S. Caterina da Siena: dottrina delle virtù










PONTIFICIA UNIVERSITAS A S. THOMA AQ.
IN URBE





FACULTAS THEOLOGIAE










LA DOTTRINA DELLE VIRTÙ
NELL’INSEGNAMENTO
DI
SANTA CATERINA DA SIENA






DISSERTAZIONE DOTTORALE
di Angelico Zoltán Stift




Relatore: Dott. Prof. INNOCENZO VENCHI o.p.
ROMA






ANNO ACCADEMICO 1999 - 2000






«Io spero, per Cristo crocifisso, ogni cosa potere, e perseverare infino alla fine con fidelità»1




PREFAZIONE

Con questo lavoro si cerca di dare un contributo allo studio dell’insegnamento di Santa Caterina da Siena, Dottore della Chiesa, patrona d’Europa: si tratta del tema delle virtù e la tesi è chiamata a dimostrare come la dottrina cateriniana delle virtù indichi la via da percorrere agli uomini di ogni tempo, anche a noi che stiamo vivendo il tempo del Grande Giubileo del 2000, e questa via è Cristo crocifisso che «è il medesimo ieri e oggi ed è anche per i secoli»2.
Mi sia lecito esprimere in questa sede un sentito ringraziamento a quanti mi hanno aiutato nel corso della stesura e della redazione definitiva di questa dissertazione. Sono grato al mio vescovo, Mons. István Konkoly, che mi ha concesso la possibilitá di questo studio sulla Santa di Siena. Sono pur grato al Prof. Innocenzo Venchi che ha accettato l’impegno di relatore della tesi, e sotto la cui guida è stata condotta questa dissertazione. Lo ringrazio molto per avermi incoraggiato lungo il cammino con paterna sollecitudine e paziente verifica. Un grazie particolare va alla Prof.ssa Giuliana Cavallini che è stata sempre disponibile per ogni consultazione relativa all’argomento della tesi, la cui elaborazione ha seguito con attenzione materna. Vorrei ringraziare in modo speciale István Diós e i suoi collaboratori – che 20 anni fa hanno eseguito il grande lavoro di traduzione del Dialogo, delle Lettere e della Legenda – per avermi offerto la possibilità di consultare la Biblioteca Pálos di Budapest e per avermi aiutato nella comprensione del pensiero di Santa Caterina con suggerimenti preziosi. Nello stesso tempo sono grato a tutte quelle persone che mi hanno sostenuto con i loro consigli e con la loro preghiera.

Szombathely, 1o gennaio 2000

1Lett., 150. p. 1391

2Eb 13,8











SIGLE E ABBREVIAZIONI




a. articolo
Ap Apocalisse
CCC Catechismo della Chiesa Cattolica
C.N.S.C. Centro Nazionale dei Studi Cateriniani
cfr confronta
Col Lettera ai Colossesi
Cor Lettera ai Corinti
Ct Cantico dei Cantici
d. divisione
Dial. S. Caterina da Siena, Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina, a cura di G. Cavallini, Cantagalli, Siena (1995). [Con i numeri romani vengono indicati i capitoli del Libro.]
DS. H. Denzinger - A. Schönmezer, Enchridion Symbolorum, Definitionem et Declartionem de rebus fidei et morum.
Eb Lettera agli Ebrei
ecc. eccetera
Es Esodo
EV Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae.
Fil Lettera ai Filippesi
Gal Galati
Gc Lettera di Giacomo
Ger Geremia
Gn Genesi
GrS Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie Gratissimam sane.
GS Conc. Ecum. Vat. II, Const. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Gv Giovanni
Ibid. Ibidem
Lett. S. Caterina da Siena, Le lettere, a cura di U. Meattini, Paoline, Roma, (1987). [Il numero arabico si riferisce al numero della lettera secondo la numerazione consueta.]
LG Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium
Lc Vangelo secondo Luca
Mal. S. Tommaso d’Aquino, De Malo.
Mc Vangelo secondo Marco
n. numero, numeri
op. cit. opera citata
Oraz. S. Caterina da Siena, Le orazioni di S. Caterina da Siena, a cura di G. Cavallini, Cantagalli, Siena, (1993). [Con il numero romano viene indicato il numero della preghiera.]
p. pagina, pagine
q. questione
Rm Lettere ai Romani
Sap Libro della Sapienzia
sec. secolo, secoli
Sent. S. Tommaso d’Aquino, Scriptum super Sententiis Magistri Petri Lombardi.
sg. seguente, seguenti
Sir Siracide
ST S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologhiae.
Tm Lettera a Timoteo
Verit. S. Tommaso d’Aquino, De Veritate.
Vita B. Raimondo da Capua, Santa Caterina da Siena. Legenda Maior, tradotta dal P G. Tinagli, Cantagalli, Siena, quinta edizione, (1994).
vol. volume
VS Giovanni Paolo II, Lett.enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), in AAS 85 (1993).
deceduto

Le citazioni bibliche sono state prese dalle seguenti edizioni:
La Sacra Bibbia, Salani, Firenze, (1957)
Bibliorum Sanctorum iuxta Vulgatam Clementinam, Typis Polyglottis Vaticanis, (1979)











«nella bocca tua stia il silenzio o uno santo ragionamento della virtù, spregiando il vizio»1





