa ad illuminare
l’occhio de l’ intelletto mio del lume della fede, acciò che io
cognosca la verità tua manifestata a me. Dammi che la memoria sia
capace a ritenere I benefici tuoi, e la voluntà arda nel fuoco della
tua carità; il quale fuoco facci germinare e gittare al corpo mio
sangue, e con esso sangue dato per amore del sangue, e con la chiave
dell’ obedienzia io diserri la porta delcielo. [...] E chi potrà
agiognere all’ altezza tua e renderti grazia di tanto smisurato
dono e larghi benefizi quanti tu ài dati a me, della dottrina della
verità che tu m’ ài data? [...] Volesti conscendere, alla mia
necessità e dell’altre creature che dentro ci si specchieranno. Tu
rispondi Signore: tu medesimo ài dato e tu medesimo rispondi e
satisfa, infondendo uno lume di grazia in me, acciò che con esso
lume io ti renda grazie. Veste, veste me di te, Verità eterna, sì
che io corra questa vita mortale con vera obedienzia e col lume della
santissima fede, del quale lume pare che di nuovo inebri l’anima
mia. Deo gratias. Amen.250
2.
La virtù dell’amore
e Santa Caterina
2.1.
La Sposa dei Cantici
Dopo
aver parlato sufficientemete della virtù della carità in generale,
in questo capitolo ne parliamo da un punto di vista particolare in
quanto la carità è una virtù di una persona concreta, è la carità
di Santa Caterina verso Dio e - per Dio - verso il prossimo.
Questa
carità che vive in Santa Caterina, è un’amore sponsale, l’amore
della «sposa di Cristo»251
verso il suo sposo.
Questo
amore è una risposta alla «dolce parola della Cantica»252;
un cantico al Cantico: questo amore in Santa Caterina è davvero il
Cantico dei Cantici.
Sembra
che tutto questo sia apparso evidente a quelli che vivevano intorno a
lei. Non è per caso che il Beato Raimondo inizia due grandi parti
(libri II e III) della Legenda
citando brani dal Catnico
dei Carntici. Egli
vede in Santa Caterina - che ha avuto la grazia dello sposazlizio
mistico e dello scambio del cuore con il Signore253
- la sposa del Cantico
dei Cantici. Così
quando il Signore chiama la Santa dalla stretta contemplazione -
secondo le parole di Beato Raimondo - vive l’angoscia della Sposa
dei Cantici che ha trovato l’amato dalla sua anima254
e teme di perderlo.
Lo
sposo che sta nei cieli, parlando nei Cantici alla sua cara e diletta
sposa: «Aprimi sorella mia, amica mia, innamorata mia; il mio capo è
pieno di rugiada, e i miei capelli pieni dell’umido della notte»
La sposa risponde: «Mi spogliai della mia tonaca, come farò a
rivestirmene? Lavai I miei piedi, come tornerò io ad imbrattarmeli?»
[...]
Ad ogni anima, che ha gustato quanto è attraente il Signore, riesce
molto difficile distaccarsene o allontanarsi dalla pienezza delle sue
soavità. Se ciò dovesse accadere, la sposa chiamata da Dio a
generare figliuoli e a porgere loro il necessario non potrebbe non
risentirsi, brontolare un pochetto, e manifestare il suo
risentimento. Queste le ragioni, per le quali ho riportato sopra la
voce dello Sposo, che sveglia la sposa dormente nel letto della
contemplazione, spogliata delle cose temporali e lavata di ogni
immondizia, e la invita ad aprire la porta, la quale non è
certamente la sua, ma quella delle altre anime. La sua porta, senza
dubbio, stava già aperta; altrimenti non avrebbe potuto riposare nel
Signore, nè, a rigore di termini, si sarebbe potuta chiamare sposa.
Caterina, avendo inteso dalla voce del suo Pastore e Sposo, di essere
chiamata dalla dolcezza della quiete alle fatiche, dal silenzio ai
rumori, dal ritiro della cella al pubblico, rispose con voce
lamentevole: «Mi sono già spogliata della veste di ogni cura
terrena: ora che l’ho gettata via da me, dovrò di nuovo
riprenderla? Ho lavato di ogni macchia di peccato e di vizio i piedi
delle mie affezioni, dovrò, dunque, di nuovo sporcarmeli con la
polvere della terra?»
[...]
Il Signore [...] le dice: «Aprimi ecc.» Aprimi, cioè, col tuo
ministero, la porta delle anime, per la quale io possa entrare in
loro. Apri la via, per la quale le mie pecorelle possano andare e
venire liberamente a brucar erba. Apri ancora a me, cioè, a mio
onore, lo scrigno del tesoro celeste, sia delle dottrine che delle
grazie, perché si sparga a piene mani sui fedeli. Aprimi, mia
sorella, per la conformità della natura; amica mia, per l’intima
carità; colomba mia, per la semplicità della mente; immacolata mia,
per la purità dell’anima e del corpo. A tutte queste cose la santa
vergine risponde alla lettera.255
Nelle
prime righe del terzo libro della Legenda
Beato Raimondo cita di nuovo il Catnico
dei Cantici. Il
perfetto fine che è desiderato con desiderio256,
cioè la morte, è il compimento dell’amore della sposa e dello
Sposo: «Chi è costei, che sale dal deserto ricolma di delizie,
appoggiata al suo diletto?»257
Beato Raimondo giustamente domanda: «Chi è costei?»; poiché in
Santa Caterina è diventata visibile la verità che si legge
all’inizio del Dialogo
e spesso anche nelle Lettere,
che l’ anima diventa un altro sé di Cristo:
l’orazione
[...]
unisce l’anima in Dio seguitando le vistigie di Cristo crocifisso,
e così per desiderio, affetto e unione d’amore ne fa un altro sè.
Qquesto parve che dicesse Cristo quando disse: «Chi m’amerà e
serverà la parola mia, Io manifesterò me medesimo a lui, e sarà
una cosa con meco ed Io con lui»; ed in più luoghi troviamo simili
parole, per le quali potiamo vedere che egli è la verità che per
affetto d’ amore l’ anima diventa un altro lui e per vederlo più
chiaramente258.
In
Caterina si è realizzato ciò che lei stessa raccomandava ai servi
di Cristo, al papa e ai sacerdoti, cioè di diventare Cristo. Nella
sua vita realizzata nell’amore Santa Caterina è diventata un
«altro Cristo». «Ella è fatta una cosa con lo Sposo suo [...] chi
dimandasse Cristo crocifisso: “chi è questa anima?”, direbbe: “è
un altro me, fatta per affetto d’amore.”»259
Beato Raimondo domanda giustamente: «Chi è costei?», Cristo o
Caterina, oppure sono due in una sola carne?260
Questa
vita realizzata nell’amore sale dal deserto di sé stesso e poi
dalle cose che passano sale alla «perfetta unione»261,
poiché il fuoco della divina Carità «fa levare l’affetto
dell’anima sopra se medesima»262,
si eleva a quelle delizie che comporta l’essere appoggiata al
diletto, poiché si appoggia più al suo Sposo che a una creatura.
Da
tutto questo, la persona intellingente viene a capire che questa
terza parte, contenendo la beata fine e l’ultimo buon frutto
della nostra santa vergine, conferma e abbellisce le prime due parti.
Indubbiamente, con le parole citate, si mostra la bellezza di tutte
le virtù di Caterina e la sua eccellenza straordinaria, quando con
meraviglia, ci si domanda: «Chi è costei?»263.
Si dà ancora a conoscere che, pel vigore di spirito, era nel volo
più leggera dei volanti, mentre si aggiunge: «che sale dal deserto
ricolma di delizie». In ultimo si dimostra che, per l’intensità
dell’affetto e per l’eterna amicizia, il Signore era unito a lei,
quando si afferma: «appoggiata al suo diletto». [...] Da tutto ciò
si conclude che Caterina, ripiena di divino amore, in questa valle di
lacrime giunse, mediante la grazia di Dio, a uno grado simile di
virtù, che prima di arrivare al termine dell vita, fece tutti gli
sforzi per raggiungere quasi innanzi tempo la mèta, e corse
velocemente, anelando con ardore al premio celeste. [...] Catarina,
sul termine di questa vita, fatta simile al suo Sposo nei patimenti,
unita a lui e a lui appoggiata, con la vittoria su questo secolo
malvaggio, tutta lieta e gloriosa ascese al cielo.264
Dietro
alla domanda di Beato Raimondo «Chi è costei?» può celarsi una
sua esperienza documentata nella Legenda:
Un’altra
volta, senza che io lo cercassi, ebbi un altro segno della perfezione
di questa vergine; e lo voglio divulgare a suo onore, benché sia
certo di farci una ben magra figura. Caterina si trovava in letto
ammalata nel predetto monastero, e desiderando di parlarmi di cose
revelatele da Dio, mi fece chiamare di nascosto. Ci andai e mi
accostai al suo letto e lei, secondo il suo modo di fare, cominciò a
parlarmi di Dio, e a raccontarmi ciò che quel giorno le era stato
rivelato. All’udire cose tanto straordinarie, che non capitano a
nessuno, dimentico e ingrato della prima grazia già ricevuta, ebbi
dei dubbi, e dissi fra me: Ma sarà vero tutto quello che dice?
Mentre pensavo così, volsi lo sguardo verso di lei, che parlava, e
sull’istante al sua faccia si trasformò in quella di un uomo
fiero, il quale, fissandomi con occhi seri, mi mise addosso una gran
paura. Era una faccia ovale, di mezza età, e aveva una barba corta
del color del grano, e mostrava nell’aspetto una tal maestà, da
far capire che fosse il Signore. In quel momento, del resto, non
potevo riconoscere altra faccia all’infuori di quella. Spaventato e
atterrito, alzando le mani all’altezza delle spalle, gridai: «Chi
è che mi guarda?». La vergine rispose: «Colui che è!».265
2.2 Le
parole conclusive: «Gesù dolce, Gesù amore»
Prima
di trattare le immagini cateriniane che provengono dal Cantico
dei Cantici e
dimostrano l’amore dell’anima verso Dio e l’amore di Dio verso
l’uomo, fermiamoci per un attimo a una caratteristica della
spiritualità di Santa Caterina.
Nel
secondo capitolo di questo lavoro abbiamo detto che Santa Caterina
comincia il Dialogo
ed ogni sua lettera nel nome
di Gesù Cristo
crocifisso. Corrispondendo a questo punto sicuro dell’inizio, Santa
Caterina finisce ogni sua lettera con il santo nome
di Gesù: Gesù dolce, Gesù amore. L’alfa e l’omega delle sue
lettere e della sua dottrina, come se fossero i due pillastri del
ponte, il nome santo di Gesù e questo nome:
Amore. «Egli è esso
Amore»266
Gesù Cristo è l’amore stesso. Per Santa Caterina l’amore non è
soltanto una virtù della persona, ma la
Persona stessa, lo
stesso Signore Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio. Per lei questa
parola, amore, è il nome del Figlio di Dio, del Messia, del
Salvatore, del Agnello, del Redentore; è un nome
che riguarda lo stesso mistero di Cristo.
Per
l’Antico Testamento (prima di tutto per l’autore del Libro
della Sapienza) la
sapienza è uno degli attributi di Dio, è «emanazione della gloria
dell’Onnipotente [...] e immagine della sua bontà»267,
ma non è persona. Da quando però Gesù Cristo ha rivelato agli
uomini il nome di
Dio268,
la Sapienza - per i seguaci suoi - è Gesù Cristo stesso
personalmente. Similmente - per quelli che sono fidanzati a Cristo269-
egli non è solo l’amante del Cantico
dei Cantici, ma
l’Amore stesso. San Giovanni apostolo, «uno dei discepoli, quello
che Gesù prediligeva e se ne stava appoggiato al petto di Gesù»270e
riposava sul petto suo come una borsettina di mirra271
ha sentito questa verità nella rivelazione della preghiera
sacerdotale di Gesù e la dice pure: Dio è Carità272.
Si
può quindi chiamare Gesù Cristo per questo nome: Amore,
come per qualsiasi altro nome riguardante il mistero della
redenzione. Lo fa Santa Caterina per concludere ogni suo parlare, ma
usa questo nome anche in sé come un rivolgere la parola a Cristo: «O
Amore, con quanta carità e con quanta letizia dicesti quella parola
di fare di te sacrificio, perchè ti vedi presso al termine!»
Anche
l’esortazione conclusiva: «Permanete nella santa e dolce dilezione
di Dio» che troviamo spesso alla fine delle lettere, si riferisce
alla preghiera sacerdotale di Gesù: «conserva nel tuo nome
coloro che tu mi hai
dato»273,
cioè in quel nome che è «Amore».
Il
nuovo comandamento di Gesù: «Amatevi gli uni con gli altri»274
non comanda un amore qualsiasi (tiepido, mondano, o amor proprio), ma
quell’amore che conserva e fissa l’anima in Cristo, nell’Amore.
Il
compimento dell’esortazione «Amatevi, amatevi insieme!» non è
possibile se l’anima non rimane «nella santa e dolce dilezione di
Dio».
Se
abbiamo detto nei capitoli precedenti che la virtù non è che una
certa stabilità, perseveranza dell’anima nel bene, una
disposizione a fare il bene, allora adesso nel contesto sopracitato
possiamo ripetere: nell’insegnamento cateriniano l’unica vera
causa della virtù che dà stabilità, perseveranza nel bene, è
Cristo, Cristo crocifisso e il suo amore. L’anima può essere
«amatore della virtù» solo perché è sposa della virtù; amante
dell’amore, amato di Cristo.
2.3
Le immagini e parole
dal Cantico dei Cantici
Nelle
immagini e parole di Santa Caterina da Siena è sempre presente come
fondamento e retroscena il dialogo del Cantico
dei Cantici: un
dialogo
dell’amore, un dialogo dell’amore dell’anima verso lo Spirito.
L’anima può essere il vero e proprio «amatore della virtù»,
sposa della virtù, perché le virtù le trova in Cristo che è
l’amato dell’anima sua275.
2.3.1
«Veni [...] sponsa
mea, veni »276
La
vita di Santa Caterina è un’unica «sì» alla parola dello Sposo
che chiama: «Vieni, mia sposa». E Santa Caterina sollecita i suoi
figli spirituali a dare la stessa risposta: «Rispondi a Cristo
crocifisso che ti chiama con umile voce»277;
«Oimè! non più, per l’amore di Dio! Attendete, attendete alla
salute vostra: rispondete a Cristo che vi chiama.»278
«Rispondi a Cristo
crocifisso [...] ; corri dietro all’odore dell’unguento suo.»279
2.3.2
«Trahe me, post te
curremus in odorem unguentorum tuorum»280
Le
ultime parole del punto precedente si riferiscono già ad un’altra
immagine dei Cantici:
«Corriamo, corriamo...» -- una bellissima esortazione di Caterina
per i suoi cari. «Corriamo, corriamo, corriamo, morte, per la via
della virtù»281;
«Corrimao come affamati dell’onor suo [di Dio] e della salute
della creatura)»282;
«corriamo verso il calore della divina carità»283.
«Corri
dietro all’odore dell’unguento suo»284
- l’odore dell’unguento è il profumo delle virtù di Cristo, il
profumo del Sangue285.
2.3.3
«Trahe me»286
«Attraimi»
- è la parola del santo desiderio, è la preghiera continua, l’unica
necessaria domanda dell’anima a Dio. Questa parola e questo
desiderio: «Trahe me»,
è la risposta al desiderio di Dio, a quel desiderio che è in Dio
per l’uomo. «Ragguardando Dio in sé medesimo, s’ innamorò
della bellezza della sua creatura; e come ebbro d’amore, ci creò
alla imagine e similitudine sua.»287
L’unità infatti del desiderio santo di Dio e quello dell’uomo è
il fondamento dell’unione dell’uomo con Dio. La prima e dolce
Verità ne parla così a Santa Caterina:
Ché
morendo in su la croce, terminò la pena del santo desiderio ad un’
ora con la vita; ma non terminò il desiderio e la fame che io ho
della salute vostra. Che se l’amore ineffabile che io ebbi e ho
all’ umana generazione fusse terminato e finito, voi non sareste.
Perocché come l’amore vi trasse dal seno del Padre mio, creandovi
con la sapienza mia; così esso amore vi conserva: chè voi non sete
fatti d’altro che d’amore. Se ritraesse a sé l’amore con
quella potenzia e sapienzia con la quale egli vi creò, voi non
sareste.288
Cristo
«per fame e sete che aveva d’ansietato desiderio della salute
nostra,
gridava in sul legno della santissima croce, quando disse sitio.
Quasi dica: Io ho più sete e desiderio della salute vostra, che con
questa
pena
finita mostrare non vi posso.»289«
O amore, [...] Tu facesti come colui che à avuto grandissimo
desiderio di fare una grandissima operatione, che quando se la vede
presso a fare, à gaudio e letitia, e con questa letitia corre questo
inamorato all’obrobrio della santissima croce. »290
Nel
dialogo tra la Verità e l’anima si uniscono i due desideri, quello
di Dio e quello dell’uomo: «è il desiderio di Dio, il quale, il
desiderio che è nell’affetto dell’anima, trae a se, e fannosi
una cosa l’uno con l’altro.»291
All’inizio della lettera scritta al domenicano Bartolomeo Dominici
possiamo leggere: « [...] e Catarina serva inutile di Gesù Cristo
si raccomandano; con desiderio di vedervi unito e transformato in
quello transformato e unito desiderio di Dio.»292«Cristo
crocifisso sarà il facitore e adempitore degli spasmati desideri de’
servi di Dio.»293
«Il qual desiderio
il
[l’uomo] fa correre per la via, per la strada battuta da Cristo
crocifisso.»294
L’anima
quindi è capace di chiedere: Trahe
me, perché Dio stesso
è colui che fa e rafforza tale desiderio dell’anima «rapendo e
tirando a sè più forte il desiderio suo»295.