Introduzione


Santa Caterina nacque a Siena il 25 marzo del 1347, Domenica delle Palme e festa dell’Annunciazione, Capodanno secondo il calendario senese. Ella era la ventiquattresima figlia gemella di Jacopo Benincasa e Lapa de’ Piagenti. A 6 anni cominciarono le sue esperienze mistiche, che continuarono per tutta la vita. Il 1354 fu l’anno del voto di verginità, col quale Caterina si offrì a Dio, tramite la beata Vergine Maria. Nel 1363, per rendere più salda la sua donazione a Dio, Caterina ottenne l’abito delle sorelle della Penitenza del beato Domenico. Per tre o quattro anni condusse una vita eremitica nella casa paterna e questo periodo del tacere si concluse nel 1367 con le mistiche nozze nella Fede. Il 1° aprile 1375, in Pisa ricevette le stimmate della passione; e negli ultimi sei anni di vita il suo unico alimento fu l’Eucaristia. Dopo aver lasciato la cella (secondo il comando di Cristo) lavorò e pregò intensamente per il Papa, per la Chiesa, per la pace. Una testimonianza rilevante di questo suo «lavorio» sono le Orazioni. Fece assistenza ai malati nei vari ospedali, diede soccorso ai poveri e a quanti erano bisognosi di aiuto. Intanto si formava intorno a lei una «famiglia» di discepoli: uomini e donne, ecclesiastici, religiosi e laici, che le chiedevano una guida nelle vie dello spirito. In questo contesto nacquero l’Epistolario ed il Dialogo. Questa «attività» la consumò talmente che morì a Roma, il 29 aprile del 1380, all’età di 33 anni. La sua biografia (la cosiddetta Legenda maior) è stata scritta dal suo confessore e padre spirituale, beato Raimondo da Capua. Pio II dichiarò Caterina santa nel 1461.
Questa santa medievale ha qualche attualità nella Chiesa? L’influsso di Caterina dal quattordicesimo secolo fino ai nostri giorni è un dato storico, continuo ed incontrovertibile2. Un segno significativo al riguardo è che Caterina ha avuto riconoscimenti più alti da parte della Chiesa proprio in questo nostro secolo: è diventata conpatrona di Roma, patrona delle donne cattoliche, delle infermiere cattoliche, patrona primaria d’Italia con S. Francesco e, ultimamente, il più singolare onore tributatole è il titolo di Dottore della Chiesa: il 4 ottobre 1970 è stata proclamata Dottore della Chiesa universale per decreto3 di Paolo VI. Questa proclamazione significa che le sue opere possono essere ormai considerate come un nuovo «locus teologicus»4, sulle quale può basarsi la riflessione teologica. Mentre ci sono scrittori che sanno di vecchio dopo vent’anni, la parola di Caterina è viva e attuale, a distanza di sei secoli, non ha niente di appassito, di tramontato5: la santa di Siena è ancora oggi una maestra di fede e di vita cristiana.
Lo stesso Paolo VI ammonisce che l’uomo contemporaneo ascolta i maestri solo se sono nello stesso tempo testimoni6. A questo punto troviamo una nuova ragione per ritenere Caterina un’autrice «moderna». La dottrina della vergine senese è inscindibile dalla sua testimonianza di vita: Caterina è stata una santa, ha insegnato quello che ha vissuto. «La realtà della fede» – scrive la prof.ssa Cavallini – «è qualche cosa di intimamente, inalienabilmente suo: è la sua stessa vita.»7 Caterina, risulta una buona discepola del divin Maestro che ci ha dato la dottrina «per esemplo più che per parole; anco prima fece che egli dicesse»8. Con la sua fede vissuta, la santa invita a superare la dicotomia che separa la fede dalla morale e talvolta caratterizza pure il cristiano moderno9.
La più rilevante caratteristica della santa senese è la sua esperienza mistica che è la fonte principale della sua scienza:
E se è vero che nei suoi scritti si riflette, e in misura sorprendente, la teologia dell’Angelico Dottore, essa vi compare però spoglia di ogni rivestimento scientifico. Ciò invece che più colpisce nella Santa è la sapienza infusa, cioè la lucida, profonda ed inebriante assimilazione delle verità divine e dei misteri della fede, contenuti nei Libri Sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento: una assimilazione, favorita, sì, da doti naturali singolarissime, ma evidentemente prodigiosa, dovuta ad un carisma di sapienza dello Spirito Santo, un carisma mistico10.
L’uomo moderno, che è stanco delle ideologie atee e della vita priva di ogni valore religioso, cerca il fondamento della sua esistenza, ha una quasi insaziabile fame di tutto quello che trascende i limiti delle scienze positive e del mondo materiale. L’uomo di oggi spesso placa questa fame con una mistica falsa. Pensiamo soprattutto all’inquietante fenomeno della New Age, una così vaga e indeterminata religiosità che non ha niente a che fare con il vero culto di Dio. Per superare l’illusione della pseudomistica, ci dà aiuto Caterina con la sua mistica autentica. Una mistica che mira alla trasformazione dell’anima in Dio, ma si realizza per l’unione con Cristo crocifisso, unico Salvatore. Una mistica sfociante nella sequela del Verbo incarnato che si è fatto via della verità per portarci la vita.
Essendo un’autrice mistica, Caterina comprende e si esprime in modo intuitivo. Questa caratteristica non facilita certo l’interpretazione scientifica del suo insegnamento, tuttavia l’intuizione comporta un grande vantaggio: offre una visione unificante. Oggi, quando prevale la conoscenza speciale, magari perdutasi nelle particolarità, abbiamo bisogno – più che mai – di una visione sintetica della realtà, poiché solo una tale prospettiva è capace di guidare la vita.
Usando il linguaggio mistico Caterina risulta una buona maestra che comunica sempre basandosi sulla fantasia dei suoi «allievi». Negli scritti di Caterina infatti si trovano delle immagini stupende, molto espressive e reali che si riferiscono alle verità divine11. San Tommaso già afferma che è conveniente che le realtà spirituali vengano presentate sotto immagini corporee, poiché è naturale all’uomo elevarsi alle realtà intelligibili attraverso le realtà sensibili in quanto ogni nostra conoscenza ha inizio dai sensi12. Evidentemente le verità intelligibili superano la limitatezza della fantasia, tuttavia anche ciò che conosciamo per rivelazione viene contemplato nelle immagini13. Le immagini applicate da Caterina danno un’attualità speciale alla sua dottrina per un fatto paradossale. Da una parte infatti il mondo moderno è pieno di figure, dall’altra l’uomo di oggi non adopera le figure. Mentre viviamo nel mare delle immagini (vedi la televisione, le indicazioni all’aeroporto, le icone del «Windows» ecc.) la nostra fantasia si svuota e sta morendo. L’uomo di oggi ha perso la sua capacità di immaginare, anche se il pensiero umano ha bisogno di una qualche forma di rappresentazione. Dove non c’è nessuna immagine si volatilizza anche la fede vivente14. Se vogliamo comprendere che cosa è la fede con cui vivere, la libertà, la virtù, allora le immagini sono necessarie. A questo punto ci aiuta Caterina con le sue figure che non bloccano ma nutrono l’immaginazione umana. Queste immagini elevano la nostra mente alla conoscenza delle realtà che a un tempo suppongono e superano l’immaginazione.
Questa buona maestra allora «è autrice di un corpo di solide riflessioni teologiche sulle verità perenni contenute nella rivelazione»15. Gli scritti cateriniani – il Dialogo, le Lettere e le Orazioni – in quanto colgono l’essenza delle cose, piuttosto che i loro mutevoli aspetti esteriori, possono essere intesi senza eccessiva difficoltà16. Cionostante non si può prescindere del tutto dal contesto culturale e dall’ambiente storico in cui sono cresciute le idee di Santa Caterina, né si possono dimenticare le fonti a cui attingeva.
Diamo uno sguardo rapido alle origini delle tre opere. Il Dialogo, cioè il Libro della Divina Provvidenza, è un sommario della dottrina cateriniana, perciò può aiutare a comprendere le altre due opere17. Il Beato Raimondo, confessore e biografo di Santa Caterina, il più autentico testimone della nascita di questa opera, ci fa conoscere l’origine del Dialogo18. Caterina dettava il Dialogo stando in estasi e i suoi discepoli lo scrivevano, per questo dice Raimondo che il Libro «fu composto non per alcuna virtù naturale, ma per virtù dello Spirito santo, che operava in lei»19. Vediamo il contesto storico della nascita del Libro20, che è un vero «dialogo», non solo fra Dio e Caterina, ma fra Dio e tutti gli uomini chiamati a un dialogo libero con Dio21. Caterina va ad Avignone il 18 giugno 1376 e ottiene il ritorno della Santa Sede a Roma, dopo oltre settant’anni di assenza. Il 13 settembre Gregorio XI con la corte papale e Caterina con i suoi discepoli lasciano Avignone. Il 17 gennaio 1377, dopo un viaggio ostacolato dal maltempo e da contrasti umani, Gregorio XI entra in Roma, accolto dal popolo con manifestazioni di esultanza. Sul finire dell’estate, Caterina si sposta a Rocca d’Orcia per una missione di pace: la riconciliazione di due rami nemici dei Salimbeni e il risanamento morale e spirituale della popolazione che selvaggiamente partecipa all’odio e alla violenza dei signori. Qui riceve quella straordinaria illuminazione sulla verità che tradurrà poi nel Dialogo. Caterina va a Firenze per ordine del Papa nel dicembre del 1377 e vi rimane fino a pace ottenuta, cioè, fino al luglio del 1378. Gregorio XI muore il 27 marzo del 1378, e Urbano VI viene eletto il 9 aprile del medesimo anno. Dopo la sua missione a Firenze Caterina torna a Siena, dove completa la stesura del Dialogo ai primi di ottobre. La data di composizione quindi deve collocarsi dal dicembre 1377 (l’esperienza mistica di Rocca d’Orcia) all’autunno 1378.
Il Libro è diviso in centosessantasette capitoli. Questa divisione non proviene dall’autrice stessa ma si trova già nei codici più antichi e nel maggior numero dei casi è stata fatta abbastanza bene anche dal punto di vista teologico. I successivi raggruppamenti in parti più grandi hanno creato problemi per il fatto che il testo ha la natura di un vero e vivo dialogo, piuttosto di un lavoro scientifico. Pensiamo alla infelicissima divisione in quattro trattati. Questa divisione, che caratterizzava le edizioni del Dialogo nel corso degli ultimi quattro secoli, ha ostacolato la comprensione dell’opera nella sua unità fino a trent’anni fa quando la prof.ssa Giuliana Cavallini ha trovato lo schema autentico del Dialogo. Questo schema segue la struttura intera del Libro, secondo cui ogni unità contiene una petizione, una risposta da parte del Signore e il ringraziamento di Caterina; sì che il testo si articola in dieci unità: proemio; la dottrina della perfezione, dialogo; la dottrina del ponte; la dottrina delle lagrime; la dottrina della luce; il corpo mistico della santa Chiesa; la Provvidenza divina; obbedienza; conclusione.
Benché cronologicamente la nascita delle Lettere preceda, accompagni e segua la compilazione del Dialogo, dal punto di vista puramente contenutistico si può dire che le Lettere traducono la dottrina del Libro nei casi particolari. Le singole lettere sono state scritte dal 1370 fino circa al 138022, poiché l’Epistolario ha avuto inizio poco dopo che Caterina ha lasciato la solitudine della cella per attuare l’amore di Dio nell’amore del prossimo, ed è finito poco prima della morte della santa. Le lettere sono state indirizzate alle persone di ogni stato sociale per dare aiuto spirituale, per incoraggiare o ammonire, nonché «per obbedire al comando di Cristo, di intervenire nella battaglia politica, nell’organizzazione della crociata, per portare pace e specialmente per spingere il pontefice a tornare alla sua Roma»23. La maggior parte delle lettere è stata dettata da Caterina ai suoi segretari e soltanto pochissime sono state redatte di sua mano dopo aver imparato a scrivere prodigiosamente nell’autunno del 1377 a Rocca d’Orcia. Per quanto riguarda le raccolte dell’epistolario della santa, sappiamo che, ancora durante la vita di Caterina, i discepoli cominciarono a conservare e scambiare tra di loro alcune copie delle Lettere per edificazione spirituale. Dopo la morte della santa senese nacquero naturalmente delle collezioni più complete. Queste lettere raccolte - prescindendo da quelle pochissime originali che abbiamo - sono state conservate e tramandate a noi in manoscritti. Fra i primi collezionisti vi erano i segretari e discepoli stessi di Caterina (per esempio: ser Cristofano di Gano Guidini, Neri di Landoccio Pagliaresi, Stefano di Corrado Maconi, frate Tommaso d’Antonio, nonché B. Raimondo). Tutto sommato di tutta la corrispondenza della Santa oggi abbiamo trecentoottantuno lettere intere e qualche frammento.
Le Orazioni sono le parole della preghiera contemplante di Santa Caterina, raccolte dalle labbra della santa dai discepoli fra l’estate 1376 e l’inverno del 1380. La prof.ssa Cavallini scrive, nell’introduzione dell’edizione critica delle Orazioni, che la loro singolare importanza sta appunto nel fatto che «esse non furono dettate, non furono estensione epistolare del colloquio di Caterina con gli uomini, né la trasmissione di un divino messaggio, ma la effusione del suo animo amante nella intimità con lo Sposo divino»24.
Quali sono state le fonti della scienza di Caterina? Tentiamo di stabilirle, perché aiutano a capire il modo di esprimersi, le concezioni e le immagini della Santa stessa. Dobbiamo distinguere le fonti soprannaturali da quelle secondarie, umane. Abbiamo già detto che la fonte principale di Caterina è stata il suo rapporto mistico e immediato con la Fonte di ogni sapienza, in quanto ha imparato direttamente dal Signore. Egli stesso «impresse profondamente nell’anima della santa alcune verità fondamentali [...] che, senza quella diretta illuminazione avrebbero potuto rimanere ai margini del suo spirito»25. Il Beato Raimondo racconta che Cristo «non volendo lasciare una pecorella sì nobile senza pastore e guida, e una discepola sì diligente senza un bravo maestro, non un uomo né un angelo le assegnò, ma le diede se stesso». E continuando scrive così Raimondo, padre spirituale della Santa:
Mentre nel segreto della confessione mi raccontava tali cose, mi disse queste precise parole: «Padre mio, tenete come verità certissima che nulla, di quanto riguarda la via della salute, mi è stato insegnato o da un uomo o da una donna, ma precisamente dallo stesso Signore Maestro, Sposo prezioso e dolcissimo dell’anima mia, il Signore Gesù Cristo, sia per mezzo della sua ispirazone oppure parlandomi, come io ora parlo a voi, in una chiara apparezione»26.
Senza questo ammaestramento divino non si spiega la profondità e la sicurezza della dottrina cateriniana. Per l’unione mistica con Dio, l’anima si trasforma in Dio, talmente che «non può pensare intendere e amare se non Iddio, e non può aver presente altro che Iddio. [...] Le succede dunque come a colui che s’immerge nel mare e nuota sott’acqua: non vede né tocca che l’acqua, e quello che sta nell’acqua»27. Tal’anima comprende sé stessa e le altre creature nella luce dell’insegnamento divino. Così è successo nel caso della nostra santa. La sua mente straordinariamente illuminata dalla luce divina ha assorbito quel che ha ricevuto dal di fuori: esperienze di vita, insegnamenti teologici e cognizioni culturali.
Cercando le fonti umane alle quali la santa attingeva, ci troviamo davanti un compito più difficile. Non è necessario però entrare nelle particolarità del complesso problema dei fonti28, basta accettare le conclusioni solide degli altri autori. Quasi tutti sono d’accordo29 che Caterina è vissuta prevalentemente in un ambiente domenicano, come pure ha avuto vicino a sé religiosi di altri ordini e molti laici «che portavano al cenacolo cateriniano ciascuno una determinata formazione culturale»30. Negli scritti cateriniani si trovano molti riferimenti ai testi liturgici, altre reminiscenze bibliche e patristiche, ed anche immagini o pensieri di poeti. Benché si consideri questa ricchezza di influssi, nondimeno si possono stabilire due indiscutibili e fondamentali pilastri dell’insegnamento cateriniano che sono da una parte i Vangeli e le Lettere di San Paolo31, dall’altra la dottrina tomista32. Nello stesso senso ha parlato Paolo VI delle radici della dottrina cateriniana quando, nella sua omelia sopra citata, ha sottolineato l’eminenza di quella.
Dopo questa breve considerazione delle fonti vorremmo sottolineare la profonda affinità della dottrina cateriniana con quella tomista riconoscendo che l’esperienza mistica di Caterina è conforme alle speculazioni sistematiche di Tommaso, poiché – come afferma T. Centi – Caterina ha rivissuto a suo modo le idee esposte da Tommaso, traducendole in immagini33. Tutto ciò comporta che la teologia dell’Aquinate può servire per un’adeguata comprensione dell’esperienza mistica di Caterina34.
La ricchezza degli «scritti» della Santa ci offre tanto materiale per l’indagine. Con questo lavoro si sceglie la dottrina delle virtù, un argomento importantissimo nei riguardi della teologia morale.
L’attualità della questione la prova il fatto che non pochi moralisti contemporanei dimostrano la plausibilità di una «teologia morale delle virtù»35. E questo «ritorno all’etica della virtù sia di tipo aristotelico, sia di tipo tomista, è segno di speranza anche oggi per il rinnovamento della vita morale nel mondo contemporaneo e nella chiesa»36.
La letteratura scientifica sulla dottrina di Santa Caterina da Siena è vastissima; sono stati realizzati parecchi studi anche sulle singole virtù (come il discernimento, la fede, l’amore, l’obbedienza), tuttavia può essere utile un lavoro che miri a trattare globalmente l’insegnamento cateriniano delle virtù37.
Che cosa ci insegna delle virtù Caterina che viene chiamata da Beato Raimondo «magistra virtutum»38? Qual è il ruolo delle virtù sul cammino dell’uomo libero verso il proprio fine soprannaturale, che è l’unione con Dio Uno e Trino? Per rispondere non vogliamo trattare tutti gli argomenti riguardanti o analizzare ogni brano concernente. (Chi ha una familiarità con i testi cateriniani sa bene che non sarebbe neanche possibile raccogliere in duecento pagine tutto quello che la Santa ha detto della virtù, giacché tutto l’insegnamento cateriniano è compenetrato dei riferimenti alle virtù.) Cerchiamo invece l’essenza della dottrina delle virtù in Caterina esaminando i punti chiave di tale dottrina e offrendo una panoramica al riguardo.
Gli scritti di Caterina costituiscono l’oggetto materiale del mio studio, che indagherà la loro coerenza intrinseca. Affiderò alle note le informazioni utili per illuminare i concetti e la dottrina di Caterina e, in alcuni casi, S. Tommaso, poiché anche nei riguardi delle virtù39 «le due grandi anime [Caterina e Tommaso] sembrano fatte per completarsi a vicenda»40.
Notiamo che, pur avendo ben presente il filo logico delle idee, non è possibile evitare del tutto le ripetizioni; a causa della natura degli scritti di Santa Caterina gli stessi argomenti ritornano più volte, benché sotto aspetti diversi.
La divisione del lavoro si forma secondo i «punti chiave» dell’argomento tenendo presente la logica dello stesso pensiero cateriniano, come pure gli aspetti verso i quali l’uomo di oggi ha una impressionabilità particolare.
Nel primo capitolo partendo dall’antropologia cateriniana arriviamo al concetto della virtù, e diamo un esame piuttosto generale delle virtù. Viene analizzata il fatto che l’uomo è una «creatura che à in sé ragione», creata ad immagine e similitudine di Dio creatore, e così la sua vocazione supera quella di ogni altra creatura. L’uomo è chiamato a vivere in amicizia con Dio. Le «vere e reali virtù» sono quelle che rendono possibile e nello stesso tempo realizzano quest’ amicizia soprannaturale. In questo capitolo consideriamo ancora il rapporto tra le virtù e la libertà. All’inizio della storia infatti l’abuso della libertà ha reso l’umo schiavo del peccato facendogli perdere l’abito nuziale delle virtù. Per poter riacquistare le virtù (innanzitutto l’amore divino) é necessaria la liberazione da parte di Cristo, il vero ed unico liberatore dell’umanità.
Nel secondo capitolo cerco di sottolineare rispetto alle virtù la specificità dell’insegnamento cateriniano, che troviamo nella dottrina di Cristo crocifisso in quanto a lui si ascrive la forte appartenenza delle «vere e reali virtù». Trattiamo al riguardo l’importanza e la realizzazione concreta della sequela di Cristo crocifisso dalla cui santa persona sorge la viva unità delle diverse virtù. In questo contesto parliamo della croce salvifica di Gesù, del concetto della mortificazione, delle lacrime che sono espressioni dell’amore perfetto, nondimeno della conoscenza di sé, della necessità dell’orazione che è madre delle virtù e dell’amore verso il prossimo.
Nel terzo capitolo posso allo studio delle singole virtù che hanno un significato particolare nell’insegnamento della Santa di Siena. Teniamo in considerazione le tre virtù «teologali»: la fede, la speranza e la carità; poi tratto la perseveranza, l’obbedienza, la pazienza, l’umiltà la sollecitudine, la discrezione, la giustizia, la purità, l’amore della povertà e la gratitudine. Per approfondire ancora la dottrina cateriniana dell’amore analizzo alcune immagini e parole del Cantico dei Cantici che sono presenti negli scritti di Santa Caterina.
Nella conclusione riassumo in breve la risposta alle sopra citate domande che riguardano la dottrina cateriniana delle virtù e, alla luce di tali risposte, cerco di riaffermare l’attualità e l’importanza della dottrina di Santa Caterina da Siena.


1Dial., CII, p.286.
2«Il fatto è che la fama di lei, anziché diminuire col tempo, si è dilatata sempre più.» G. D’Urso, «Bilancio della spiritualità cateriniana nei secoli», p. 419. Vedi ancora D. Abbrescia - I. Venchi, «Il movimento cateriniano»; I. Venchi, «S. Caterina nel giudizio dei Papi».
3Paolo VI, Lett. apost. Mirabilis in Ecclesia, n.63, p.1113-1228.
4«Not only was she a great mistic, but her writings have been recognized by the Church as an important source for theological reflection. [...] As a Doctor of the Church, Catherine’s theological insights gaind through mystical experience are an autentic source for teaching in the Church and by the Church». D. Orsuto, Saint Catherine, p.1.
5Cfr. Dial., p.XXXIX-XL.
6Cfr. Paolo VI, Esort. ai membri del Consilium de Laicis (2 ottobre 1974), p. 568.
7Cfr. Dial., p. XXXIX.
8Dial.,XXIX, p.77.
9Cfr.VS, n.88, p.1203.
10Paolo VI, Omelia, Tenuta nella Basilica Vaticana quando Santa Catarina, vergine fu dichiarata dottore della Chiesa universale il 27.09.1970, p.675.
11Cfr. F. Reginaldo, «Allegoria e simbolismo nel Dialogo», p.240-255. Inoltre tesi di laurea delle quali si trovano esemplari nella Biblioteca del Centro Nazionele degli Studi Cateriniani: G.Anodal, Le immagini del linguaggio cateriniano e le loro fonti; Turco T., Aspetti del linguaggio di S. Caterina: metafore e similitudini.
12Cfr. ST, I, q.1, a.9.
13Cfr. ST, II-II, q.180, a.5.
14Cfr. J. Ratzinger, «“Perché Dio sia tutto in tutti” la fede cristiana nella vita eterna», p.7.
15Giovanni Paolo II, La lettera scritta per Mons. G. Bonicelli Arcivescovo di Siena all’occasione del XXV anniversario del riconoscimento a S. Caterina da Siena del titolo di Dottore della Chiesa, (28 settembre 1995).
16Cfr. Dial., p.XXXIX-XL.
17«Anche nell’intenzione della Santa, il Libro è come il suo testamento spirituale. Vi si trova ben raccolto quell’immenso patrimonio dottrinale, che andava effondendo nelle sue numerose lettere, e più ancora colla sua instancabile parola». S. Caterina da Siena., Il Dialogo della Divina Provvidenza, a cura di. A. Puccetti, p.14.
18Vita, n.332, p.345-346; n.333, p.346; n.349, p.364.
19Vita, n.332, p.346.
20Abbiamo preso le date dalla cronologia della Cavallini: Oraz., p.147-151.
21«La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore. Molti nostri contemporanei, tuttavia, non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano questo intimo e vitale legame con Dio.» GS, n.19.
22Cfr. S. Caterina da Siena, Epistolario di Santa Caterina da Siena, a cura di. E. Dupré Theseider. p. 39.
23I. Taurisano, S. Caterina da Siena, patrona d’Italia, p.188.
24Oraz., p.XIII.
25Dial., p.XXXVII.
26Vita, n.84, p.96-97.
27Vita, n.100, p.113.
28C’è chi afferma, che addirittura non ha senso andare alla ricerca di una presunta dipendenza dagli scritti di Agostino oppure di Tommaso d’Aquino ecc. Cfr. R. Rusconi, «Mistiche e visionarie nell’Italia del secolo XIV», p.760.
29Rispetto alla complessità della questione delle fonti vedi: A. Grion, S. Caterina da Siena, Dottrina e Fonti; G. D’Urso, «Il pensiero di Caterina e le sue fonti».
30Dial., p.XXXVIII.
31Cfr. G. Cavallini, «Fonti neotestamentarie degli scritti cateriniani», p.44­59; E. Piovesan, «Come caterina da Siena conosce e usa la Bibbia nel “Dialogo”», p.76­93; M. Làconi, «La Sacra scrittura nella dottrina cateriniana. La dottrina del ponte e il Vangelo di S. Giovanni», p.244-246. Vedi ancora le dissertazioni delle quali si conservano esemplari nella Biblioteca del C.N.S.C.: A. Morrone, Fonti evangeliche dell’Epistolario cateriniano; P. Rocca, Fonti evangeliche del «Dialogo» di S. Caterina da Siena; F. Ascoli, Fonti paoline dell’Epistolario Cateriniano; G. Anodal, op. cit.
32Riguardo al tomismo della dottrina cateriniana vedi: C. Pera, «S. Tommaso d’Aquino nel cuore di S. Caterina». p.64­75; M. Cordovani, «Il Tomismo di S. Caterina da Siena», p.129-142. Il lavoro più complessivo al riguardo: G. Paris, «S. Caterina e S. Tommaso d’Aquino». Paris esamina la conformità di dottrina fra i due santi a proposito della nozione di Dio, delle potenze dell’anima, della beatitudine, delle virtù, dei vizi ecc.
33Cfr. T. S. Centi, «Luci e ombre sul tomismo di S. Caterina da Siena».
34Cfr. P. Paluzzi, «S. Caterina discepola di S. Tommaso».
35Cfr. S. Pinckaers, «Rediscovering virtue»; E. Kaczynski - F. Compagnoni a cura di, La virtù e il bene dell’uomo; G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù; R. Cessario, Le virtù; R. luno, La scelta etica, Il rapporto tra libertà e virtù.
36E. Kaczynski, «Etica del dovere o etica della decisione? Una controversia contemporanea: T. Styczen e A. Krapiec», p.101
37Lo studio più globale è prima di tutto la serie di articoli della prof.ssa Cavallini (G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù») e quello di Paris (G. Paris, op. cit.), i quali aiutano a capire più a fondo il pensiero cateriniano sulle virtù, ma per la loro stessa natura non sintetizzano l’argomento.
38Vita, n.14.
39Ciò viene dimostrato anche dalla prof.ssa Cavallini in un articolo (G. Cavallini, «Consonanze tomistiche nel linguaggio cateriniano “le vere e reali virtù”») che dà una risposta positiva alla domanda se l’espressione schiettamente cateriniana delle «vere e reali virtù» abbia un qualche riscontro nel pensiero di Tommaso.
40G. Cavallini, «La dottrina dell’amore in S. Caterina da Siena: concordanze col pensiero di S. Tommaso d’Aquino», p.388.