Cristo crocifisso ed innalzato da terra trae a sé e compie questo
desiderio dall’altezza della croce296.
Queste
parole di Santa Caterina sono nutrite probabilmente pure dalle sue
esperienze mistiche: ella poteva sperimentare non di rado questa
attrattiva di Dio nei sui rapimenti estatici quando «’l vasello
del corpo suo perde ogni sentimento; in tanto che vedendo non vede,
udendo non ode, parlando non parla, andando non va, toccando non
tocca» e «Dio con la virtù e carità sua ha tratto a sé quell’
affetto: e però mancano e’ sentimenti del corpo; perché più
perfetta è l’ unione che l’anima ha fatta in Dio, che quella
dell’anima nel corpo.»297
Nel Dialogo
così insegna di questa perfetta unione «Colui che è»:
Io,
che esalto gli umili, trassi a me il desiderio e l’affetto di
quella anima, dandole cognoscimento ne l’abisso della Trinità, me
Dio etterno, illuminando l’occhio de l’intelletto suo nella
potenzia di me Padre, nella sapienzia de l’ unigenito mio Figliuo,
e nella clemenzia dello Spirito santo, i quali siamo una medesima
cosa. In tanta perfezione s’ uní quella anima, ch’ el corpo si
sospendeva da la terra, perchè come nello stato unitivo de l’anima
Io ti narrai, era più perfetta l’unione che l’anima aveva fatta
per affetto d’amore in me, che nel corpo suo.298
2.3.4
«Introduxit me in
cellam vinariam, ordinavit in me caritatem»299.
L’attrattività
di Dio ordina nell’anima la carità, e l’amore ordinato per le
virtù rende ordinata l’anima stessa.300
Questo
amore ordinato è l’amore del Crocifisso che su, in alto sulla
croce, raccoglie e sottopone in un unico motivo le potenze e le
operazioni dell’anima.301
Questo unico motivo, principio è l’onore di Dio e la salvezza del
prossimo. L’anima fuori di questi non cerca l’altro. Questo
principio ordina ogni parola, ogni pensiero, ogni atto dell’anima.
Ella ama il prossimo suo per Dio. Dio, lo ama per Dio medesimo, che è
il sommo bene, unico degno dell’amore. L’anima ama tutto e tutti
gli altri solo per Lui ed in Lui. Questa «carità ordinata» è
l’amore della virtù. Dio «trae a sé le potenzie dell’anima,
con tutte le sue operazioni. Perché la memoria s’ è empita del
ricordamento de’ beneficii, e della grande bontà sua; l’intelletto
ha posto dinanzi a sé la dottrina di Cristo crocifisso, data a noi
per amore; e però la volontà corre con grandissimo affetto ad
amarla. Allora tutte le operazioni sono ordinate, e congregate nel
nome suo.»302
Dico
che l’ anima che [...] raguarda coll’occhio dello intelletto el
cuore consumato e aperto per amore, ella riceve in sè tanta
conformità con lui, vedendosi tanto amare, che non può fare che non
ami. E allora diventa l’ anima ordinata, ché ciò ch’ama, ama
per Dio, e neuna cosa ama fuore di lui; e così diventa un altro lui
per desiderio, perocche non si truova altra volontà che quella di
Dio.303
colui
che in verità è privato dell’ amore sensitivo, ama il suo
Creatore sopra ogni cosa, e il prossimo come sé medesimo. Il quale
amore non può avere, che prima col lume dell’ intelletto non
cognosca, sé medesimo non essere, e l’ essere suo ricognosca da
Dio, e ogni grazia ch’ è posta sopra l’ essere. Allora, quando
così dolcemente cognosce sé, e il difetto suo, e la bontà di Dio;
odia il suo difetto, e il proprio amore che n’ è cagione; e ama la
virtù; e per amore della virtù, la quale egli ama per amore del suo
Creatore, si dispone a sostenere ogni pena, prima che offendere Dio e
contaminare la virtù; e tutte le sue operazioni sono drizzate
secondo Dio, e spirituali e temporali. E in ogni stato che egli è,
ama e teme il suo Creatore. Onde, s’ elli ha le ricchezze e lo
stato del mondo, e figliuoli, e parenti, e amici; egli possiede ogni
cosa come cosa prestata, e non come cosa sua; e usale con modo, e non
senza modo. E s’ elli è nello stato del matrimonio; sì vi sta
ordinatamente, come a sacramento, avendo in riverenzia e’ dì che
sono comandati dalla santa Chiesa. S’ egli ha a conversare con le
creature e a servirle, elli le serve schiettamente, non col cuore
finto, ma libero, avendo rispetto solamente a Dio. Egli ordina le
potenzie dell’ anima sua, e tutti e’ sentimenti del corpo. Onde
la memoria ordina a ritenere e’ benefici di Dio, e lo intelletto a
intendere la sua volontà, la quale non vuole altro che la nostra
santificazione; e la volontà dispone ad amare il suo Creatore sopra
ogni cosa. Ordinate che sono le potenzie dell’ anima, sono ordinati
tutti e’ sentimenti del corpo.304
Ci
esorta Santa Caterina: «Non amate voi per voi, ma voi per Dio; né
la creatura per la creatura, ma solo a loda e gloria del nome di Dio;
n‚ amate Dio per voi, per vostra utilità, ma amate Dio per Dio, in
quanto è somma bontà, degno d’ essere amato.»305
E questo amore ordinato fa «che
nella
allegrezza non disordina, nè nella tristizia viene a impazienza: ma
tutto
è maturo.»306
Questo amore però non solo garantisce l’unità della singola
anima, ma è il fondamento del rapporto giusto pure tra gli uomini.
E
perché l’anima è fatta per puro amore, l’ amore accorda le
potenzie dell’ anima nostra, e legate insieme queste tre potenzie.
La volontà muove l’ intelletto a vedere, volendo amare alcuna
cosa: sentendo l’ intelletto che la volontà vuole amare, se ella è
volontà ragionevole, l’ intelletto si pone per obietto l’ amore
ineffabile del Padre eterno [...] ; e l’ obedienzia e umilità del
Figliuolo, sostenendo con mansuetudine pene, ingiurie, strazii,
scherni e villanie, [...] Legatevi, legatevi insieme, figliuoli miei,
caritativamente; l’ uno sopporti e comporti e’ difetti dell’
altro; acciò che siate legati, e non sciolti, in Cristo dolce Gesù.
Amatevi, amatevi insieme: ché voi sapete che questo è il segno che
Cristo lassò a’ discepoli suoi, dicendo che ad altro non sono
cognosciuti e’ figliuoli di Dio, se non all’ umilità dell’
amore che l’ uomo ha col prossimo suo in perfettissima carità. Ho
avuta grandissima consolazione delle buone novelle dell’ unità ch’
io ho udita che avete insieme. Crescete.307
Quest’amore
ordinato si manifesta nella creazione, in quanto le cose create sono
ordinate al servizio dell’uomo308.
Quest’ordinato amore edifica il bene comune, la società, perché
Dio ha disposto i beni, le virtù particolari che gli uomini abbiano
bisogno dell’aiuto altrui.
non
dare a uno uomo, e a ogni uno a sè medesimo, il sapere fare quello
che bisogna in tutto alla vita de l’ uomo; ma chi n’ à uno e chi
n’ à un’ altro, acciò che l’ uno abbi materia per suo bisogno
di ricorrire a l’ altro. Unde tu vedi che l’ artefice ricorre al
lavoratore e il lavoratore a l’ artefice: l’ uno à bisogno de l’
altro, perchè non sa fare quello, l’ uno, che l’ altro. Cosí il
cherico e il religioso à bisogno del secolare, e il secolare del
religioso; e l’ uno non può fare senza l’ altro. E cosí d’
ogni altra cosa. E non potevo Io dare a ogni uno tutto? Sí bene, ma
volsi con providenzia che s’ aumiliasse l’ uno a l’ altro, e
costretti fussero di usare l’ atto e l’ affetto della carità
insieme.309
Pure
i beati vivono in questo amore ordinato, e per questo uno è lieto
del bene dell’altro:
Se
tu raguardi di sopra in me, Vita durabile, nella natura angelica e
nei cittadini che sono in essa vita durabile, che in virtù del
sangue dell’ Agnello ànno avuta vita eterna, Io ò ordinato con
ordine la carità loro, ciò è che non ò posto che l’ uno gusti
pure il bene suo proprio nella beata vita che egli à da me e non sia
participato dagli altri. Non ò voluto così, anco è tanto ordinata
e perfetta la carità loro, che il grande gusta il bene del piccolo,
e il piccolo del grande. [...] O quanto è fraterna questa carità,
e quanto è unitiva in me e l’ uno con l’ altro, perchè da me l’
ànno e da me la ricognoscono con quel timore santo e di debita
reverenzia, che vedendo loro s’ affogano in me, e in me veggono e
cognoscono loro dignità nella quale Io gli ò posti. L’ angelo si
comunica con l’ uomo, cioè co’ l’ anime dei beati, e i beati
con gli angeli. Sì che ogni uno in questa dilezione della carità
godendo il bene l’ uno de l’ altro, esultano in me con giubilo e
allegrezza senza tristizia, dolce senza veruna amaritudine, perchè
mentre che vissero e nella morte loro gustarono me per affetto d’
amore nella carità del prossimo. Chi l’ à ordinato? La sapienzia
mia con ammirabile e dolce providenzia.310
2.3.5
«[...]
bibi vinum meum cum
lacte meo. Comedite, amici, et bibite et inebriamini, carissimi»311
Lo
Sposo dei Cantici
invita i suoi amici a
mangiare e bere insieme a Lui. In questo stato ordinato della carità
l’anima «gusta il latte della divina dolcezza, ella si inebria del
Sangue di Cristo»312.
Lo stato dell’amor ordinato quindi è lo stato dell’ebbrezza. Lo
Sposo invita i suoi cari alla mensa della santissima croce313
dove l’anima diventa ebbra dell’amore. Lo Sposo invita a mangare,
a bere ed a inebriarsi quelli che non chiama più servi, ma amici
suioi314.
Maria
Maddalena è stata maestra e madre per Santa Caterina - come rispetto
alle lacrime perfette così - anche rispetto all’ebrietà. La
insegnava quella «dolcissima Maddalena» e «Maddalena amore», la
quale «per vedere il maestro suo, ella allaga di sangue» e sotto la
croce «s’inebria d’amore Maddalena, in segno che ella è
inebriata del maestro suo»315.
La
bevanda inebriante è il sangue di Cristo, di cui dice il Padre nel
Dialogo
che è «il sangue del mio Figliuolo il quale fu il vino che vi porse
questa vite vera». «Questo sangue è uno vino che inebbria l’anima,
del quale quanto più beie, più ne volrebbe bere, e non si satia
mai, però che ‘l sangue e la carne è unita con lo infinito Dio.»316
Questa
anima ebbra è colei che corre «morto» sulla via della verità,
corre algli odori dei profumi,317
poiché pure Cristo ciò l’ha fatto: «O inestimabile dilectione e
carità! Tu dimostrasti questo affocato desiderio e corristi come
ebbro e cieco all’obrobio della Croce. Il cieco non vede e l’ebbro
quando è bene avinacciato: così egli quasi come morto perdette sé
medesimo, siccome cieco ed ebbro della nostra salute.»318
2.3.6
«Introduxit me in
cellam vinariam»319
Lo
Sposo dei Cantici
ha introdotto la sua sposa nella cantina, nella «cella
vinaria» che è il
luogo dove l’anima si inebria del vino, del sangue del Figliuolo di
Dio, dell’Agnello immacolato. Questa cantina è la cella spirituale
che costruisce l’anima in sé per Dio, «la quale cella è
un’abitazione che l’uomo porta seco dovunque va. In questa cella
s’acquistano le vere e reali virtù»320poiché
questo è il posto dove «l’orazione continua [...] unisce l’anima
in Dio»321.
Per amore ordinato l’anima «partesi della conversazione degli
uomini, e fugge e ricovera in cella, cercando lo sposo suo, e
abbracciandosi con esso in sul legno della santissima croce. Ine si
bagna di lacrime e di sudori ed inebriasi del sangue del consumato ed
innamorato Agnello: pascesi de’ sospiri, i quali gitta per dolci e
affocati desideri. Or questa è vera e reale sposa»322.
«In cella fa mansione con lo Sposo eterno, abbracciando le vergogne
e le pene per qualunque modo gli concede; spregiando le delizie, lo
stato e l’onore del mondo.»323
«In cella si notrica di sangue, ed unisce col sommo ed eterno Bene
per affetto d’amore.»324
A
causa dell’unità delle immagini di Santa Caterina possiamo dire
che questa «cella
vinaria» è pure il
costato aperto di Cristo crocifisso (che si è fatto Ponte) di cui
leggiamo le parole divine nel Dialogo:
è il luogo «dove voi potiate vedere e gustare l’amore ineffabile
che Io v’ ò, trovando e vedendo la natura mia divina unita nella
natura vostra umana»325.
E la Santa in questo senso parla della bottega del costato aperto di
Cristo crocifisso e sollecita le sue figlie spirituali: «Or su,
carissime figliuole, non stiamo più a dormire nel sonno della
negligenzia, ma entriamo nella bottiga aperta del costato di Cristo
crocifisso (dove noi roviamo il sangue) con ansietato dolore e pianto
dell’ offesa di Dio.» 326
Ma la «cella vinaria»
si riferisce alla Chiesa stessa. Il cellerario di questa cantina è
il papa:
sai
ch’ Io ti posi il corpo mistico della santa Chiesa quasi in forma
d’ uno cellaio, nel quale cellaio era il sangue de l’unigenito
mio Figliuolo, nel quale sangue vagliono tutti i sacramenti, e ànno
vita in virtù di questo sangue. A la porta di questo cellaio era
Cristo in terra, a cui era commesso aministrare il sangue, e a lui
stava di mettere i ministratori che l’aiutassero a ministrare per
tutto l’ universale corpo della religione cristiana.327
2.3.7
«Hortus conclusus
sorror mea sponsa»328
Per
l’amore ordinato l’anima diventa un giardino chiuso.
è
chiusa, e non è aperta, cioè che non si diletta nelle delizie del
mondo [...] e non si distende in piacere alle creature, ma solo al
Creatore. E quando il dimonio le desse laide e diverse cogitazioni
con molte fadighe di mente e disordinati timori, allora ella non
s’apre, ponendoseli a investigare, nè a voler sapere perché
vengano, nè a stare a contendere con loro; e non spande il cuore suo
per confusione né per tedio di mente; né abbandona gli esercizi
suoi. Anco si serra e si chiude colla compagnia della speranza e col
lume della santissima fede.329
Ma
la Chiesa stessa è un giardino: «il giardino de’ Cristiani, dove
essi dilettano, e onde essi traggono la vita della Grazia» ,è un
«glorioso giardino», di cui lavoratori siamo noi «ciascuno secondo
lo stato suo»330.
E
pure le comunità religiose sono giardini e i religiosi devono essere
«fiori odoriferi piantati nel giardino della santa religione».
2.3.8
«mea sponsa»
Tuttavia
l’anima che è nel cellaio ed inebriata dell’amore ordinato, che
risponde all’invito dell’eterno Sposo, prima di tutto è sposa.
Una sposa, che è fidanzata e aspetta le nozze, come Santa Caterina
stessa dal momento del suo sposalizio mistico con il Signore
aspettava il compimento promesso. Cristo infatti ha fatto la promessa
a Santa Caterina che ella, dopo una vita santa, nel cielo avrebbe
celebrato con il suo Sposo le nozze eterne: «Ecco: io ti sposo a me
nella fede; a me tuo Creatore e Salvatore. Conserverai illobata
questa fede fino a che non verrai in cielo a celebrare con me le
nozze eterne.»331
Una
lettera di Santa Caterina, scritta alla sua nipote, Nanna332
è basata sulla parabola delle dieci vergini333,
poiché tutti gli uomini sono invitati alle nozze. L’anima nella
sua vita o procede verso le nozze di Cristo, oppure verso quelle del
demonio.334
Lo sposo è Cristo, l’umile ed immacolato Agnello, che correva
verso la morte obbrobriosa della croce: «Egli è quello eterno Sposo
che non muore mai: egli è somma sapienzia, somma potenzia, somma
clemenzia e somma bellazza, in tanto che ‘l sole si maraviglia
della bellezza sua. Egli è somma purità, in tanto che, quanto più
l’anima che è sua sposa, s’accosta a lui, tanto più diventa
pura e monda d’ogni peccato, e più sente l’odore della
verginità.»335
Questo
Sposo che lava «la faccia della sposa sua [...] nell’acqua del
santo battesimo, il quale battesimo vale a noi in virtù del sangue:
e il sangue gli fu colore, che fece la faccia dell’anima
vermiglia, la quale era tutta impallidita per la colpa di Adam.»336
La sposa di Cristo crocifisso «è vulnerata di questa saetta della
carità» e il suo cuore «ogni dì di nuovo gli sono gittate nuove,
cioè saette d’ardentissima carità.»337
Questo
Sposo veste la sua sposa «di sole di giustizia»338.
Questa giustizia è «antica e nuova»339.
Il vestito nuziale si fa nel fuoco del divino amore e ne veste
l’anima il Sangue, poichè ha sparso il fuoco dell’amore di Dio:
«O sangue dolce, tu la spogli del proprio amore sensitivo, el quale
amore indebilisce l’anima che se ne veste; e a’la vestita del
fuoco della divina carità, perché non può gustare te, sangue, che
tu non la vesta di fuoco, perché tu fusti sparto per fuoco d’amore,
acostandoti nell’ anima.»340
Questo vestito della sposa è adornato dalle veri e reali virtù.