«[Dio] ci aveva creati senza noi, ma non ci salvarà senza noi. Ma vuole che noi ci mettiamo la volontà libera, col libero arbitrio esercitando il tempo con le vere virtù»1.



Capitolo I


La creatura libera, rivestita delle virtù




1. L’uomo, «la creatura che à in sé ragione»

1.1  L’anima spirituale, immagine della Trinità

Analizzando la dottrina cateriniana delle virtù, conviene partire dall’insegnamento sull’uomo, poiché ogni discorso morale è condizionato dalla concezione dell’uomo che è basilare2. Perciò all’inizio di questo capitolo poniamo la domanda: chi è l’uomo, qual è la sua verità secondo l’insegnamento della santa senese?
In Santa Caterina la più frequente nozione dell’uomo si formula così: «creatura che ha in sé ragione»; una nozione che davvero esprime l’essenza dell’uomo, e riassume bene le caratteristiche più importanti che distinguono e specificano l’essere umano. Vorrei sottolineare tutte e due gli elementi di questa formulazione: la creaturalità e l’intelligenza. La creaturalità dell’uomo è la prima tra tutte le verità impresse nell’anima di Caterina dal Maestro divino3; una verità che sta alla base della sua dottrina e che è il fondamento metafisico non solo dell’ammaestramento morale, ma di tutto l’insegnamento cateriniano. L’espressione «à in sé ragione» invece si riferisce a tutto l’insegnamento «psicologico» della nostra Santa. Queste due caratteristiche che contano molto nella problematica delle virtù, ci

aiutano a capire che cosa è la virtù; e allora possiamo chiederci qual è la loro importanza?
L’evento più determinante nella vita di Caterina è stata la visione, nella quale il Signore le ha detto: «Tu sei quella che non è, Io, invece, Colui che sono»4. Queste parole sono la parafrasi della presentazione di Jahvé nell’Antico Testamento: «Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”»5 e questa verità è il punto di base di tante meditazioni del Dialogo, delle Lettere e anche delle Orazioni. Dio è colui che è in sé e da sé, la creatura esiste solo per il suo Creatore, e «se uno crede di essere qualcosa, mentre non è nulla, illude se stesso»6. L’uomo è una creatura con i suoi doni e con i suoi limiti, una creatura che dipende dal suo Creatore in ogni senso. Per questo sollecita la Santa: «Ora si vuole cominciare a cognoscere, voi non essere; ma l’essere, e ogni grazia posta sopra l’essere ricognoscere da Colui che è.»7
Obbedendo a questa esortazione e contemplando il mistero della creazione ci accorgiamo della nostra nullità e della bontà di Dio, la quale si manifesta in tutto ciò che riceviamo da Lui. Dio non solo creò l’uomo, chiamandolo dal nulla all’essere, ma lo creò ad immagine e similitudine sua dandogli un’anima razionale. Caterina sottolinea una particolarità esegetica, cioè che quando Dio creò l’uomo non disse «sia fatto»8 come nel caso delle altre creature, ma disse: «facciamo l’uomo alla immagine e similitudine nostra»9. Questo vuol dire - nell’interpretazione di Santa Caterina - che la creazione dell’uomo fu singolarmente l’opera di «tutta la Trinità» in quanto l’immagine della divina Trinità venne impressa nell’anima umana, sì che l’uomo ebbe «la forma della Trinità, deità etterna, nelle potenze dell’anima sua»10. Quindi benché l’anima sia l’immagine del Dio unico, le tre potenze dell’anima stessa sono immagini della SS. Trinità11. La memoria riflette l’immagine del Padre, l’intelletto quella del Figlio, e la volontà rappresenta nell’anima l’immagine dello Spirito Santo. Caterina esprime la sua gratitudine al Creatore per questo dono: «Grazia, grazia sia a te, alta ed eterna deità, di tanto amore quanto hai mostrato a noi dandoci sì dolce forma e potenze nell’anima nostra, cioè l’intelletto per cognoscere te, la memoria per ricordarsi di te, per conservare te in sé, la volontà e l’amore per amare te sopra ogni altra cosa»12.


1.2  L’unità dell’anima e del corpo

L’uomo non è puro spirito, ma secondo la Santa senese ha due «parti» connesse: anima e corpo13. Anche il corpo ha delle potenze conoscitive e appetitive. In questo senso Caterina parla dei sensi, della sensualità e delle passioni (desiderio, amore, timore, odio) ecc. Riguardo a questi concetti facciamo notare che l’autrice del Dialogo non usa affatto una terminologia rigida, per questo i termini vanno interpretati sempre nel loro contesto. Nella struttura psicologica della persona troviamo una gerarchia. L’anima spirituale è «senza comparazione, molto più nobile che il corpo» e la più eccellente potenza dell’anima è la ragione. Questo approccio si vede per esempio nello sfondo di una lettera che la Santa scrive a una madre di famiglia che subisce umiliazioni e ingustizie da parte dei suoi. Caterina la esorta a sopportare con amore il disamore dei suoi famigliari, nonché l’irriverenza di una sua serva. Dice che non gli altri uomini, ma la cattiva volontà e il proprio corpo possono veramente umiliare «la creatura che à in sé ragione». Per questo domanda: «Or non vi fa peggio la schiava della vostra umanità14, e lo sposo del libero arbitrio, il quale volontariamente consente a questa schiava, e con essa conculca e avvilisce la ragione, che è la donna? Certo sì.» Se la volontà non accetta la verità presentata dalla ragione, ma consente ai moti iniqui del corpo, l’uomo perde la sua dignità. È così perché «ogni nobiltà che ha il corpo, l’ha dall’anima, e l’anima da Dio»15. Scopriamo quindi che - secondo il disegno divino - il corpo è la serva dell’anima spirituale. L’anima, cioè «quella parte che è più nobile» è la sorgente della dignità dell’uomo guidato dalla ragione.
L’anima razionale che porta in sé il riflesso della santissima Trinità, eleva l’uomo sopra ogni altra creatura della Terra. Perciò l’uomo deve signoreggiare non solo il corpo suo, ma tutte le creature della Terra, sì che partecipi alla signoria del Creatore. Questa dignità singolare rende comprensibile che tutto è stato fatto per l’uomo. Nel Dialogo dice il Signore che il cielo, la terra, l’aria e il fuoco (cioè ogni elemento del mondo) sono ordinati affinché «sovvengano a la necessità dell’uomo», ne consegue che tutta la creazione serve «per la vita dell’uomo».16


1.3  La verità di Dio e la verità dell’uomo

Nel mistero della creazione si manifesta l’amore infinito di Dio che nel linguaggio cateriniano viene chiamata verità di Dio. La verità dell’uomo si basa su una verità divina: «l’amore ineffabile col quale Dio ci creò alla imagine e similitudine sua. E creocci per questa verità, perché noi gustassimo il suo sommo ed eterno bene, ed acciò che rendessimo gloria e loda al nome suo»17. Dio vuole renderci felici donandoci sé stesso nella vita eterna. Nel Dialogo il Signore rivela: «Questa verità è che [l’uomo] Io l’avevo creato a la imagine e similitudine mia perché egli avesse vita eterna, e participasse me e gustasse la somma ed eterna dolcezza e bontà mia»18. In ultima analisi il fine di tutto il creato è «la creatura che à in sé ragione», e il fine dell’uomo è qualcosa imparagonabilmente più grande: è Dio stesso.
L’uomo ha ricevuto doni che lo distinguono dagli animali e lo rendono simile a Dio appunto per poter compiere la verità di Dio; gli sono state donate le tre potenze spirituali, come doni eccezionali rispetto alle altre creature, perché potesse raggiungere il suo fine che è pure eccezionale. Traducendo quest’insegnamento sulla vocazione dell’uomo in parole moderne possiamo dire che l’uomo è l’unica creatura che è stata voluta da Dio come persona che può dare sé stesso nell’amore19. La persona è un essere non replicabile che nasce, vive e muore in un certo luogo in un determinato tempo. Benché vivano più miliardi di uomini simili, nessuno è uguale ad un altro. Per questo anche il rapporto della persona con Dio è unico e non replicabile, vale a dire personale. L’uomo è stato creato appunto per questo rapporto personale, il cui compimento è la vita eterna. La persona umana è l’unica creatura che è chiamata alla partecipazione della vita divina. Questa chiamata presuppone la capacità di far parte della vita della santissima Trinità. Le tre potenze dell’anima rendono possibile questa partecipazione in base ad una certa somiglianza. Dio ha dato all’anima l’intelletto perché partecipasse alla sapienza del Figlio di Dio e conoscesse l’amorosa volontà del Padre «donatore delle grazie»; gli ha dato la memoria perché «ritenesse i benefizi» di Dio, partecipando alla potenza del Padre eterno; e gli ha dato la volontà perché - partecipando alla «clemenzia dello Spirito santo» - ami quello che l’intelletto ha conosciuto. Le parole del Padre eterno riassumono perfettamente lo scopo delle potenze spirituali che abbiamo ricevuti nella creazione: «Questo fece la dolce mia providenzia, solo perchè ella [l’anima] fusse capace ad intendere e a gustare me, e a godere della mia bontà nella eterna mia visione»20. Caterina con queste parole si rivolge al Creatore per ringraziarlo di questi doni che rendono capace l’uomo di ottenere la felicità: «o Padre eterno: [l’uomo] tu lo traesti della santa mente tua come un fiore distinto in tre potenze dell’anima, e in ciascuna hai posta la pianta21 acciò che potessero fruttificare nel tuo giardino ritornando in te col frutto che gli hai dato»22.
Tuttavia - secondo l’insegnamento di Santa Caterina - le potenze non bastano per ottenere il fine, cioè la comunione con Dio, occorrono le virtù. La virtù non è un’altra potenza, ma una realtà che perfeziona le potenze dell’anima e ordina tutta la persona verso il vero fine. Soltanto il virtuoso realizza il disegno del Creatore.


2. Il concetto della virtù

2.1  All’inizio della storia dell’umanità

All’inizio della storia umana ogni capacità ed attività dell’uomo era in armonia con il fine per cui era stato creato. La creatura «che à in se ragione» viveva nell’amicizia del suo Creatore. La condizione indispensabile di questa comunione ed armonia è proprio il dono delle virtù. Secondo Caterina, grazie a questo dono, l’uomo ha avuto «oltre alla dignità della creazione sua» una dignità più perfetta, che è provenuta dalla forte unione che l’uomo «ha fatta col suo Creatore». Infatti l’uomo «per l’unione dell’amore e delle virtù, fa perfetta questa dignità prima dell’essere»23. La virtù quindi rende la creatura - fatta ad immagine del suo Creatore - veramente simile a Dio24, sì che la virtù porta al compimento l’opera della creazione, realizzando in un modo perfetto la verità dell’uomo. Essendo «vestiti del vestimento nuziale della carità, adornato di molte vere virtù»25gli uomini sono uniti a Dio. L’esercizio della virtù significa «levare il cuore e l’affetto da questo tiranno del mondo e ponerlo tutto libero e schietto senza veruno mezzo in Dio»26. Dio infatti rivela nel Dialogo con l’espressione «uniti sono con meco per amore» e «sono un altro me» che per mezzo delle virtù non si fa solo il bene, ma ci si «identifica» con Dio che è il sommo Bene. Questo è il motivo per cui Caterina ritiene che «la virtù è ricchezza dell’anima, onore, gaudio, riposo e perfetta consolazione»27. Mediante le «vere e reali virtù», che nel linguaggio cateriniano sono sempre animate dalla carità28, la creatura razionale partecipa alla perfezione di Dio. Queste virtù nella vita eterna diventano il motivo per cui Dio dà sé stesso all’uomo. In questo senso parla il Signore a Caterina: «le vere e reali virtù [...] per vostra utilità mi piacciono, perché Io abbi di che rimunerarvi in me, vita durabile»29. Le virtù allora «aduoperano frutto di grazia»30 realizzando l’unione dell’anima con Dio, sì che senza esse non si unisce con Dio.
Originariamente l’intera creazione era perfetta e armoniosa: «Con la mia sapienzia Io ò ordinato e governo tutto quanto il mondo con tanto ordine che veruna cosa vi manca e nessuno ci può apponere»31. Anche il mondo interno dell’uomo era perfetto, cioè l’anima - prima che l’armonia delle sue tre potenze venisse lesa dalla colpa - è bella, perfetta e armoniosa. Caterina ammira la perfezione dell’uomo uscito dalle mani creatrici di Dio: «O deità eterna [...] Hai fatto questo albero libero; tu hai dato i rami a questo albero, ciò sono le tre potenze dell’anima, la memoria, l’intelletto e la volontà. Che frutto hai posto nella memoria? Di ritenere. Nell’intelletto? Frutto di discernere. E nella volontà? Frutto d’amare.»32 I frutti buoni, che le potenze dell’anima portano, pressuppongono nell’anima la situazione originale, voluta da Dio, cioè esigono la presenza delle virtù. La presenza delle virtù comporta infatti che l’albero dell’anima porti frutti soavi, atti veramente buoni che servono per ottenere la vita eterna.
L’albero33 è un’immagine cateriniana la cui sostanza è che «l’anima è un albero fatto per amore e però non può vivere altro che d’amore»34. Ciò vale per ogni uomo, il quale è un albero di vita se ama Dio o un albero di morte se invece di Dio, ama se stesso. Mentre cerchiamo la definizione o almeno la descrizione dell’idea di virtù in Santa Caterina, attingiamo alla ricchezza di questa allegoria. Riprenderò ancora questa immagine pure nei punti successivi, poiché essa è basilare per il nostro argomento. Secondo questa metafora infatti l’uomo si presenta come un albero di virtù o un albero di vizi. Essa dimostra, non solo che le virtù appartengono allo stato originale dell’uomo creato e posto nel paradiso, ma veramente sono necessarie perché l’uomo possa realizzare la volontà divina, la quale volontà non vuol altro che la nostra salvezza.
Con la figura dell’albero di vita Caterina dimostra chiaramente che senza le virtù non si vive neanche, almeno non si vive per quanto riguarda la vita di grazia. «È vero che, se ella [l’anima] non à amore divino di vera e perfetta carità, non produce frutto di vita ma di morte.»35 Per poter aver dei frutti nella vita è necessario praticare tutto l’insieme delle virtù, poiché le virtù costituiscono una indissolubile catena. Tuttavia la virtù più importante, che è il principio e scopo di ogni altra virtù è una, quella della carità. Perciò questo albero, anche se include ogni virtù e non manca mai della discrezione e dell’umiltà che sono fondamentali, si chiama «l’arbore della carità». Questo albero vive dell’amore di Dio e del prossimo, è piantato nella terra dell’umiltà, e per questo con gratitudine conosce sè e i benefici di Dio. Il midollo dell’albero è la pazienza, che dimostra che l’anima è in Dio e Dio è nell’anima. Il pollone dell’albero è la discrezione che «condisce tutte le altre virtù». I tre rami di esso sono le potenze dell’anima, i fiori invece sono le altre singole virtù, i cui frutti soavi sono le opere di giustizia, obbedienza, carità, ecc. Con questi si dà lode e onore a Dio, e si danno al prossimo preghiere, insegnamenti, buoni esempi, opere di misericordia. Solo così si compie la santa volontà del Creatore: «A me rende odore di gloria e loda al nome mio, e così fa quello per che Io el creai, e da questo giogne al termine suo, cioè me, che so' vita durabile, che non gli posso essere tolto se egli non vuole»36. Allora ho messo in rilievo l’importanza dell’insieme delle virtù, si è dimostrato che le virtù in generale, e sopratutto la carità che non vi era senza le altre virtù, sono necessarie.
Alla base di quello che ho detto finora, posso affermare che quando Dio creò l’uomo ad immagine e similitudine sua37, oltre a dare alla sua creatura il dono dell’essere e le potenze, le donò anche le virtù che sono necessarie per portare a fine la vocazione umana, la quale è l’unione con Dio. Perciò, dice la Santa noi uomini, «siamo fatti per gustare l’abitazione del cielo in nutricarci del cibo della virtù»38. Le virtù - come l’essere stesso - sono segni innegabili della bontà di Dio: l’uomo è stato creato per amore, e per questo è stato rivestito di ogni virtù.


2.2  La «fortezza delle vere e reali virtù»

A questo punto, prescindendo dagli eventi dell’inizio della storia umana e dalle particolarità dello stato originale della creazione, vediamo alcune caratteristiche generali, ma importanti e sempre valide della concezione cateriniana della virtù.
Se osserviamo più a fondo la complessità della struttura spirituale e corporale della persona, riscopriamo il ruolo particolare delle virtù. Le virtù realizzano l’armonia dell’anima. Questa pace voluta da Dio consiste soprattutto nel fatto che gli appetiti del corpo sono sottomessi alle potenze più nobili dell’uomo con le quali questo conosce e ama Dio. Grazie alle virtù, l’uomo ama quello che la ragione propone di amare e non quello che viene desiderato dall’appetito sensitivo. Il più importante moto dell’anima è «l’affetto», vale a dire l’amore che è il principio di ogni altra aspirazione umana. In questo senso scrive Caterina che «come e’ piedi portano il corpo, così l’affetto porta l’anima». Se questo affetto non viene purificato e perfezionato dalle virtù - secondo il linguaggio cateriniano - si parla dell’«affetto disordinato» che è il «proprio amor sensitivo, onde procedono tutti e’ vizi». Se invece l’affetto è ordinato si parla del «santo desiderio» o dell’«affetto d’amore», poiché «l’anima è vestita d’amore di Cristo crocifisso, e spogliata del perverso amore sensitivo che gli dà guerra [...] Così l’anima, vestita delle virtù, con affetto d’amore gusta Dio»39. Per il dominio della ragione illuminata dalla fede le capacità spirituali e corporali nonché le azioni stesse dell’uomo virtuoso vengono ordinate. Questo risulta per esempio da una lettera della Santa, scritta a un discepolo: «la mente e il desiderio tuo non sia mai contaminato dalla propria passione, ma piuttosto sia agumentata la virtù in te»40. Le virtù perfezionano le facoltà appetitive e conoscitive dell’uomo in quanto gli danno la direzione giusta. In questo senso scrive Caterina a qualcuno che desidera la perfezione: «l’affetto e tutte le vostre operazioni siano ordinate e drizzate ad onore e gloria del nome di Dio e in salute dell’anime»41.

1Dial., XXIII, p.62.
2Cf. R. G. Haro, La Vita Cristiana, p.73
3Cf. Dial., p.XXXVII.
4Cf. Vita, n.92, p.105.
5Es 3,14.
6Gal 6,3.
7Lett., 150, p.1395.
8Oraz., I, p.3; cfr. Gn 1,3 sg.
9Oraz., I, p.3.; cfr. Gn 1,26.
10Oraz., I, p.3.
11Cf. Dial., XIII; Dial., LI; Oraz., XXIII; ST., I, q.93, a.5.
12Oraz., I, p.3.
13Cf. Dial.,, XCVIII. p.272, r.70-74. Lett., 334, p.202-203.
14Per «uamnità» qui non s’intende tutto l’uomo, ma solo il suo corpo.
15Lett., 354.p. 664-665
16Dial,. CXL. p.448.
17Lett., 48, p.890.
18Cf. Dial., XXI, p.59.
19«Dum confirmat Concilium hominem unam esse in orbe terrarum creaturam quam Deus propter seipsam voluit, statim addit eum plene seipsum invenire non posse nisi per sincerum sui ipsius donum... Amor efficit ut homo se ipsum perficiat per sui ipsius donum sincerum: amare sibi vult dare et accipere quod neque emi potest neque venire, sed libere vicissimque impertiri». GrS, n.11, p.883; cfr. GS, n.24.
20Cf. Dial., CXXXV, p.429-430, r.14-27; ST, I-II, q. 5, a. 5.
21Vuol dire che in ciascuna potenza è presente con la sua vitalità la stessa anima umana: Cf. Oraz., XIII note p.117.
22Oraz., XIII  p.117
23Lett., 29. p.634
24Cf.CCC, n.1803.
25Dial., I, p.2.
26Lett.,111, p.556.
27Lett., 67, p.1445-1446
28Cf. S.T., II-II, q.23, a.7; G. Cavallini, «Consonanze tomistiche nel linguaggio cateriniano “le vere e reali virtù”», p.74.
29Dial., XLVI, p.120.
30Dial., XI, p.32.
31Dial., CXL, p.448.
32Oraz., X,  p.88
33Cf. Dial., IX-XI, XXI; Lett., 113, 213, 363.
34Dial., X, p.29.
35Dial., X, p.30.
36Dial., X, p.31.
37Cf. Lett., 48; Oraz., I.
38Lett.,120, p.585.
39Lett.,120, p.585-586.
40Lett.,269, p.712
41Lett., 150, p.1394










«ogni virtù vale ed ha in sé vita per Cristo crocifisso [...], in quanto l’anima ha tratto l’amore da lui e con virtù seguita le vestigie sue»1.



Capitolo II


La dottrina di Cristo crocifisso




1. Seguire Cristo crosifisso

1.1  L’unione con Cristo crocifisso

Dove si trovano e in che modo si aquistano le virtù? Sostanzialmente la rispota è stata già anticipata nella considerazione della libertà. Abbiamo asserito infatti che il Cristo-ponte, il Verbo incarnato è la via della libertà, è il luogo dove si trovano le vere e reali virtù; camminare sul Cristo-ponte è l’unico modo di crescere nell’amore e in ogni altra virtù. Le virtù cristiane si dimostrano in Cristo crocifisso, e si imparano seguendo Lui.
Cercando la fonte della libertà umana, abbiamo visto che la metafora del ponte suggerisce: l’unione con Cristo crocifisso e il possedere le virtù coincidono, senza l’unione con Gesù Cristo è impossibile acquistare le vere e reali virtù. Il Verbo incarnato, patendo e sopportando fatiche, si è fatto ponte che ci porta alla vita. Il ponte che lega la terra con il celo è Cristo crocifisso. Egli è la nostra via, la via in cui dobbiamo camminare liberamente esercitando le vere e reali virtù; egli è la verità che rivela chi è il vero uomo secondo il disegno divino; egli è la vita che fa partecipare l’uomo alla vita di Dio.
Le virtù sono la materiale edile del ponte. Le virtù vengono simbolizzate dalle pietre e tutte le virtù che danno «vita di grazia» sono costruite su questo ponte che è Cristo crocifisso e non si trovano altrove.