Parmi
che la prima dolce Verità t’ abbia mandati i messi ad annunziare
le nozze, e a recarti il vestimento: e questi messi sono le sante e
buone ispirazioni e dolci desiderii che ti sono dati dalla clemenzia
dello Spirito Santo. Queste sono quelle sante cogitazioni che ti
fanno fuggire il vizio e spregiare il mondo con tutte le delizie sue,
e fannoti giugnere alle nozze delle vere e reali virtù. [...] vedi
che le spirazioni sante di Dio ti recano il vestimento della virtù,
fannotelo amare (e però ti vesti); ed invitati alle nozze di vita
eterna. Perocché dopo il vestimento della virtù e della
ardentissima carità séguita la Grazia, e dopo la Grazia la visione
di Dio, dove sta la nostra beatitudine.341
tu
sia vera sposa consegrata allo sposo, adornata e vestita di virtù.
Sai, dilettissima mia figliuola, che la sposa, quando va dinanzi allo
sposo, s’ adorna e si veste; e singularmente s’ adorna e pone el
colore vermiglio, per piacere allo sposo suo. Così voglio che facci
tu, che tu abi in te el vestimento della carità, senza el quale
vestimento non potresti andare alle nozze, [...] voglio e comandoti
che [questo dolce vestimento] tu me l’ adorni di fregiature, cioè
della santa e vera ubedientia, essendo sempre oservatrice dell’
ordine tuo, sudita e obediente a madonna e alla più minima che v’
è. Tolle la virtù dell’ umilità, la quale nutricarà in te la
virtù dell’ obedientia, riconoscendo e’ doni e le gratie che tu
ài ricevute da lui. Fa’ che tu sia sposa fedele.342
La
caparra delle «nozze di vita eterna» è il dolore sopra i peccati,
il quale dolore adorna la sposa come fascio di mirra343.
promettovi
così, di pigliare e’ miei e vostri [difetti], e faronne uno fascio
di mirra, e porrommelo nel petto per continuo pianto e amaritudine,
fondata in vera carità, ci farà pervenire alla vera dolcezza e
consolatione della vita durabile. Perdonate alla mia presumptione e
superbia. Racomandatemi e benedicete tutta la fameglia in Cristo
Gesù. Pregolo che vi doni quella dolce etterna beneditione, e sia di
tanta fortezza, che rompi e spezzi tutti e’ legami che vi
tollessero lui. Permanete nella santa dilectione di Dio.344
Il
rapporto di ogni cristiano - soprattutto dei sacerdoti e religiosi -
con la verità è una relazione che si può esprimere con l’immagine
del fidanzamento. L’essere sposi infatti è la sostanza di ogni
cristiana relazione d’amore.
È
sposa dunque pure la Chiesa: «la Sposa di Cristo»345
e la «dolce sposa» del «Cristo in terra» cioè del papa.
Prima
di tutti è sposa Maria, «ella era vulnerata della saetta dell’
amore della nostra salute»346.
La Beata Vergine Maria «come cera calda ha ricevuta l’impronta del
desiderio e dell’amore della nostra salute dal suggello dello
Spirito Santo»347.
Per
mezzo di questa dolce Maria tutta l’umanità è diventata sposa:
«Sposa fu fatta la creatura razionale quando Dio prese la natura
umana»348.
Santa Caterina esprime anche in una preghiera questo mistico
sposalizio tra il Creatore e la creatura sottolineando pure il ruolo
particolare di Maria: «lo sposo si unì alla sposa, cioè la
divinità nel Verbo alla umanità nostra, e di questa unione fu mezzo
Maria, che vestì te sposo eterno della sua umanità.»349
Dio
quindi ha fatto tutta la generazione umana «sposa del Verbo del suo
Figliuolo, il quale dolce Gesù la sposò colla carne sua, perocchè,
quand’egli fu circonciso, tanta carne si levò nella circoncisione
quanta è una estremitè d’uno anello, in segno che come sposo
voleva sposare l’umana generazione»350.
In
quanto proprio tutti siamo invitati ad essere sposi fedeli di Cristo,
Santa Caterina pone la domanda: «E non sarebbe bene stolta e matta
quell’anima che può essere libera e sposa, ed ella si facesse
serva e schiava, rivendendosi al dimonio, e adultera?» - e risponde
decisamente: «Certo sì.»351
2.3.9
«flores apparuerunt in
terra nostra»352
Questa
immagine dei Cantici
- «i fiori sono riapparsi sulla nostra terra» - è particolarmente
bella. Essa simboleggia l’avvicinamento dello Sposo e delle nozze
eterne.
La
prima Verità vuole «producere i fiori»353
scrive la Santa al suo padre spirituale e dice in un’altra lettera:
«Orsù, figliuolo, non stiamo più in negligenzia, ché il tempo de’
fiori ne vene.»354
Santa Caterina sollecita di non dormire più «nel letto della
negligenzia» poiché è il tempo da dare «la vita per lo Dio
nostro, dove si terminano tutte le iniquità nostre. Questo dico per
l’odore del fiore che comincia ad aprire»355.
Appunto per la brevità del tempo esorta Caterina così:
«Confortatevi in Cristo Gesù dolce amore: ché tosto vedremo
apparire i fiori»356
«Tosto [...] verranno i frutti, poiché ‘l fiore comincia a
venire.»357
Per
concludere e riassumere le immagini attinti dai Cantici
citiamo più a lungo dalla lettera scritta alla moglie di Bernabò
Visconti:
Adunque
correte, madre, e corriamo tutti fedeli cristiani, all’ obietto di
questo sangue, dietro all’ odore suo. Allora diventaremo veramente
ebri d’esso sangue, arsi e consumati nella divina dolce carità;
fatti saremo una cosa con lui. Faremo l’ebrio, che non pensa di sé,
se non del vino ch’egli ha bevuto e di quello che rimane a bere.
Inebriatevi di sangue per Cristo crocifisso: poi che l’avete
inanzi, non vi lasciate morire di sete; non ne prendete poco, ma
tanto che voi v’inebriate, sì che perdiate voi medesima. Non amate
voi per voi, ma voi per Dio; né la creatura per la creatura, ma solo
a loda e gloria del nome di Dio; né amate Dio per voi, per vostra
utilità, ma amate Dio per Dio, in quanto è somma bontà, degno
d’essere amato. Allora l’amore sarà perfetto e non mercennaio.
Non potrete pensare altro che di Cristo crocifisso, del vino che
avete bevuto, cioè della perfetta carità, la quale vedete che Dio
v’ha data e mostrata inanzi la creazione del mondo, inamorandosi di
voi prima che voi fussi. Che se non si fusse inamorato, mai non
v’averebbe creata. Ma, per l’amore ch’ egli v’ebbe vedendovi
in sé, egli si mosse a darvi l’essere. Or qui si destendaranno i
pensieri vostri in questa carità. Ben dico che pensarete in quello
che è a bere, cioè aspettando e desiderando d’avere e gustare la
somma eterna bellezza di Dio.358
1Vita,
n.11
2Lett.
71. p. 588.
3Vita,
n.14, p.26.
4Vita,
n.10, p.23.
5Cf.
Ap
20,1
6Vita,
n.11, p.24.
7Vita,
n.11, p.24.
8«Caritas
igitur facit hominem Deo inhaere propter seipsum, mentem hominis
uniens Deo per affectum amoris. [...] Fides ergo facit hominem Deo
inhaerere inquantum est nobis principium cognoscendi veritatem
[...], Spes autem facit Deo adhaerere prout est nobis principium
perfectae bonitatis». ST,
II-II, q. 17, a. 6.
9Cf.
la legenda della santa martire Sofia.
10Cf.
Lett.
281.
11Lett.
69.
12Dial.
XLIII.
13Lett.
69.
14Lett.
56.
15Cf.
Rm
1,17
16Cf.
Vita
n.145
17Vita
n.115
18Cf.
Mt
5,37
19Cf.
San Tommaso: II-II, q. 4, a. 7
20Cf.
Lett.
39; 157; 266.
21Lett.
350. p. 269.
22Diminutivo
di pupula, a sua volta diminutivo di pupa, detta così dalla piccola
immagine che si vede riflessa nell’occhio. N.
Zingarelli,
Vocabolario
della Lingua italiana,
Zanichelli, Bologna (1994)
23Cf.
Lett.
173.
24Lett.
78.
25Lett.
102.
26Cf.
Lett.
31.
27Cf.
Lett.
88; 314.
28Lett.
233
29cfr.
Lett. 123; Cf. G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XV, n.5 ,
p.18.
30Cf.
Lett.
150; 354.
31Cf.
Lett.
21; 173; 178; 343.
32Cf.
Lett.
188.
33Cf.
Lett.
341.
34Cf.
Lett.
364.
35Cf.
Gn
15,11
36Cf.
Lett.
31.
37Cf.
Lett.
15.
38Cf.
Lett.
83.
39Cf.
Lett.
39; 178.
40Cf.
Lett.
344.
41Lett.
150.
42Lett.
69.
43Cf.
Mt
17,19
44Lett.
32.
45Gc
2,26
46Cf.
Lett.
154.
47Lett.
122.
48Lett.
85.
49Lett.
345.
50Cf.
Lett.
343.
51Cf.
Lett.
345; Rm
8,24
52Cf.
Lett.
352.
53Lett.
346.
54Cf.
Dial.
LVI; CXXXVI,
55Cf.
Lett.
343.
56Lett.
173.
57Cf.
Lett.
169.
58Lett.
298.
59Lett.
85.
60Cf.
Dial.
CXLII,
61Dial.
151
62Cf.
Lett. 345; G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XVII, n.1 ,
p.11-13.
63Lett.
352; Cf. Ger
17,5
64Dial.
CXIX.
65Lett.
343, Cf.Dial.
LXVI; CXXXVI.
66Dial.
CXXXVI, p.434-435.
67Articoli
riguardanti: Thomas
Deman,
«Pour une théologie de l’amour d’après l’Epistolario
(spécialment la lettere 29 ed. Tommaseo)», in Studi
Cateriniani,
XI, (1935), p. 90-99; e delle tre gradi dell’amore: Garrigou
- Lagrange, R.,
«La carità secondo S. Caterina da Siena» in Vita
Cristiana,
X, (1938), p.173-189.
68Cf.
Cor
13,8
69
Cf. Lett.
16, 17, 36, 118, 187, 292, 320, 328, 340.
70Cf.
Lett.
16, 36, 52, 97, 189, 207, 208, 225, 226.
71Cf.
Lett.
345; 104.
72Dial.
CLX.
73Cf.
Lett.
161.
74Lett.
113; Cf. Lett.
86.
75Lett.
29; Cf. Lett.285.
76Lett.
29.
77
Cf. Oraz I, IV.
78
Cf. Giovanni
Paolo
II, Lett. enc. Veritatis
splendor (6
agosto 1993), 87 in AAS
85 (1993), 1202: “Jesus (...) indicat libertatem amore effici,
donatione scilicet sui. Is (...) libere Passioni occurrit (cf. Mt
26,46) et Patri in cruce oboediendo vitam pro omnibus hominibus dat
(cf. Phil 2,6-11).
79Cf.
Lett.
38, 113.
80Lett.108, p.964.
81Cf.
Lett.
29; 62; 90; 112; 121; 143; 254; Dial.
CXLI; CLV; CLIX.
82Lett.
29.
83Lett.
21; 173; 254.
84Cf.
Lett.
69; Col
2,14
85Cf.
Lett.
21
86Cf.
Lett.
34.
87Cf.
Lett.
38. p.976; 113; Dial.
X; XCIII.
88Cf.
T. Mazzei, Le
virtù nel Dialogo Cateriniano.p.46.
89
Dial.
X.
90Cf.
Lett.
223.
91Cf.
Lett.
86; 88.
92L’Arcivescovo
di Siena Monsignor Gaetano Bonicelli Cf. Roberto Romaldo, Messagera
di Pace per gli uomini del nostro tempo, in Oss. Rom. , 5. Maggio
1996
93Cf.
Fil 3,20
94Lett.
350. p.274.
95Lett.
310. p.195; Cf. Bel esempio dell’amore della patria che è nato
dall’amore di Dio, la grande santa dei Francesi: Giovanna d’Arco.
96Cf.
Lett.
3; 56; 58; 66; 68; 81; 90; 105; 120; 138; 154; 170; 184; 315; 329;
354.
97Lett.
299.
98Cf.
Lett.
32; 49; 73; 101; 113; 141; 153; 154; 173; 173; 178; 199; 241; 304;
342; 351; 365; 366; 369.
99Cf.
Lett.
366; 369.
100Cf.
Lett.
292
101Cf.
Lett.
188.
102Lett.
86.
103Lett.184, p.1522.
104Lett.184, p.1526
105Lett.
33; ICor
13,4-12
106Lett.
107
107Cf.
II
Cor 5,21
108Cf.
Eb
5,8
109Cf.
Fil
2,7
110Cf.
Mt
8,20; Lett.
114; 64; 75; 87; 152; 217.f
111Cf.
Lett.
258.
112Cf.
Lett.
107.
113Cf.
Lett.
96
114Lett.
77.
115Lett.
83.
116Lett.150, p.1394
117Cf.
Lett.
184.........
118Cf.
Lett.
37; 40; 48; 72; 76; 93; 95; 96; 107; 113; 119; 245; 289; 297; 267;
373; 355.
119Lett.
76.; Cf. Lett.
107; 200.
120Cf.
Lett.
76; 150; 246; 289, 290; 294; 334; 378; 380.
121Lett.
82.
122Cf.
Lett.
82.
123Cf.
Lett.
282; 291; 293; 305, 310; 334; 373.
124Lett.
84.; Cf. 38; 44; 56; 64, 96; 264; 322; 352; 361; 380.
125Lett.
96.
126Lett.
173.
127Lett.
27.
128Cf.
Dial. XV, 51
129
Cf. Dial.
CLXIII, 568.
130Cf.
T. Mazzei,
Le virtù nel Dialogo Cateriniano,
p. 28-29
131Cf.
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XVII, n.3 ,
p.12-14.
132Dial.
CLV.
133Lett.
27
134Lett.
84.
135Lett.
84.
136Cf.
Fil
2,8; Lett.
30; 36.
137Dial.
CLIV.
138Lett.
30.
139Lett.
35.
140
Cf. Lett. 62.
141
Cf. Dial.
CLXIII, 568.
142
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XVII, n.3 ,
p.12.
143Lett.
118
144Lett.
217.
145Cf.
Vita
146Cf.
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 ,
p.12-15.
147Lett.
30.
148Lett.
30.
149Lett.
36.
150Lett.
36; Cf.84.
151Lett.
84.
152Dial.
CLC.
153Dial.
CLIX, p.547
154Dial.LXXVII.
155Dial.
XCV.
156Lett.
297.
157Lett.87)
Dial.
X
158Dial.
CLV.
159Cf.
Lett.
355.
160Cf.
Lett.
1; 6.
161Rom
8,18
162Lett.
299.
163Lett.
355; Cf. Lett.
51
164Lett.
151.
165Lett.
151.
166Lett.
175.
167G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4,
p.20.
168Lett.
109.
169Cf.
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 ,
p.17.
170G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 ,
p.18.
171Cf.
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 ,
p.18.
172Cf.
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4,
p.18.
173Lett.
226.
174Cf.
Lett.
263; 113; 221; 246; 259.
175Cf.
Lett.
263; 113; 221; 246; 259.
176Lett.
75.
177Lett.
173.
178Cf.
Lett.
51; 88.
179Dial.
CLIV.
180Cf.
Lett.
14; 28; 29; 58; 61; 79; 93; 95; 171; 277; 286; 348; 373.
181Cf.
Lett.
58.
182Cf.
Lc
1,48.
183Cf.
Mc
10,21
184Lett.
174. Cf. Cavallini, Le virtù in L’albero---A.XIV, n.4, p.20.
185
Cf. Lett.
30. p. 1062; 144. p. 994-997; Lett.
240. p. 804-805.
186Lett.
38. p. 879-880.
187
Cf. Lett.
363.
188Lett.266, p.749.
189Cf.G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4,
p.18.
190Dial.CXXVIII, p.385.
191Lett.
82.
192Cf.
Lett.
5, 31; 59; 88; 157; 258; 261; 277; 350.
193Lett.
82.
194Lett.
27.
195Lett.
173.
196Lett.
30.
197Lett.
373.
198Cf.
Lett.
104.
199Lett.
51.
200Cf.
Cavallini,
G.,
Le
virtù,
in L'Albero
della Carità,
A.XIV, n.5, p.19
201Lett.
173.
202Lett.213, p.1007
203Dial.
IX
204Lett.
213
205Lett.
173.
206Dial.
CXLI.
207Lett.
153.
208Lett.
59; Cf.Lett.60;
85; 110; 301; 307; 313; Dial.
XIV.
209Cf.
Lett.
19.
210Cf.
Lett.
307.
211Lett.
307.
212Cf.
Lett.
310.
213Lett.184, p.1526.
214Dial.
II.
215Cf.
Lett.
168.
216Cf.
Gn
19,11.
217Lett.
235.
218Lett.
121; Cf. Lett.
135; 291; 268; 338.
219Cf..
G. Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XV, n.5,
p.13.
220Cf.
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XV, n.4 ,
p.13-17.
221Cf.
Lett.
367.
222Lett.
268.
223Dial.
CXIX.
224Dial.
CXIX.
225Dial.
C.
226Cf.
Vita,12;
G.
Cavallini,
«Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XXI, n.1 ,
p.10-13.
227Cf.
Lett.
279.
228Cf.
Dial.
LIIIVIII.
229Cf.
Sal,
50,9
230Cf.
Lett.
67.
231Dial.
CLI.
232Lett.
40.
233Cf.
Lett.
26.