Sai quali pietre sono queste? Sono le pietre delle vere e reali virtù. Le quali pietre non erano murate inanzi alla passione di questo mio Figliuolo, e però erano impediti che niuno poteva giognere al termine suo, quantunque essi andassero per la via delle virtù: non era ancora diserrato il cielo con la chiave del sangue, e la piova della giustizia non gli lassava passare. Ma poi che le pietre furono fatte e fabricate sopra ‘l corpo del Verbo del dolce mio Figliuolo, di cui Io t’ò detto che è ponte, egli le mura e intride la calcina per murarle col sangue suo, ciò è che ‘l sangue è intriso con la calcina della deità e con la fortezza e fuoco della carità. Con la potenzia mia murate sono le pietre delle virtù sopra di lui medesimo, però che niuna virtù è che non sia provata in lui, e da lui ànno vita tutte le virtù. E però niuno e può avere virtù che dia vita di grazia se non da lui, ciò è seguitando le vestigie e la dottrina sua2.
L’uomo può acquistare le vere virtù, che danno «vita di grazia» soltanto da Cristo crocifisso, seguendo il suo insegnamento. Sono le virtù di Cristo a dare stabilità al ponte, sicurezza a colui che lo percorre. La solidità di una costruzione è data dalla malta che tiene saldamente uniti i suoi vari elementi. Il ponte, niente può distruggierlo, perché le pietre delle vere e reali virtù sono ben cementate da una prodigiosa malta3: il sangue di Cristo crocifisso. «La strada è battuta nel sangue»4 L’anima camminando sulle solide pietre del ponte trova lo stabile fondamento della sua vita, ritrova se stesso (spogliandosi dalla propria volontà e rivestendosi di quella divina) e acquista la sua dignità creaturale. Nel fiume invece l’anima, mancando delle vere e reali virtù, si immerge, perde se stesso, perde la sua dignità, non trovando nessun punto sicuro al quale si possa aggrappare:
Ma chi non tiene per questa via [il Cristo-ponte] tiene di sotto per lo fiume, il quale è via non posta con pietre ma con acqua. E perché l’acqua non à ritegno veruno, nessuno vi può andare che non annieghi. Cosí sono fatti i diletti e gli stati del mondo e perchè l’affetto non è posto sopra la pietra, ma è posto con disordinato amore nelle creature e nelle cose create, amandole e tenendole fuore di me - ed elle son fatte come l’acqua che continuamente corre - così corre l’uomo come elleno; benché a lui pare che corrano le cose create che egli ama, ed egli è pure egli che continuamente corre verso il termine della morte. Vorrebbe tenere sè, cioè la vita sua e le cose che egli ama, che non corrissero venendogli meno: o per la morte, che egli lassi loro, o per mia dispensazione, che le cose create sieno tolte dinanzi alle creature; ed egli non può tenerle5.
Se la grazia divina non fosse venuto in soccorso all’anima che prima della redenzione si trovava nella fiumana tenebrosa, le avrebbe mancato ogni speranza, ma «Cristo se ne fece ponte per l’unione della natura divina unita con la natura umana» ed ha reso possibile raggiungere la vita eterna. La Cavallini scrive che «Delle necessità delle virtù come via di salvezza il passo più eloquente è quello del Dialogo, dove la pietre che costruiscono il ponte sono simbolo delle virtù praticate dal Signore nella sua vita terrena, e lasciate a noi come esempio da seguire.»6
Si chiede però: dove ci si incontra con Cristo, dove si trova il ponte saldo delle virtù? Cristo, il ponte infatti, quaranta giorni dopo la sua risurrezione, è tornato da suo Padre ascendendo al cielo, noi invece restiamo quaggiù: «ma questo ponte si partì da noi salendo in cielo. Egli c’era una via che c’insegnava la verità, vedendo l’esemplo e costumi suoi: ora che ci è rimaso? e dove truovo la via?»7.
Il ponte ascende al cielo, ma nello stesso tempo rimane fra di noi per i sacramenti e per la dottrina, affidati alla Chiesa. Cristo è presente anche in ogni cristiano, sopratutto in quello virtuoso. Ciascuno deve diventare ponte nello Spirito Santo, per il prossimo. Ma il ponte è presente in un modo particolare nei ministri sacri, primariamente nel «Cristo in terra»8, cioè nel papa. Il papa è veramente «pontifex», ponte e costruttore del ponte. Il compito dei servi di Dio quindi è duplice: camminare sul ponte di Cristo crocifisso esercitando le virtù nella grazia, e trasformarsi ponte per gli altri. Questo compito riguarda tutti gli uomini, ma soprattutto il papa ed i sacerdoti «i quali la somma Bontà chiama i Cristi suoi»9. Riassumendo la dottrina del ponte nel capitolo XXIX del Dialogo la prima Verità spiega a Caterina il modo secondo cui il ponte è presente fra noi ache dopo la risurrezione di Gesù.
Ora t’ò mostrato a pieno e dichiarato il ponte attuale e la dottrina, la quale è una cosa insieme col ponte; ed ò mostrato all’ignorante chi gli manifesta questa via, che ella è verità, e dove stanno coloro che la ‘nsegnano. E dissi che erano gli apostoli ed evangelisti, martiri e confessori e santi dottori, posti nel luogo della santa Chiesa come lucerne. E òtti mostrato e detto come venendo a me egli tornò a voi, non presenzialmente ma con la virtù, come detto è, cioè venendo lo Spirito santo sopra i discepoli, però che presenzialmente non tornarà se none ne l’ultimo dì del giudicio»10.
A questo punto soffermiamoci un po’ sulla osservazione della figura del ponte che è l’immagine più significativa della dottrina cateriniana. Il ponte, l’unica via che porta alla vita, ha tre scaloni che sono stati costruiti nelle piaghe di Cristo: i piedei confitti alla croce, il costato aperto del Crocifisso e il suo capo spinato, cioè la bocca sua che è il luogo della pace. Nella figura del ponte Santa Caterina esprime non solo l’opera del Redentore ma anche il modo che l’anima deve tenere per camminare nella via da Lui fatta. Il corpo di Cristo sofferente è una via sicura, la via dell’amore «e se ardua per la natura appesantita dal peccato, essa è confortata dall’aiuto divino»11. Chi cammina sulle pietre di essa non si perde. Tuttavia per imparare le virtù di Cristo crocifisso non basta salire sul ponte, bisogna attraversare con fatica tutte le tre scaloni di esso. Nel secondo scalone l’anima sviluppa le virtù che ha concepite nel primo, e nel terzo le perfeziona. «Tutta l’ascesi cateriniana, espressa nell’allegoria dei tre scaloni, s’impernia sullo sforzo per acquistare le virtù»12 - afferma la Cavallini. E davvero le scaloni - mezzi per giungere alla pace dell’unione con Cristo - sono la via del proseguimento in virtù come si legge nel Libro: «Per lo primo scalone, levando i piei dell’affetto dalla terra, si spogliò del vizio, nel secondo si vestì d’amore con virtù, e nel terzo gustò la pace»13. L’immagine della bocca - che appartiene al terzo stato dell’anima - sintetizza il comportamento dell’anima che è giunta ad un’unione strettissima con Cristo crocifisso. La bocca infatti ha due compiti: quello di parlare e quello di mangiare. L’anima - giunta alla pace delle labbra - parla quando prega e quando annuncia la verità. L’anima parla nell’orazione in cui direttamente si rivolge a Dio e parla quando - se è il tempo adatto per farlo - istruisce, ammondisce, consiglia gli altri. L’anima con le due fila di denti dell’odio del vizio e dell’amore della virtù, mastica tribolazioni ingiurie, persecuzioni, villanie da parte del prossimo. Così attua la volontà del Creatore e cresce nelle virtù.14
In questo proposito dei scaloni leggiamo ancora un brano dalla lettera, scritta da Santa Caterina alla signora onorabile degli Agazzarri, moglie di Francesco di Tolomei. Vediamo che l’anima, essendo salita sul ponte, come «caccia il vizio, e con l’amore abbraccia le virtù»15 e come deve salire sui gradini sepre più alti colui che già cammina sul ponte.
non è cosa convenevole che noi, che siamo fatti per gustare l’abitazione del cielo in nutricarci del cibo della virtù, che noi gustiamo la terra e nutrichianci del proprio amore sensitivo, onde procedono tutti e vizi. Ma dovianci levare e salire all’altezza delle virtù, aprendo l’occhio dell’intelletto a ragguardare in sul legno della croce, dove noi troviamo l’Agnello, arbore di vita, che del corpo suo ha fatto scala. Il primo scaglione che ci ha insegnato a salire, sono e’ piedi, cioè l’ affetto: chè come e’ piedi portano il corpo, così l’ affetto porta l’anima. Essendo saliti il primo, cioè co’ piedi confitti e chiavellati in croce, troverete l’affetto spogliato del suo disordinato amore. Giugnendo al secondo, cioè al costato aperto di Cristo crocifisso, e vedrete il secreto del cuore; con quanto amore ineffabile ci ha fatto bagno del sangue suo. [...] Vedendo il terzo scaglione, e giugnendo cioè alla bocca del Figliuolo di Dio, nutricarsi nella pace. Ché, poi che l’anima è vestita d’amore di Cristo crocifisso, e spogliata del perverso amore sensitivo che gli dà guerra, ha trovata la pazienza; [...] La persona che dà la pace, s’unisce con lui a cui la dà. Così l’anima, vestita delle virtù, con affetto d’amore gusta Dio, ed unisce la bocca del santo desiderio nel desiderio di Dio, ed in esso desiderio di Dio s’unisce con pace e quiete.16
Leggendo il testo del XXVI. capitolo del Dialogo si capisce facilmente che questi gradini del Ponte non si riferiscono solo ai tre stati dell’anima secondo una progressiva unione con Cristo - espressa con i tre scaloni delle piaghe di Gesù -, ma nello stesso tempo anche all’unità delle tre potenze dell’anima: «le tre potenzie dell’anima, le quali sono tre scale, e non si può salire l’una senza l’altra»17. Allora qui si tratta di una metafora - nel senso vero e proprio mistica - che ha due chiavi d’interpretazione assai diverse, tuttavia non contraddittorie.
Anco t’ ò mostrato il ponte come egli sta, e otti mostrati i tre scaloni generali posti per le tre potenzie dell’ anima; e come niuno può avere la vita della grazia se non gli sale tutti e tre, cioè che sieno congregate nel nome mio. E anco te gli ò manifestati in particulare per li tre stati dell’anima, figurati nel corpo de l’ unigenito mio Figliuolo, del quale ti dissi che egli aveva fatto scala del corpo suo, mostrandolo ne’ piei confitti e nella apritura del lato, e nella bocca dove l’ anima gusta la pace e la quiete per lo modo che detto è.18
Avere delle virtù significa che le facoltà dell’anima, cioè la memoria, l’intelletto e la volontà, sono ordinate ed unite per raggiungere la méta dell’uomo: «congregata la memoria a ritenere e lo’ntelletto a vedere e la volontà ad amare, l’anima si truova accompagnata di me che so’ sua fortezza e sua sicurtà; truova la compagnia delle virtù, e cosí va e sta sicura»19. Allora l’anima virtuosa, di cui potenze sono ben disposte a seguire Cristo crocifisso, va avanti sui gradini del ponte: «si muove con ansietato desiderio, avendo sete di seguitare la via della Verità, per la quale via truova la fonte dell’ acqua viva. Per la sete che egli à dell’onore di me e salute di sè e del prossimo à desiderio della via, però che senza la via non vi potrebbe giognere»20. Questo ordinamento comporta che si è capace di compiere i comandamenti di Dio, i quali comandamenti vengono sintetizzati nella carità verso Dio e verso il prossimo. La prima Verità rivela a Santa Caterina: «Tu sai che i comandamenti della legge stanno solamente in due [...] Questi due non possono essere congregati nel nome mio senza tre; ciò è senza la congregazione delle tre potenzie dell’anima, cioè la memoria, lo ‘intelletto e la volontà,»21. L’unione con Cristo crocifisso sul ponte conporta «l’unità di queste tre potenzie dell’anima»22, e acquistando così le virtù si unisce più profondamente con Cristo crocifisso. Chi cammina sui gradini del ponte impara le veri e reali virtù che perfezionano le potenze spirituali della persona.
Poi che è salito egli [l’uomo] si truova congregato; chè, possedendo la ragione i tre scaloni delle tre potenzie dell’anima, come detto t’ò, l’à congregate nel nome mio. Congregati i due, cioè l’amore di me e del prossimo, e congregata la memoria a ritenere e lo’ntelletto a vedere e la volontà ad amare, l’anima si truova accompagnata di me che so’ sua fortezza e sua sicurtà; truova la compagnia delle virtù, e cosí va e sta sicura perchè so’ nel mezzo di loro. Allora si muove con ansietato desiderio, avendo sete di seguitare la via della Verità, per la quale via truova la fonte dell’ acqua viva. Per la sete che egli à dell’onore di me e salute di sè e del prossimo à desiderio della via, però che senza la via non vi potrebbe giognere. Allora va e porta il vaso del cuore votio d’ogni affetto e d’ogni amore disordinato del mondo.23
I tre scaloni del ponte quindi esprimono con la lingua delle immagini che la perfezione delle facoltà umane, che si chiama virtù, non viene acquistata se non per Cristo crocifisso. L’uomo ha perso le virtù per la colpa di Adamo, ma fatto libero per il sangue di Cristo, può e deve riacquistarle. La persona cresce in tali virtù se sceglie la strada tracciata da Gesù che «per la salute» dell’uomo «corse a l’obbrobriosa morte della santissima croce»24. Scegliere la via della virtù infatti significa camminare con Cristo nella via dell’amore, della libertà, della salvezza, rimanendo in Lui sino alla fine obbedientemente, con molta pazienza. Scegliere la via delle virtù e correre «con virtù per lo ponte della dottrina di Cristo crocifisso»25 significa faticare per il bene, lottare contro il male secondo gli esempi e gli insegnamenti di Cristo crocifisso.