234Dial.
LXXXIV.
235Cf.
Mt
5,3; Dial.
CLI.
236Cav.
Introd. del Dial. P.XXIII
237Dial.
CLI.
238Cf.
Sequentia «Veni Sancte Spiritus»
239Cf.
Lett.
79.
240Cf.
Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Dives
in misericordia, (30
nov 1980)
241Cf.
Lett.
1.
242Cf.
Lett.
89; 320; 1.
243Cf.
Lett.
339.
244Lett.
336.
245Cf.
Lett.
349. p. 432.
246Lett.
184. p. 1525.
247Cf.
Lett.
96; 337; 1.
248Cf.
Lett.
167.
249Lett.
349. p. 430.
250Dial.
CLXVII, p. 583-584; 587.
251Vita
n.118.
252Lett.
66. p. 1264.
253Cf.
Vita
n.12, n.114, n. 179-180.
254Cf.
Ct
3,4
255Vita
n.118-119. Cf. Ct
5,2-3.
256Cf.
Lett.
16; 36; 37; 52; 61; 97; 139; 189; 206; 207; 208; 225; 240; 298; Lk
17,15
257Vita
n.330. p.343, Cf. Ct
8,5
258Cf.
Dial.
I, p. 2.
259Lett.
215. p. 1093.
260Cf.
Mk 10,8; 1Cr 6,16
261Dial.
LXXXIV, p. 219.
262Lett.
263. p. 1680.
263Vita.
p. 343.
264Vita
n.331. p. 344.
265Vita
n. 90.p.102.
266Cf.
Lett.
184. p. 1525.
267Sap
7,25-26
268Cf.
Gn
17,6
269Cf.
IICor
11,2
270Gn
13,23.
271Cf.
Ct
1,12
272Cf.
Gn
4,8
273Cf.
Gn
17,11
274Cf.
Gn
13,34
275Cf.
Ct
3,4
276Ct
4,8; cfr. Ct
2,13; 5,2; cfr. l’espressinone cateriniana: «Vieni diletta sposa
mia»: Lett.66
p.1264:
277Lett.
276. p. 1657.
278Lett.
21. p. 1661.
279Lett.
276. p. 1657. Cf. 1,3
280Ct
1,3.
281Lett.
30. p. 1061.
282Lett.
137. p. 1550.
283Lett.
172. p. 1338.
284Lett.
276. p. 1657. Cf. 1,3
285Cf.
Lett.
29; 73.
286Ct
1,3.
287Lett.
308. p. 1017.
288Lett.
16. p. 230.
289Lett.
8. p. 1312. Cf. Gn
19,28
290Lett.
97. p.992.
291Lett.
26. p. 817.
292Lett.
70. p. 1196.
293Lett.
16. p. 233.
294Lett.
29. p. 635.
295Dial.
III, p. 7;cfr. Gn
6,44
296Cf.
Gn
12,32; 34; Lett.
139; 286
297Lett.
263. p. 1680.
298Dial.
CXLII, p. 460.
299Ct
2,4.
300Cf.
Lett.
223.
301
Dial.
XXVI, p. 70.
302Lett.
263. p. 1680.
303Lett.
97. p. 992.
304Lett.
244. p. 782.
305Lett.
29. p. 636.
306Lett.
351. p. 134.
307Lett.
95. p. 1553, 1556.
308Cf.
Dial.
XXVI, p. 70.
309Dial.
CXLVIII, p. 492-493.
310Dial.
CXLVIII, p. 494-495.
311Ct
5,1.
312Lett.
263. p. 1680.
313Cf.
Lett.
57; 208.
314Cf.
Gn
15,15.
315Cf.
Lett.
61. p. 986.
316Cf.
Lett.
208. p. 1214.
317Cf.
Ct
1,3
318Lett.
224. p. 1245.
319Ct
2,4.
320Lett.
37.
321Cf.
Dial.
I, p. 9.
322Lett.
79.
323Lett.
86.
324Lett.
37.
325Dial.
CXXVI, p. 375.
326Lett.
87. p. 949.
327Dial.
CXV, p. 323. Cf. Lett.
270. p. 104; 291. p. 112.
328Ct
4,12.
329Lett.
113. p. 567; Cf. Lett.
12; 22; 138; 313; 321.
330Cf.
Lett.
191. p. 338; vedi ancora: Lett.
16; 101; 145; 313.
331Vita
n.115, p.129.
332Lett.
23. p. 813.
333Cf.
Mt
25,2
334Cf.
Lett.
318. p. 851.
335Lett.
81. p. 961.
336Lett.
81. p. 960; Cf. Ct
5,10.
337Cf.
Lett.
97. p. 990-991; Ct
8,6.
338Cf.
Lett.
26. p. 819; Ct
6,9; Ap
12,1.
339Cf.
Lett.
227. p. 1270; Ct
7,13.
340Lett.
195.
341Lett.
72. p. 1558.
342Lett.
54.
343Cf.
Ct
1,12.
344Lett.
24. p. 1492.
345Lett.
16. p. 233; Cf. Lett.
97.
346Lett.
30. p. 1061.
347Lett.
30. p. 1062.
348Lett.
143. p. 301.
349Oraz.,
XII
p. 105.
350Lett.
262. p. 608; Cf. Lett.
35, 143.
351Lett.
262. p. 608.
352Ct
2,12.
353Lett.
280. p. 1168.
354Lett.
74. p. 1226.
355Lett.
131. p. 459.
356Lett.
16. p. 233.
357Lett.
218. p. 80.
358Lett.
29. p. 635-636.
«Corriamo,
Corriamo, Corriamo, morte per la via della virtù»1
CONCLUSIONE
Ho
cercato di esplicare la dottrina morale di Santa Caterina da Siena,
«Sicura guida nel cammino verso la perfezione cristiana»2
come risposta fondata alle domande dell’uomo di ogni tempo. In
conclusione possiamo affermare che, secondo l’ammaestramento della
Santa, la virtù gioca
un ruolo così rilevante nella vita morale che tutto l’impegno del
cristiano deve imperniarsi sullo sforzo per acquistarla.
Con
il nostro lavoro abbiamo messo in evidenza che la virtù non è
affatto un elemento trascurabile nell’insieme dell’insegnamento
cateriniano, è invece un concetto chiave per tutta la dottrina
morale di Caterina.
Sintetizzando
gli «efficaci ammaestramenti di Santa Caterina per la pratica delle
virtù»3
possiamo dire che la virtù è una disposizione ferma ad agire bene,
cioè agire in direzione del vero fine della vita. Senza questa
disposizione positiva non si giunge alla vita eterna, poiché essa
appartiene strettamente alla verità dell’uomo. La virtù non si
acquista se non da Cristo crocifisso ma seguirla però è faticosa.
Tuttavia la fatica della virtù non diminuisce la profonda gioia
della vita virtuosa.
L’insegnamento
di Santa Caterina sottolinea l’importanza dell’intervento
soprannaturale di Dio nella storia dei singoli e di tutta la umanità.
Dio entra nella storia degli uomini attraverso il suo Figlio, Gesù
Cristo crocifisso. Vediamo che senza la luce del Verbo incarnato non
conosciamo la verità di Dio e così non comprendiamo neanche noi
stessi.
«L’uomo continua
anche oggi a essere un mistero per la ragione umana: un
mistero che solo la Rivelazione
divina chiarisce in modo soddisfacente»4.
La dottrina
cateriniana ci indica un modo sicuro per poter rispondere alle
domande fondamentali dell’esistenza umana. L’unica risposta che
soddisfa gli interrogativi capitali è la dottrina e la persona
stessa di Cristo. Chi siamo? Perché viviamo? Qual è il significato
del dolore , del male, della morte? Solo in Cristo e per Lui siamo
capaci di riconoscere ed anche compiere la verità di Dio. Questo
cristocentrismo da un lato è una particolarità cateriniana che ho
cercato di dimostrare nel secondo capitolo, dall’altro è una
caratteristica costante della dottrina ecclesiale. In realtà è
verità perenne che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova
vera luce il mistereo dell’uomo. [...] Cristo che è il nuovo
Adamo, proprio rilevando il mistero del Padre e del suo amore svela
anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione. [...] Egli è l’uomo perfetto, che ha restituito ai
figli d’Adamo la somiglianza con Dio, resa deforma già subito agli
inizi a causa del peccato»5.
Abbiamo sottolineato che per Santa Caterina il nome di Cristo
crocifisso è il nome oltre di che né è dato in terra un altro nome
agli uomini in cui possano salvarsi6.
In Santa Caterina anche la dottrina delle virtù si inserisce in
questo contesto.
Le
virtù infatti non sono altro che le virtù di Cristo crocifisso,
cioè l’amore infinito di Dio espresso in modo umano. Le virtù
sono il mare infinito dell’amore per gocce. Non potremmo né
conoscere, né imitare la perfezione di Dio se Cristo non ci
insegnasse l’amore dalla cattedra della croce.