1.2 L’Alfa e l’Omega

Dio Padre ci spiega nel Dialogo cosa vuol dire in realtà la sequela della dottrina del Crocifisso: «seguitarete la dottrina sua, notricandovi in su la mensa della croce, cioè portando per carità con vera pazienzia il prossimo vostro: pena, tormento e fadiga, da qualunque lato che si vengano»26. Il cammino delle virtù allora è una conformazione a Cristo che sollecitato dall’amore «corse con pena e obrobrio alla mensa della santissima croce»27. La vita umana sarà fruttuosa solo se partecipa della vita del Verbo incarnato, di conseguenza i veri cristiani devono seguire Cristo sofferente. Vale a dire che questa vita terrena è il tempo della fatica, del lavoro, e della sofferenza; tuttavia appunto questo patire diventa il pegno della felicità eterna e in certo qual modo motivo della serenità dell’anima, già adesso, sulla terra. Mentre l’anima partecipa liberamente del patimento di Cristo redentore, cresce nell’amore. Mentre il cristiano imita il Verbo incarnato che assumendo la natura umana ha faticato e sofferto, diventa intimo amico di Dio onnipotente, la quale amicizia gli dà consolazione e una beatitudine che pure non essendo paragonabile a qella perfetta dei beati, supera ogni gioia della terra.
La fatica delle virtù comporta il fatto più paradossale della vita cristiana: lottando godere la pace e sofrendo gioire. Ma appunto così si diventa autentico imitatore di Cristo crocifisso che in tutta la sua vita, ma particolarmente nelle estremità del patimento alla croce, era beato e sofferente inseme. Caterina tiene ben presente questo grande mistero e lo esprime con le parole di una sua preghiera rivolta al Salvatore: «O Verbo eterno, tu unisti in tal modo con te la natura mortale che non fu possibile che in alcun modo si separasse; onde in croce la natura mortale sosteneva, ma la natura divina vivificava, e pertanto eri insieme beato e doloroso»28.
La sequela di Cristo non è solo andare sulla traccia sua, ma piuttsto è un camminare insieme a lui. Chi imita Cristo crocifisso è unito con lui per le virtù della fede, la speranza e la carità. «Adunque - esorta Caterina - nascondetevi nelle piage di Cristo crocifisso, ponete l’affetto, la fede e la speranza vostra in Cristo crocifisso. Con questo dolce e vero Agnello passerete questa tenebrosa vita, e giugnerete alla vita durabile»29.
Il ruolo privilegiato di Cristo crocifisso comporta che non si deve seguire il bambino Gesù, né Cristo risorto, né il Padre30, ma l’obbediente Cristo che ha accettato le sofferenze fino alla morte sulla croce. Leggiamo in proposito come interpreta il Dialogo le parole di Gesù, con le quali invita a sé noi uomini, pellegrini sulla terra:
«Chi à sete venga a me e beia, però che Io so’ fonte d’acqua viva». Non disse «vada al Padre e beia», ma disse «venga a me». Perchè? Però che in me, Padre, non può cadere pena, ma sí nel mio Figliuolo. E voi, mentre che sete peregrini e viandanti in questa vita mortale, non potete andare senza pena, perchè per lo peccato la terra germinò spine31.
Il Crocifisso, la cui missione si è compiuta nel patimento sulla croce, caratterizza la spiritualità e tutto il pensiero di Caterina32. Senza di lui non si conoscerebbe come ci vuol bene il Creatore. Cristo crocifisso è la manifestazione definitiva e perfetta dell’amore di Dio:
inestimabile carità, el quale non è nascoso a noi; era bene nascoso alla grossità nostra, prima che ‘l verbo unigenito Figliuolo di Dio incarnasse, ma poi che volse essere nostro fratello, vestendosi della grossità della nostra umanità, ci fu manifesto; essendo poi levato in alto acciò che ‘l fuoco dell’ amore fusse manifesto a ogni creatura, e tratto fusse il cuore per forza d’amore33.
Significativo il fatto che per Caterina Gesù ha portato la croce nell’anima sua fin dal suo concepimento desiderando la salvezza degli uomini34. Secondo Caterina la croce, accettata con pazienza, non è affatti un elemento accessorio, bensì sia essenziale della vita di Cristo e anche di coloro che vogliono seguire il suo esempio.
Caterina quindi vedi ed insegna le virtù in Cristo crocifisso. L’oggetto dell’ammaestramento cateriniano è sempre Cristo crocifisso che è la nostra via, verità e vita35. Benché Cristo è sempre l’alfa e l’omega per i santi, anzi per tutti i cristiani, l’insegnamento catriniano è particolarmente una dottrina di Cristo crocifisso. Benché tutti i santi abbiano insegnato e stanno insegnando nella Chiesa che la strada della salvezza è la croce, in Santa Caterina lo stesso insegnamento della croce ha una espressione esplicitissima in quanto la strada da percorrere è il Crocifisso stesso. Quest’affermazione va sottolineata rispetto alla dottrina delle virtù. Il riferimento primo e ultimo di tale dottrina è sempre Colui che ha sofferto per noi con pazienza, ha sopportato tutto perseverando fino alla morte per amore.
Il centro di tutta la dottrina e spiritualità di Santa Caterina è il Cristo crocifisso che è «l’amore crociato»36. Per Santa Caterina il Figlio di Dio è Cristo crocifisso. La via, la verità, la vita è Cristo crocifisso. Il maestro, la gioia, la consolazione dell’anima ed ogni sua forza è Cristo crocifisso. Poiché il nome veramente esprime qualcosa del proprietario di esso37 non è insignificativo per niente che Caterina scrive il Dialogo ed ogni sua lettera «Al nome di Gesù Cristo crocifisso», ella formula le sue domande ed esortazioni in questo nome. La via della salvezza per lei è l’unione con Cristo crocifisso, anzi il diventare Cristo crocifisso stesso. (Da questo punto di vista è significativo l’esperienza mistica di cui parla il Beato Raimondo nella Legenda: una volta gli pareva il volto di Caterina come il volto santo di Cristo crocifisso.38) L’anima unita con Cristo crocifisso è crocifisso anche lei con Cristo; e vive non più lei, ma vive in lei Cristo crocifisso39.
La sequela di Cristo crocifisso è la sequela del crocifisso amore. Perciò non dobbiamo seguire il Padre, né Gesù che è presente allegramente con sua Madre e con i discepoli alle nozze di Cana, né il Dio-uomo che appariva nella sua gloria sul monte della trasfigurazione, né il Messia che entra a Gerusalemme la domenica delle palme, ma il Crocifisso. Noi dobbiamo seguire quello che lasciando la sua gloria divina ha accettato l’umiliazione estrema, che lasciando l’eternità ha accettato la morte terrena, che lasciando la perfetta comunità d’amore della Santissima Trinità ha accettato la solitudine e l’incomprensione, che lasciando il suo stato di non poter soffrire ha accettato la flagellazione, la corona di spine e gli chiodi. dobbiamo seguire colui che, benché possedesse la perfetta libertà, è diventato legato e crocifisso. Dobbiamo seguire il Cristo crocifisso e il suo amore crocifisso.
Gesù Cristo è diventato ponte per l’uomo, che deve salire nel cielo. Egli discende dall’alto: dall’altezza della libertà assoluta, dall’altezza della perfetta comunità d’amore della Santissima Trinità, dall’altezza della impatibilità e dall’altezza della gloria divina. Egli è disceso perché l’uomo fosse sciolto dai legami causati dal peccato, dalle sofferenze causate dal peccato, dalle umiliazioni causate dal peccato, e fosse riportato nella libertà divina, nella impatibilità divina, e nella gloria divina. Il punto d’incontro di Gesù Cristo - che ha lasciato la gloria del cielo - e dell’uomo - che sta cercando tale gloria - è la croce, sulla quale viene crocifisso l’amore.
L’anima quindi, che vuole seguiere Cristo, deve sapere che non incontra Cristo crocifisso se non sulla croce. Ciò si deve saperlo, perché sul principio è molto facile amare Dio, il cui mondo è ricchissimo, egli è la causa di tutti i beni, di tutte le cose belle, con poche parole egli è la causa di ogni gioia e ricchezza. Amare il Crocifisso però è molto difficile sul principio.
Ma Dio con «l’amo dell’amore»40 prende l’uomo, con l’amore l’abitua ai diversi - sempre più alti - gradini del ponte. L’uomo infatti che ha scoperto la bellezza e ricchezza del mondo, a cui piace molto il vino delle nozze di Cana, facilmente dice sul monte delle consolazioni: «è bene per noi lo star qui, [...] farò qui tre tende»41 - in questa tranquillità, in questa luce. All’inizio della via della perfezione spirituale, l’uomo con gioia grida «Osanna» e «stende i vestiti sulla strada» davanti al Signore, poiché si sente di essere uno dei suoi prediletti.
Dio invece in un certo gradino, dopo averci presi con i dolci ami dell’amore, ritira l’esperienza della sua presenza. Si scopre subito che il vino senza di Lui non è dolce più, il monte senza di Lui è troppo alto, come pure è faticoso fare ascensione di tale monte, e che il protezione del Signore non risulta merito davanti ai poteri terreni. A un certo punto ogni gioia e bellezza del mondo che dimostra la riccheza del Padre creatore, si incarna nella fatica quotidiana e si dimostra nella sofferenza di Cristo crocifisso. E in questo momento si manifesta se possiamo, vogliamo seguire Lui, il Crocifisso, o no.
Si può bene vivere una vita intera seguendo il Padre; più esattamente seguendo quel immagine di Dio che - al posto della croce - facciamo42 noi per noi stessi. Sembra che Dio lo permetta. Possiamo scegliere tra tre tipi d’amore: quello freddissimo (l’amore verso il mondo), quello tiepido (l’amore verso «il Padre», cioè verso quel immagine che noi facciamo per noi come «Padre»), e quello di fuoco (verso Cristo crocifisso).
Mentre cerchiamo la sostanza della dottrina cateriniana, scopriamo che non ci vengono date queste tre alternative: «Non tiepidezza, per l’amore di Dio! ma corriamo verso il calore della divina carità, seguitando le vestigia di Cristo crocifisso»43 Nell’insegnamento di Santa Caterina l’unica domanda infatti è la seguente: siamo capaci di crocifiggere il nostro amore? Amiamo quindi ciò che ci viene presentata dalla ragione in Cristo crocifisso, oppure amiamo quello che piace alla nostra sensualità? Siamo capaci di questa crocifissione, o ci fermiamo e ci scandalizziamo in Lui44?
Per l’anima che contempla Cristo crocifisso, il mistero dell’amore, diventa raggiungibile per mezzo delle virtù. Tale anima vede e «gusta»45 continuamente davanti a sé, in Cristo crocifisso le virtù della mansuetuedine, della pazienza, della benevolenza, della prontezza di sacrificio, della perseveranza, della stabilità, dell’accettazione, della donazione, della prudenza e della scienza, cioè ogni «figliuoli» della carità.
L’amore divino è un immenso mare, «mare pacifico»46 che non possiamo assimilere in noi. Come l’incarnazione del «Figlioulo di Dio» ci ha portato vicino «l’ineffabile»47 mistero della Santissima Trinitá, così i «figliuoli» della carità divina, cioè le virtù, ci offrono il mare per gocce: attraverso i sensi dell’anima nostra. Le virtù ci danno il mare infinito della divina carità in un modo adequato a noi, creature finite.
Davanti agli occhi dell’anima c’è - per esempio - la mansuetudine del Cristo crocifissso. L’anima gusta la dolcezza di questa mansuetudine. Questo vedere e gustare cominca a legare e a crocifiggere nell’anima tutti i vizi, passioni e tutte le sfrenatezze che si ribellano contro la mansuetudine.
Allo stesso modo è davanti agli occhi dell’anima la costanza di Cristo crocifisso. Questo immagine davanti agli «occhi dell’intelletto» lega le parole superflue, i pensieri della dispersione e gli atti della inquitudine, e rende capace la mente di accolgliere la tranquillità e la stabilità di Dio.
In un modo simile l’anima contempla e «gusta» l’obbedienza di Cristo crocifisso e la propria disobbedienza, la volontá propria annega «nel sangue dolce di Cristo crocifisso, dove ogni cosa amara diventa dolce e ogni grande peso leggiero.»48 Tale anima per l’obbendienza si sommerge veramente in Dio, nel «mare pacifico». A questo proposito leggiamo qualche riga di una lettera di Santa Caterina scritta a un certosino:
E’ pronto nell’obbedienza sempre, in osservarla (...) perché nel sangue gustò l’obbedienza del Verbo. Non ha pena; perché si ha tolta la volontà, e messa nelle mani del suo prelato, per Dio; giudicando la volontà sua nella volontà di Dio. Questo non sente fadiga, perché ha morta in sé la propria e perversa volontà, che sempre dà fadiga; la quale uccise nel sangue. Egli gusta l’arra di vita eterna; sempre ha pace e quiete nell’anima sua, perché si ha tolta quella cosa che gli dava guerra49.
L’anima desidera ciò che gli è presentata dalla ragione, come oggetto. Il suo desiderio l’unisce al suo oggetto sempre di più. L’anima così progredisce nelle virtù e mano a mano raggiunge pure quelle virtù che non si trovano se non in Cristo crocifisso e non si può averne se non per Cristo crocifisso. Mentre l’anima si arricchisce delle virtù, queste virtù - come una catena - la legano: legano e soffocano i sui vizi, e tutto quello che potrebbe legarla al demonio ed unirla ad esso.
L’anima - così legata dalle virtù del Cristo crocifisso - è libero, ma questa libertà non esiste se non nella realizzazione dell’amore. Tale anima è libero solo per amare. Essa è colma di «affetto di carità e legata in amore»50 e non può unirsi ad altro se non all’amore stesso, con quell’amore che è legato e «crociato», che è l’amore di Cristo crocifisso. Questo amore è il mare in cui l’anima si sommerge.
Questo amore è tutto gratuito, incondizionato: un amore «crocato», «dilezione della carità»51, l’amore dell’amore, che è l’unico e sommo valore. Questo è l’amore che vive nella Santissima Trinità, che è in Dio verso sé stesso, sommo Bene. Questo è l’amore che è in Cristo crocifisso verso il Padre e verso di noi.
O dolcissimo amore Gesù, tu t’hai lassato accecare all’amore, che non ti lassa vedere le nostre iniquitadi; e perduto n’hai il silenzio. O Signore dolce, e’ parmi che l’abbi voluto vedere e punire sopra al corpo dolcissimo tuo, dandoti al tormento della Croce; e stando in su la Croce come innamorato, a mostrare che non ci ami per tua utilità, ma pre nostra santificazione.52
Perciò la sequela di Cristo crocifisso eleva l’anima al Padre, nell’amore e nella gloria della Santissima Trinità.

1.3 L’unità delle virtù in Cristo crocifisso

Caterina contempla quindi ogni virtù in Cristo crocifisso: «ogni virtù vale ed à in sé vita per Cristo crocifisso» e noi seguiamo «le vestigie sue»53 con le virtù. Ogni virtù è prima di tutto la sua, senza di lui non sapremmo neanche cosa sia la vera virtù. Caterina considera le singole virtù come manifestazioni di un’unica realtà. Questa realtà è la vita stessa del cristiano, la sua vita unita con Cristo crocifisso. La tesi cateriniana è molto semplice: la vita di grazia spetta solo ai seguaci del Crocifisso.
Caterina ha una prospettiva speciale per cui vede tutto – nel senso vero e proprio – in Cristo crocifisso. La presenza di Cristo per Caterina è tale realtà, come per noi l’aria, di cui si vive, in cui si vede tutto. Ma mentre si aspira l’aria vivifica senza riflettere alla presenza di essa, Caterina della presenza di Cristo se ne riflette semepre. Per questo conclude la Santa quasi tutte le sue lettere invocando il santo nome del suo divino sposo: «Gesù dolce, Gesù amore». Ella contempla continuamente nella sua anima Cristo, l’incarnazione della Verità, e si può dire che tutti i suoi scritti sono manifestazioni di questa contemplazione. Perciò ella guarda ogni realtà con gli occhi di Cristo, «tutto uomo e tutto Dio», con cui è unita. In proposito leggiamo le parole di Caterina, come le porta Beato Raimondo nella Legenda:
Per questa unione amorosa, che ogni giorno aumenta, l’anima si trasforma in un certo modo in Dio talmente, che non può pensare, intendere e amare se non Iddio, e non aver presente altro che Iddio. Se stessa e le altre creature non vede se non in Dio, nè ricorda se stessa e gli altri se non precisamente in Dio. Le succede dunque come a colui che s’immerge nel mare e nuota sott’acqua: non vede nè tocca che l’acqua, e quello che sta nell’acqua; e di ciò che è fuori dell’acqua nulla vede, nè tocca, nè parla. Se gli oggetti che sono fuori dell’acque vi si riflettono, allora li vede, ma soltanto nell’acqua e come essi vi si proiettano e non altrimenti54.
La mistica presenza di Cristo talmente illumina l’anima di Caterina che la sua sapienza confonde non soltanto il papa Urbano VI55, ma colpisce anche noi che siamo ormai alla soglia del terzo millennio.
Ora le parole di Caterina vengono comprese nel mondo della mistica cristiana, la quale concepisce tutto in Cristo, con Cristo e per Cristo. Ciò comporta a proposito del nostro argomento che le virtù cristiane nell’insegnamento cateriniano sono particolarmente unite, possono essere derivate una dall’altra vicendevolmente. Sarebbe molto difficile stabilire quale virtù sia il principio per le altre. Si dice giustamente che la madre di tutte le virtù è la carità, ma egualmente è vero che senza l’umiltà non c’è nessun’altra virtù, come pure è validissimo che senza la fede non si raggiunge né la vera umiltà, né la carità, la quale fede però non esiste senza la pazienza. Anche se è vero che tutte le virtù hanno una caratteristica speciale, tuttavia le origini e gli effetti delle singole virtù sono permutabili. Per Caterina è più importante della successione delle singole virtù il fatto che esse si attingono alla pienezza di Cristo56.
Quando le virtù crescono, non crescono indipendentemente. Quando si pratica una virtù, si irrobustisce quella medesima virtù, ma nello stesso tempo da essa nascono altre. Queste ultime poi reagiscono positivamente su quella precedente. Ad esempio, se qualcuno ama Dio e crede in lui con una salda fede, subito ha anche speranza; dalla speranza poi nasce una fortezza che non ha timore da alcuna cosa. L’uomo forte poi ama con sempre maggiore pazienza e così via.
Questa visione unitiva delle virtù si manifesta per esempio nella lettera scritta a Mitarella, moglie di Vico da Mogliano, in cui Caterina, per l’inseparabilità di tali virtù (e non per scorretto uso della parola) al posto della speranza dice la parola fede: «Se voi starete in questa santa fede giammai nel vostro cuore non cadrà tristizia. Perché la tristizia non procede da altro se non dalla fede che poniamo nelle creature»57.
Analizzando l’albero della carità nel primo capitolo, abbiamo raggiunto allo stesso risultato osservando che le virtù sono collegatissime, grazie alla carità e alla virtù della discrezione. Adesso aggiungiamo che in Caterina il vero principio della connessione delle virtù non è solo la discrezione che condisce tutte le altre virtù, né soltanto la carità divina in generale che dà vita alle virtù, ma per eccenllenza la persona di Cristo crocifisso, da cui impariamo ad amare e da cui riceviamo ogni grazia e perfezione per mezzo dello Spirito santo.
La stessa immagine dell’albero della carità suggerisce che il rapporto fra le singole virtù cristiane è simile al rapporto delle membra di un organismo vivente. Esiste - almeno in un certo senso - una penetrabilità mutua ed una certa invertibilità fra gli organi del corpo umano. Il cuore tiene vivo il polmone, potremmo dire che è la madre di esso, ma nello stesso tempo anche il polmone è necessario per la vita del cuore. Questa considerazione può essere applicata benissimo anche al fegato che riceve vita dal cuore e dal polmone, ma senza il quale non funziona né il cuore, né il polmone. Mentre si trattano tre organi ben diversi, i loro attributi sono permutabili. Si possono essere cambiati gli attributi perché i soggetti di tali attributi fanno parte di una unità più grande (il corpo). Quando si parla di un organo (anche se non si dice esplicitamente), si parla di esso in quanto esso è una parte del corpo. Ciò va applicato anche al discorso cateriniano delle virtù. Le virtù infatti tutti fanno parte dell’albero vivo della carità e sono sempre le pietre vive del Cristo-ponte. L’interdipendenza degli organi raffigura l’unità delle virtù cateriniane. L’esempio del corpo umano infatti spiega il fatto che Caterina considera le virtù come realtà vive, inseparabili e difficilmente classificabili.
Caratterizza la dottrina cateriniana delle virtù che non si può strutturare così come per esempio troviamo una classificazione meticolosa e - nello stesso tempo - geniale in San Tommaso. Nel contesto della dottrina cateriniana non si può parlare neanche delle virtù cardinali in quanto cardinali. Le quattro virtù cardinali si trovano anche nell’ammaestramento di Santa Caterina, ma non se ne parla da tale punto di vista. Una virtù è significativa per Caterina in quanto appartiene a Cristo crocifisso. Santa Caterina tiene presente la vita concreta. Ella è meno scientifico di San Tommaso se la scienza significa analisi, ma è allo stesso livello se la scienza significa: conoscere per le cause.
Nei scritti di Santa Caterina si scopre una visione unitaria e universale della realtà: tutto è in Cristo crocifisso. Ciò è la sua intuizione mistica fondamentale. L’importanza delle virtù nella prospettiva cateriniana deriva dal fatto che ogni virtù è di Cristo. Cristo infatti, da una parte, dà esempio delle virtù che noi dobbiamo avere, dall’altra, le sue virtù generano in noi delle virtù che possono essere anche diverse, ma sempre collegate con le sue.
La gratitudine, per esempio è una delle più fondamentali virtù cateriniane. Essa a sua volta è la virtù tipica della creatura e come tale Cristo non può averla, poiché lui non è una creatura, ma il nostro Creatore. Tuttavia rimane il Crocifisso e la sua virtù il punto di riferimento per la gratitudine umana. Non tanto la gratitudine di Cristo che il suo amore è quello che diventa principio della nostra virtù. La consapevolezza dell’amore del Verbo incarnato, morto per noi sulla croce, suscita in noi la virtù della gratitudine.
Caterina non nega la gerarchia delle virtù e sottolinea l’importanza della discrezione, come pure della carità ecc., tuttavia quelle perfezioni che vediamo in Cristo crocifisso e cerchiamo di acquistare, sono egualmente necessari, cioè cardinali. Vediamo, ad esempio, la virtù della pazienza. Quando la pazienza si presenta come una virtù da imparare da Cristo crocifisso (e si presenta sempre così), quello che importa è la persona di Cristo, fonte di ogni pazienza, e il suo esempio. Ciò potremmo dire alla stessa maniera dell’obbedienza, della fortezza, e così via di ogni virtù inclusa la virtù della carità. L’attributo più importante di tutte le virtù è appunto il fatto che si può attingerli a lui. Di conseguenza le altri attributi hanno una importanza relativa e sono cambiabili.
L’insegnamento mistico di Caterina (come la vera mistica sempre) è basato all’ardua sequela di Cristo crocifisso; una sequela molto concreta e vissuta quotidianamente. L’imitazione di Cristo che ha sofferto per amore è la sorgente e l’essenza di un’autentica mistica che è frutto di preghiera, che è verificata dalla stessa esperienza di vita. È da sottolineare che Caterina prima nella sua vita poi nei suoi scritti ci presenta un rapporto strettissiomo fra la vita mistica e quella pratica e quotidiana.
L’ammaestramento di Santa Caterina senza dubbio è mistico, tuttavia non riduciamo il suo insegnamento a una dottrina mistica che spetti solo a quelli che sono chiamati alla perfezione eccezionale. Riteniamo che ella ha una dottrina universale, anche se mistica; una dottrina di Cristo crocifisso che è la via della salvezza per tutti. 58
Un frutto di questo modo di vedere mistico è, fra l’altro, che Caterina nei suoi scritti usa molte immagini: i misteri della fede, intuiti dalla santa, vengono espressi con l’aiuto di immagini forti, soprattutto bibliche, ma Caterina illustra il suo pensiero spesso con qualsiasi altro oggetto della vita quotidiana. Le immagini possono far vedere al primo colpo d’occhio la ricchezza e l’unità interna della verità. Ora le realtà mistiche sono espresse per le immagini ed esse vanno interpretate nel contesto della mistica. Le immagini sue, non le comprendiamo se non in tal contesto, come l’abbiamo già visto e vedremo ancora. Certo che il pensiero va oltre le immagini ma Santa Caterina l’esprima attraverso l’immaginazione. Santa Caterina appunto per le immagini vivi ci porta vicine le realtà più profonde della vita. In questo non fa altro che il suo Maestro che «senza parabole non raccontava nulla»59.
1.4 La croce salvifica

Cristo crocifisso, «per cui - il cristiano - ogni cosa può»60, è la più tipica concezione della nostra santa. Caterina mette in risalto ripetutamente che si deve seguire Cristo crocifisso. Lo dice letteralmente; lo esprime per il fatto che scrive tutte le sue lettere «al nome di Cristo crocifisso» e «nel sangue suo»; lo insegna con le sue immagini, come con quella del ponte (il corpo crocifisso del Salvatore), oppure con altre metafore bellissime che riguardano piùttosto la croce di Cristo.
La croce di Cristo più volte viene presentata come una tavola, «la mensa della santissima croce», dove tutti noi - se vogliamo vivere - dobbiamo nutricarci con il cibo di Cristo crocifisso che a questa mensa «mangiò il cibo dell’anime, sostenendo pene, obbrobri e villanie, e nell’ ultimo l’obbrobriosa morte»61.
Ma la croce è anche una cattedra d’insegnamento, la cattedra cioè da dove Cristo ci insegna le virtù, «manifestandoci il fuoco dell’amore ineffabile e la misericordia del Padre eterno; insegnandoci la dottrina della verità, e mostrandoci la via dell’amore, la quale noi doviamo tenere». Infatti Caterina chiede: «Dove ce l’ha insegnata questa dottrina questo dolce e amoroso Verbo?» e risponde: «Su la cattedra della santissima croce. [...] Dico che c’insegnò la via dell’amore e la dottrina della virtù. Egli ci mostrò in che modo noi doviamo amare, a volere avere la vita»62. Cristo soprattutto sulla croce è il nostro maestro e diventa la nostra via, verità e vita. Chi va per Cristo crocifisso non va nelle tenebre, ma giunge alla luce. «E così è: perocché, chi seguita questa via, in verità, ne riceve vita di Grazia, - spiega la Santa - e va col lume della santissima fede e con esso lume giugne all’eterna visione di Dio».
La croce è un albero, il punto d’incontro con Dio. All’anima conviene fare come Zaccheo, salire cioè sull’albero per vedere Dio. Là trova immenso amore e carità.63
La croce poi è un albero, i cui frutti sono le virtù. Come il ponte è Cristo stesso, così anche l’albero della croce - invece di essere puramente un pezzo di legno - rappresenta tutta la persona vivente del Crocifisso. Questi è «l’arbore fruttifero» in cui bisogna essere innestata per poter amare. In questa figura sembra di leggere anche la parabola evangelica in cui si fa presente che un albero si riconosce dai suoi frutti; se dunque i frutti sono buoni non c’è dubbio che lo sono perché sono frutti di un albero buono. Senza la virtù non possiamo piacere a Dio - dice Caterina -, ma le virtù non si trovano altrove che «nel dolce e amoroso Verbo» e «si notricano in sul arbolo della santissima croce»64. Perciò la Santa scrive all’abbate Martino che vuole vederlo innestato nell’albero della croce, l’unico albero che porta i frutti delle vere e reali virtù:
Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce. Reverendo e carissimo padre in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi il cuore e l’affetto vostro innestato in su la dolce e venerabile croce; [...] E perché ancora vediamo Dio e Uomo corso alla obrobriosa morte della croce, ha fatto uno innesto questo Verbo in su la croce santa, e bagnatici del sangue prezioso suo, germinando i fiori e i frutti delle vere e reali virtù; e tutto questo ha fatto il legame dell’amore. Questo amore caldo, lucido ed attrattivo ha maturati i frutti delle virtù, e toltogli ogni acerbità. [...] Sapete che in prima erano sì agre, che neuna virtù ci conduceva a porto di vita, perocché la marcia della disobedienzia di Adam non era levata con l’obedienzia del Verbo, unigenito figliuolo di Dio. Anco vi dico che, con tutto questo dolce e soave legame, l’uomo non participa, né può participare la Grazia se esso non si veste, per affetto d’ amore, del crociato amore del Figliuolo di Dio, seguitando le vestigie di Cristo crocifisso. Perocché noi arbori sterili, senza verun frutto, ci conviene essere uniti con l’arbore fruttifero, cioè Cristo dolce Gesù, come detto è65.
L’immagine della croce è sempre connessa con l’immagine del sangue. Ne abbiamo già parlato affermando che il «prezioso sangue sparto con tanto fuoco d’amore»66 ci libera dai legami del peccato e così dà inizio della vita virtuosa. Adesso aggiungiamo che questo «sangue prezioso» - rendendo fruttuoso l’albero della croce affinché esso porti in noi i frutti delle virtù - rimane sempre la costante sorgente della vita soprannaturale: «[Cristo] tutte le virtù maturò nel sangue suo; e, come arbore di vita, produsse a noi questi frutti delle virtù:, però che dopo la redenzione che ricevemmo nel sangue, e’ frutti delle virtù ci son tutti valuti a vita eterna»67. Soltanto in virtù del sangue può l’uomo esercitarsi con merito nelle «vere e reali virtù» che sono necessarie perché l’anima sia ammessa al banchetto dell’Agnello. Le forze umane saranno fruttuose nella virtù solo se prima vengono affogate nel sangue di Cristo68.
Il sangue ha un ruolo decisivo anche per la geniale immagine del ponte. Leggiamo infatti nel Dialogo che l’anima che cammina sul ponte deve «ponere le pietre delle virtù fondate nel sangue di Cristo, le quali à trovate nell’andare per lo ponte di Cristo crocifisso, unigenito mio Figliuolo. Sí come Io ti dissi, se bene ti ricorda, che sopra del ponte, cioè della dottrina della mia Verità, erano le pietre delle virtù fondate in virtù del sangue suo, perchè le virtù ànno dato vita a voi in virtù d’ esso sangue».69
L’immagine del sangue e della croce viene collegata pure a un’altra immagine biblica che è l’agnello. L’allegoria di una lettera scritta a Giovanna di Conrado a sua volta testimonia che l’esempio delle virtù cristiane sono le virtù dell’Agnello, cioè di Cristo crocifisso che ha dato la sua innocente vita per noi peccatori. L’anima è un giardino che porta frutti buoni delle virtù perché nel centro è piantata la santa croce di Cristo-Agnello che è esempio e fonte d’ogni virtù:
Dirittamente l’ anima allora diventa uno giardino pieno di fiori odoriferi di santo desiderio; e nel mezzo si è piantato l’albore della santissima Croce, dove si riposa l’Agnello immacolato, il quale diriga sangue, bagna e allaga questo dolce e glorioso giardino, e tiene in sè e’ frutti maturi delle vere e reali virtù. Se volete patientia, ine è fondata mansuetudine, in tanto che non è udito il grido suo dell’Agnello per neuna mormorazione; umilità profonda, vedendo Dio umiliato all’uomo, il Verbo umiliato all’obrobiosa morte della croce. Se carità, egli è essa carità [...]70.
Chi non segue Cristo crocifisso, non lo segue perché cammina sulla strada dei vizi: «chi nol seguita per la via delle virtù, essofatto il perseguita col vizio»71. Senza le virtù però non c’è vera vita, ma morte.
Credo bene, che coloro che sono innestati e legati nell’arbore morto del dimonio e nell’ amore proprio di sé, nelle delizie, stati e ricchezze del mondo, fondati nella perversa superbia e vanità sua; oimè, che questi sieno quelli che sono privati della vita, e sono fatti non tanto che arbori sterili, ma essi sono arbori morti; e, mangiando il frutto loro, conduce nella morte eternale; perocché i frutti loro sono i vizii e i peccati. Costoro fuggono la via e la dottrina di questo dolce incarnato e amoroso Verbo: essi vanno per la tenebra, cadendo in morte, e in molta miseria72.
L’umile sequela di Cristo crocifisso è l’unica possibilità per arrivare al fine della vita. Questa via però è sicurissima. «Solamente cadiamo quando il fondamento non è bene cavato nella valle dell’umilità, e fondato sopra la viva pietra Cristo dolce Gesù, volendo seguitare le vestigie sue»73.