L’uomo,
creato a immagine di Dio Amore, fa risplendere in sé l’immagine
divina quando esercita liberamente l’amore per le diverse virtù
che ha imparato da Cristo crocifisso. Ciò comporta implicitamente
uno schema delle virtù, in cui le varie e ricche potenzialità
dell’uomo appaiono riunite, attualizzate e dinamizzate –
costituite in virtù – dall’amore di Dio. I figiuoli della carità
l’umiltà, discrezione, giustizia, gratitudine, ecc. orientano la
libertà umana all’amore. L’amore con cui Dio lo ama produce un
nuovo amore, fede e speranza. Le vere e reali virtù non sono frutto
dell’impegno umano, ma dono gratuito di Dio. Più esattamente
secondo gli scritti di Santa Caterina la virtù è la risultante di
due azioni: l’opera della creatura che (in virtù del sangue di
Cristo) ha una libertà relativa ma reale per scegliere la strada
dura delle virtù e l’opera del Creatore senza il quale l’uomo
non è e non fa nulla.
Studiando
la dottrina delle virtù, Santa Caterina risulta veramente dottore
universale della Chiesa, poiché dimostra l’inscindibile unità
della teologia (quella morale, dogmatica e spirituale). Solo
l’accentuazione di tale unità rende fruttuoso
l’insegnamento
della Chiesa. Il prof. Haro scrive nel suo manuale di teologia
morale: «La teologia morale non si può rinnovare senza ricuperare
l’audacia della fede e la sua unità con la spiritualità e la
dogmatica, così come si trova nei Padri e in San Tommaso»7,
e possiamo aggiungere: «in Santa Caterina».
Oltre
la sua unità, la dottrina cateriniana può offrire un aiuto al
rinnovamento di una teologia morale, che oggi sta riscoprendo l’etica
della virtù, in quanto ella riconcilia nel suo insegnamento delle
virtù la tensione fra le due domande morali: Cosa devo fare? e Chi
devo essere? Infatti la mèta della vita morale è unita per le
virtù. Lo scopo pratico dell’impegno morale infati è: glorificare
Dio e servire la salvezza del prossimo acquistando le virtù.
L’affermazione
che la dottrina morale della santa senese, ed in particolare il suo
insegnamento delle virtù, abbia qualcosa da offrire alla teologia
moderna e all’uomo di oggi si prova anche partendo dall’attualità
di S. Tommaso d’Aquino. L’attualità della teologia morale
dell’Aquinate è ampiamente riconosciuta8e
persino molti autori considerano l’insegnamento tomistico sulle
virtù come il fondamento di una morale rinnovata. Se Tommaso è
attuale quando insegna le virtù lo è anche Santa Caterina: anche se
il compito scientifico di paragonare sistemeticamente la dottrina
cateriniana delle virtù con la rispettiva dottrina tommasiana è
ancora da svolgere, non si può negare (accanto alle divergenze) una
coincidenza apparente.
Alla
fine del mio studio vorrei sottolineare un motivo indiscutibile
dell’attualità dell’insegnamento morale della Santa. Studiando
infatti la dottrina delle virtù, sembrava particolarmente verificata
l’universalità dell’insegnamento di Santa Caterina. Che è
sempre (universalmente) attuale, anche oggi.
Ho
parlato nell’introduzione del falso misticismo, oggi giorno così
diffuso. L’ammaestramento cateriniano risulta una dottrina
attualissima in quanto contraddice a una illusione moderna e
irrazionale, secondo cui per l’uomo è possibile una
autorealizzazione immanante compiuta per la «fede» in sé stesso9.
Caterina parla della perfezione dell’uomo, ma questa è tutt’altra
cosa che il cosiddetto «self improvement»: se vogliamo
perfezionarci, dobbiamo realizzare in noi la verità di Dio.
Analizzando
questa realizzazione della verità di Dio in noi ho messo in rilievo
che l’aspetto interpersonale delle virtù non è affatto secondario
nella dottrina di Santa Caterina. Ella ha annunciato, con la sua vita
prima ancora che con le sue sagge parole, che non si acquistano le
vere e reali virtù senza il prossimo. Anche per questo il messaggio
di Santa Caterina ancora oggi ha molto da dire a tutti gli uomini di
buona volontà.
Maria
dolce e sua meravigliosa figlia, Santa Caterina, intercedino per noi
presso Cristo, dolce Gesù, affinché possiamo essere buoni discepoli
nella dolce scuola delle virtù, affinché solo Dio sia la nostra
ricchezza, e con questa ricchezza (cioè con l’amore dell’amore)
possiamo raggiungere le nozze eterne, l’eterno cantico dei cantici!
Gesù
dolce, Gesù Amore!
1Lett.,
30. p. 1061.
2I.
Castellano, «Una preziosa guida nel cammino », in L’Osservatore.
(09.02.’96) p.8.
3Paolo
VI, Omelia,
Tenuta nella Basilica Vaticana quando Sancta Catarina, vergine fu
dichiarata dottore della Chiesa universale il 27.09.1970, in AAS,
62, (1970) p. 675 ss.
4
R. G. de Haro, La
Vita Cristiana, Ed. Ares, Milano, (1995).
7
R. G. de Haro, La
Vita Cristiana, Ed. Ares, Milano (1995), p.13.
8
Cf. P. Giovanni Battista Mondin, S.X., «Grandezza e attualità di
S. Tommaso d’Aquino», in Seminarium, A. XXXVI, n. 1,
(1996), p.109.
9Cf.
Normann Vincent Peale, A pozitiv gondolkodàs hatalma, Tulsa,
Oklahoma (1981)
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(09.02.’96) p.8.
Catechismo della Chiesa
Cattolica, Libreria
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INDICE
GENERALE
Prefazione 2
Abbreviazioni 3
Bibliografia 5
Introduzione 11
Capitolo
I:
La
creatura libera, rivestita delle virtù 22
1. Uomo,
«la creatura che à in sé ragione» 22
1.1 L’anima
spirituale, immagine della Trinità 22
1.2 L’unità
dell’anima e del corpo 24
1.3 La
verità di Dio e quella dell’uomo 25
2 Il
concetto della virtù 26
2.1 All’inizio
della storia umana 26
2.2 La
«fortezza delle vere e reali virtù» 29
2.3 Le
virtù perdute 36
3. La
libertà: principio e conseguenza della virtù 41
3.1 Libertà
dono della verità 41
3.2 La
libertà originale 44
3.3 La
perdita della libertà 45
3.4 Il
Verbo incarnato, l’unico liberatore 47
3.5 Veramente
liberi 51
3.6 Immagini
della libertà 55
3.6.1 Il
coltello della volontà 55
3.6.2 La
roccaforte dell’anima 58
3.6.3 Il
ponte, via della libertà e della virtù 59
3.7 Liberi
per esercitare le virtù 65
4. Conclusioni 71
Capitolo
II:
La dottrina di Cristo
crocifisso 74
1.
Seguire Cristo crocifisso 74
1.1
L’unione con Cristo
crocifisso 74
1.2
L’Alfa e
l’Omega 80
1.3
L’unità delle virtù
in Cristo crocifisso 86
1.4
La croce
salvifica 90
1.5
Correre morto 93
1.6
Lacrime
dell’amore 97
2. La
realizzazione della sequela di Cristo crocifisso 102
2.1
Conoscere per meglio
amare 102
2.2
L’orazione, madre
delle virtù 106
2.3
Il santo
desiderio 109
2.4 Amare
le virtù 113
2.5 La
virtù provata per il contrario 115
2.6
Il prossimo 119
2.7
Maria dolce 125
3.
Conclusioni 128
Capitolo
III:
Le virtù cateriniane nel
servizio del prossimo 130
1.
La catena delle virtù 130
1.1 Le
tre colonne dell’anima 131
1.1.1 La
fede 132
1.1.2 La
speranza 137
1.1.3 La
carità 139
1.2 Le
figliuole della carità 144
1.2.1 La
perseveranza 145
1.2.2 L’obbedienza 146
1.2.3 La
pazienza 151
1.2.4 L’umiltà 153
1.2.5
La sollecitudine 156
1.2.6
La discrezione e la giustizia 157
1.2.7
La purità 162
1.2.8
L’amore della povertà 164
1.2.9
La gratitudine 165
2. La
virtù dell’amore e Santa Caterina 167
2.1.
La Sposa dei
Cantici 167
2.2 Le
parole conclusive 170
2.3
Le immagini e parole
dal Cantico dei Cantici 172
2.3.1
«Veni [...] sponsa
mea, veni » 172
2.3.2
«Trahe me, post te
curremus [...]» 172
2.3.3
«Trahe me» 173
2.3.4
«[...] ordinavit in me
caritatem» 174
2.3.5
«[...] bibite et
inebriamini, carissimi» 177
2.3.6
«Introduxit me in
cellam vinariam» 178
2.3.7
«Hortus conclusus
sorror mea sponsa»
179
2.3.8
«mea sponsa» 180
2.3.9
«flores apparuerunt in
terra nostra» 183
Conclusione 184
Indice
Generale 188