1.5 Correre morto

Si riveste quindi delle virtù innestandosi nella santissima croce di Cristo crocifisso. Ma come si innesta in questa croce? La stessa lettera indirizzata all’abbate Martino ce lo spiega: quelli infatti che «hanno aperto l’occhio dell’ intelletto; e cognoscono loro non essere, e cognoscono la bontà di Dio in loro, e l’essere, e ogni grazia che è posta sopra l’essere», cominciano amare il buon Dio e odiare tutto quello che li strappa dall’amore di Dio. «Allora cresce un fuoco e uno affetto d’amore, e uno odio e dispiacimento del peccato e della propria sensualità». L’anima che - nel «perfetto lume» della fede74 - ha conoscuiuto la nullità di se medesima e l’infinita bontà di Dio comincia a lavorare con le mani dell’odio e dell’amore: «cavando con le mani dell’odio l’affetto del disordinato amore, il quale è quella terra, che ingombra l’anima; e vuolsi riempire con le pietre delle vere e reali virtù, con la mano dell’amore»75
La via delle virtù quindi, in quanto è la sequela di Cristo crocifisso, comporta la mortificazione delle passioni disordinate e del proprio egoismo. Solo tramite questa mortificazione si acquistano le vere virtù che portano frutti degli atti buoni: «con questo amore e odio, e con vera umilità si innesta nel crociato e consumato amore del Figliuolo di Dio, e produce allora i frutti delle reali virtù, le quali virtù notricano l’ anima sua e del prossimo suo». Di questa mortificazine parla Dio Padre mentre rivela che non basta «mortificare il corpo con le molte penitenzie senza uccidere la propria volontà»76. L’odio santo è lo strumento nella mano della libertà umana, con il quale si uccide la propria volontà disordinata che si ribella contro la santa volonta di Dio. Questo uccidere è una lotta lunga e dura, ma la «morte della propria volntà» è la prima condizione del progresso nella virtù, senza la quale non esiste neanche amore autentico. Caterina in questo senso desidera nella persona di frate Francesco Tebaldi «avere uno figliuolo che viva morto»; per questo sollecita questo suo discepolo con le parole seguenti: «corriate morto per la via della perfezione»77. D’altronde la Santa non fa altro che invitare il suo discepolo alla stessa lotta a cui lei stessa è chiamata da Dio Padre con queste parole del Dialogo: «Corre per questa strada della verità, morta, acciò che non sia poi ripresa andando tu lentamente»78.
La via della vita virtuosa - senza dubbio - consiste nel combattimento contro ogni tendenza dell’anima che si oppone alla dolce volontà di Dio. Si tratta di una fatica quotidiana e duratura che mira a rinunciare sempre più perfettamente alla propria volontà. Non conviene allora dormire «nel sonno della negligenzia», ma si deve essere solleciti perché «il tempo è breve, e ‘l cammino è lungo.»79 Vale la pena di leggere su questo tema la Orazione XXI, in cui Caterina esprime, a modo suo, la verità evangelica: se qualcuno vuol andare dietro a Gesù Cristo, deve rinnegare se stesso80. Caterina anche qui applica un’immagine, in quanto l’uomo deve spogliarsi della propria cattiva volontà e rivestirsi della volontà di Dio:
Deità eterna, o alta eterna Deità, amore insetimabile! [...] La verità tua dimostra che sì come l’uomo si trae il vestito rovescio, così l’anima si debba spogliare della sua propria volontà se perfettamente si vuole rivestire della tua. [...] O fetido vestimento della volontà nostra, tu non ricopri, ma scopri l’anima. O volontà spogliata, o arra di vita eterna! Tu sei fedele fino alla morte, non al mondo ma al tuo dolcissimo Creatore; tu leghi l’anima in lui perché in tutto s’è sciolta da sé.81.
La propria volontà quindi è un vestito al rovescio da rivoltare. Notiamo però che Caterina sotto il «fetido vestimento della volontà» non intende la volontà in sé che è un segno della dignità dell’uomo creato all’immagine del suo Creatore. L’espressione della «propria perverasa volontà» indica infatti la volontà in quanto è disordinatamente sottoposta ai desideri egoistici e alle tendenze devianti della persona.
Qual è il segno dimostrativo di questo, cioè che l’anima sia libera dal dominio dei desideri cattivi, cioè «è perfettamente sciolta da se medesima»? Il segno è che «non cerca tempo né luogo a modo suo», ma in ogni cosa cerca di compiere la volontà di Dio, in tale tempo e in tale modo come piace a Dio.
Pure nel Dialogo possiamo leggere che solo quelli sono vestiti delle vere virtù e uniti con Dio per amore ché hanno rinnegato la loro volontà: «E però ti dico che se tu dimandassi me chi sono costoro, rispondarei - diceva el dolce e amoroso Verbo - sono un altro me; perché ànno perduta e annegata la volontà loro propria, e vestitisi e unitisi e conformatisi con la mia»82. Qui si vede che la mortificazione della propria volontà - appunto per l’esercizio delle virtù - non è un moto puramente negativo, anzi questa mortificazione serve essenzialmente per immedesimarsi - non solo con la volontà divina, ma - con Cristo stesso, Verbo incarnato. Il brano dimostra pure che proprio in questa mortificazione della volontà si effettua la sequela di Cristo che è l’unico modo di compiere la verità di Dio e quella dell’uomo: «questa è la via; altra via non ci è»83.
Caterina quindi desidera di vedere tutti noi «innestato nell’arbore della santissima croce», poiché senza la «perfetta unione» che ci lega a Cristo «non possiamo giugnere a quello fine per lo quale fummo creati»84. Benché sia evidente che questa unione non si realizza senza pena, tuttavia la Santa insegna dell’anima perfettamente unita con Cristo: «Non mi maraviglio se ella è privata della pena, però che ella à tolto da sé quella cosa che dà pena, cioè la propria volontà fondata nell’ amore proprio, e vestito della volontà di Dio, fondata in carità»85.
A questo punto conviene aggiungere qualcosa a quella definizione di virtù che abbiamo dato nel primo capitolo. Abbiamo infatti descritto la concezione della virtù secondo Santa Caterina affermando che le virtù sono perfezioni della persona che la rendono forte e la ordinano verso il vero scopo della sua vita, il quale è la partecipazione della vita di Dio. Adesso sottolineamo però che la via della virtù è insieme faticosa e facile, appartiene cioè alla natura della virtù - anche se il suo esercizio è sempre partecipazione della croce di Cristo - che dà gioia nel fare il bene, soprattutto quando ci si è già esercitati «per alcuno spazio di tempo nella virtù»86. La via delle virtù allora è la via della beatitudine, non solo in quanto porta alla felicità futura e definitiva, ma anche perché rende felice chi la esercita. Secondo la Santa vale la pena che l’uomo prenda la faticosa strada della virtù poiché «vivere virtuosamente gli dà sempre letizia, pace con Dio e pace con prossimo»87. Così che i veri discepoli di Cristo crocifisso «corrono come ebbri del sangue di Cristo, [...] non corrono per la via delle virtù a loro modo; anzi a modo di Cristo crocifisso, seguitando le vestigie sue. E se gli fusse possibile servire a Dio ed acquistare le virtù senza fatica, non le vogliono»88.
Nell’insegnamento cateriniano sono due i motivi della gioia di chi cammina sulla strada ardua dell’umiltà, dell’amore, della pazienza, dell’obbedienza, ecc. Il primo è il progresso nella mortificazione, il secondo è la dolce unione con Cristo. Certo infatti è che se ci si abitua ad agire secondo il giudizio della giusta ragione illuminata dalla fede obbedendo alla coscienza, mano a mano, trova sempre meno resistenza nella proria natura, così che con serenità e con facilità può compiere gli atti della virtù. La virtù allora facilita la sequela di Cristo, sì che il seguace perseverante prova meno pena, anzi gioia, nell’osservare i comandamenti ed i consigli, nel praticare le buone azioni. Tuttavia il secondo e principale motivo per cui il giogo diventa dolce e il carico leggero89 è che mortificata la propria volontà, si unisce con Cristo stesso nell’amore. L’unione fra l’anima e Cristo con il tempo diventa sempre più perfetta per l’amore provato. Chi è unito con Cristo, è beato per l’amore che unisce, anche se l’aumento di questo amore non diminuisce la sofferenza, anzi l’aumenta. Di questa coincidenza dell’amore con il dolore parla Dio Padre nel Dialogo dicendo che nel sangue di Cristo si accende amore e dolore:
Allora l’ anima s’ accenderà in questo cognoscimento di me con uno amore ineffabile, per lo quale amore sta in continua pena, non pena affligitiva, che affligga nè disecchi l’ anima, anco la ingrassa; ma perchè à cognosciuta la mia verità e la propria colpa sua e la ingratitudine e cechità del prossimo, à pena intollerabile; e però si duole perchè m’ama, che se ella non m’amasse non si dorrebbe90.
Caterina tante volte si riferisce al mistero della lieta sofferenza con il concetto «dolcezza». La pazienza, ad esempio, benché sia la tipica virtù del sofferente, per lei, è dolce. Il ponte che il simbolo di Cristo crocifisso è dolce come pure la croce stessa é dolce. Parla del dolce sangue di Cristo, della dolce amaritudine dell’anima perfetta, delle lacrime di grande dolcezza, di colui che con dolcezza piange ecc. In ultima analisi tutte le veri e reali virtù sono dolci, cioè comportano una gioia reale e profonda perché rendono l’uomo vero amico di Cristo. Quindi se il cristiano non camminasse nella sassosa strada delle virtù sarebbe «in tristizia, perché il gaudio della grazia non sarebbe in»91 lui.
Tutti quelli che vogliono raggiungere la vita, devono camminare sulla via tracciata da Cristo, prendendo la propria croce ogni giorno92. La resurrezione, cioè la sequela del Padre, sarà il frutto appunto della sequela del Crocifisso. Perché? La risposta si trova nella santa volontà di Dio: «[a Dio] piace e vuole essere seguitato per la via della croce». La volontà divina è il principio dei principi; non esiste cioè alcuna causa dalla quale dipenderebbe la decisione di tale volontà. Il cristiano riconoscendo in ogni cosa l’amorosa volontà di Dio, non si lamenta per le fatiche e sofferenze, anzi «è contento e gode di ciò che Dio permette, o per infermità o per paura o ingiuria o villania, o obedientzia incomportabile e indiscreta. D’ogni cosa gode e esulta; e vede che Dio il permette per sua utilità e perfezione»93. Quindi nonostante tutte le pene «è grande consolazione il vivere bene e virtuosamente»94

1.6 Le lacrime dell’amore

Parlando della sofferenza che dà gioia non possiamo fare a meno di riportare la dottrina delle lacrime di Santa Caterina, poiché il linguaggio delle immagini pure a questo punto sembra adattissimo per esprimere un mistero. Il pianto è causato sempre dalla sofferenza, tuttavia anche gli amici di Dio piangono. Anzi sulla terra - in quanto l’amore non é senza dolore - sono gli amanti del buon Dio che piangono di più, ma con lacrime perfette che non hanno niente a che fare con le lacrime della disperazione. Queste lacrime dei beati sono lacrime «dell’unitivo stato», dove «l’anima sta beata e dolorosa»95
Questa trattazione del Dialogo96 ripercorre l’itinerario del ponte in chiave di sofferenza.
Apre bene l’ occhio dell’intelletto e mostrarotti, per li detti stati dell’anima che contati t’ò, le lagrime imperfette fondate nel timore. E prima, delle lagrime degli iniqui uomini del mondo. Queste sono lagrime di dannazione. Le seconde sono quelle del timore, di coloro che si levano dal peccato per timore della pena, e per timore piangono. Le terze sono di coloro che, levati dal peccato, cominciano a gustare me, e con dolcezza piangono e comincianmi a servire; ma perchè è imperfetto l’ amore è imperfetto il pianto, sí come Io ti narrarò. Il quarto stato è di coloro che giunti sono a perfezione nella carità del prossimo, amando me senza veruno rispetto di sè. Costoro piangono e il pianto loro è perfetto. Il quinto, che è unito col quarto, sono lagrime di dolcezza gittate con grande suavità.97
«ogni lagrima procede dal cuore, però che nullo membro è nel corpo che voglia satisfare al cuore quanto l’occhio»98. La gradualità della perfezione nell’allegoria del ponte concerne la dottrina cateriniana sulle lacrime, dove si distinguono cinque tipi di lacrime. Il fiume - che è l’immagine della schiavitù del peccato - è conforme alle lacrime di morte spirituale o di dannazione. Il primo gradino del Ponte è conforme alle lacrime di timore servile (che sono già le lacrime di vita). Il secondo gradino del Ponte è conforme alle lacrime di pianto sensitivo spirituale; il terzo gradino è conforme alle lacrime perfette, cioè le lacrime di affetto filiale e quelle di fuoco.
E così con questo lume si veste di fuoco. A mano a mano séguita la lagrima; perché l’occhio, quando sente il dolore del cuore, gli vuole satisfare, e geme, siccome il legno verde quando è messo nel fuoco, che per lo grando valore gitta l’acqua. Così l’anima che sente il fuoco della divina carità, il desiderio e l’affetto suo stanno nel fuoco, e l’occhio piange mostrando di fuore quella particella che gli è possibile di quello che è dentro99.
Se il piangere non è necessariamente segno della disperazione, anzi può essere un espressione dell’amore perfetto si capisce l’invito del Dialogo: «Ora t’invito ad pianto, te e gli altri servi miei»100. Chi ama, piange.
La dottrina delle lacrime sottolinea la verità dell’amore che é sacrificio. E’ da notare però che Santa Caterina non solo con i suoi scritti, ma con tutta la sua vita dà testimonianza del sacrificio di amore. La mistica senese infatti fu consegnata in maniera inconfondibile col segno della croce. La sua vita è una vita di sofferenza per le anime.101 Una vita breve: serie delle sofferenze naturali e soprannaturali (malattie, incomprensioni, congiure, infermità corporale, le stimmate, le tentazioni e disturbi del diavolo, la corona di spine...)
A Santa Caterina la dottrina delle lacrime - come tante altre cose - l’ha insegnata la prima e dolce Verità. Questo ammaestramento è stato aiutato dai santi che «nelle valle di lacrime»102piangono con pianto dello Spirito. Se diamo una occhiata all’afresco della Crocifissione nel refettorio di San Marco a Firenze, vediamo che Beato Angelico - pittore della dottrina cateriniana103 - ha dipinto proprio quei santi, che contemplando Cristo crocifisso, tutti piangono con perfetto pianto dell’amore.
Beato Raimondo racconta che la cella di Santa Caterina - quella interiore come quella esteriore - è stato proprio il paradiso nel senso che la Santa godeva la dolce compania degli abitanti del cielo. Mentre pregava erano presenti - accompagnando il «dolce Figliuolo di Dio» - diversi santi: prima di Tutto la Regina dolce Maria, Maria Maddalena, San Pietro e San Paolo apostoli, come pure San Giovanni evangelista ed altri104.
Questi santi hanno insegnato a Santa Caterina la dottrina misteriosa del pianto, ma fra di loro la prima maestra - evidentemente - è stata la Madre delle lacrime, quella Mater Dolorosa Lacrimosa che iuxta crucem stabat, dum pendebat Filius105.
Ha «imparato» questa dottrina da Santa Maria Maddalena, a cui il Signore l’ha affidata: « “Dolcissima Figliuola, a maggiore tua consolazione ti dò per Madre Maria Maddalena. Ricorri a lei con tutta fiducia: affido a lei una cura speciale di te» ... Da quel momento la vergine si sentì tutta con Maddalena, e sempre la chiamava sua madre.»106
Maria Maddalena che ha bagnato i piedi del Signore con le sue lacrime107 , ha esperimentato, «che l’anima passa agli stati con lagrime»108, cioè si passa piangendo agli diversi stati del dolore che si sente per la colpa, si passa con pianto ai diversi gradi della conoscienza di sé e di Dio. E Maria Maddalena «che piangendo se ne stava fuori presso il sepolcro di Gesù»109, conosce bene le lacrime di quella sposa che dice «nel cuor della notte, cercai l’amato dell’anima mia; lo cercai e non lo trovai.»110
San Paolo ha insegnato a Santa Caterina «piangere con chi piange»111 e scrivere e pregare «fra molte lagrime»112.
E pure il dolce apostolo San Pietro, le ha insegnato a piangere per l’infedeltà113.
Tuttavia per il fatto che «ogni lacrima procede dal cuore»114 il maestro principale di Santa Caterina in questa materia è stato il Signore stesso, Gesù Cristo che ha concesso a Santa Caterina il proprio cuore115, quel cuore che accanto il sepolcro dell’amico Lazaro «lacrimatus est»116. Il cuore di Gesù ha pianto: «Detto t’ò delle lagrime perfette e imperfette, e come tutte escono del cuore. E di questo vasello esce ogni lagrima di qualunque ragione si sia, e però tutte si possono chiamare «lagrime cordiali»: solo sta la differenzia nell’ordinato o disordinato amore e ne l’amore perfetto o imperfetto».117
Poiché questo cuore sacrissimo è «fornace del fuoco della divina Carità»118, Santa Caterina poteva attingere a questo cuore l’insegnamento delle «lacrime di fuoco».
uno pianto di fuoco, cioè di vero e santo desiderio, il quale si consuma per affetto d’ amore. Vorrebbe dissolvere la vita sua in pianto per odio di sè e salute dell’ anime, e non pare che possa. Dico che costoro ànno lagrima di fuoco, in cui piagne lo Spirito santo dinanzi a me per loro e per lo prossimo loro, cioè dico che la divina mia carità accende con la sua fiamma l’anima che offera ansietati desideri dinanzi a me, senza lagrima d’occhio. Dico che queste sono lagrime di fuoco: per questo modo dicevo che lo Spirito santo piagne. Questo non potendo fare con lagrime, offera desideri di volontà che à del pianto, per amore di me. Benchè, se aprono l’occhio de l’intelletto, vedranno che ogni servo mio che gitta odore di santo desiderio ed umili e continue orazioni dinanzi da me, piagne lo Spirito santo per mezzo di lui. A questo modo parve che volesse dire il glorioso apostolo Paulo, quando disse che lo Spirito santo piagneva dinanzi a me, Padre, «con gemito inenarrabile» per voi.119
Benchè nel Dialogo si trovi un trattato intero sulle lacrime, queste tuttavia hanno anche nelle Lettere un ruolo significativo, come compagne della preghiera continua e del desiderio santo. La bevanda dell’amatore della virtù è la lacrima. La lacrima diventa alimento di colui che ama Dio: «Fuerunt mihi lacrimae meae panes die ac nocte» 120, ma questo pianto è dolce e dà gioia. Scrive in una Lettera Santa Caterina: «Facendo così, l’amaritudine vi sarà dolcezza e refrigerio, offrendo lagrime, con dolci sospiri per ansietato desiderio, per le miserabili pecorelle, che stanno nelle mani delle dimonia. Allora i sospiri vi saranno cibo, e le lagrime beveraggio».121 Come leggiamo nei Salmi: «cibabis nos pane lacrimarum et potum dabis nobis in lacrimis in mensura»122. C’è un altro versetto del Salterio che risuona nelle Lettere: «Exitus aquarum deduxerunt oculi mei, quia non custodierunt legem tuam»123 Si legge infatti in Santa Caterina che «Dissolvasi dunque la vita nostra, diamo agli occhi nostri fiumi di lagrime; mugghi il desiderio sopra questi morti, acciocché si partano dalla morte e giungano alla vita.»124
Queste lacrime versate nel fuoco dell’amor divino eliminano le colpe.125 La Chiesa sarà rinnovata per le lacrime dei servi di Dio:
Figliuola mia dolcissima, vedi come ha lordata la faccia sua con la immundizia e con l’amor proprio, ed enfiata per superbia ed avarizia di coloro che si pascono al petto suo. Ma tolli le lagrime e le sudore tuo, e tràle dalla fontana della divina mia carità, e lavale la faccia. Perocché io ti prometto che non le sarà renduto la bellezza sua con coltello, ne con crudelità, né con querra, ma con la pace, e umili e continui orazioni, sudori e lagrime, gittate con ansietato desiderio de’ servi miei. E così adempirò il desiderio tuo con molto sostenere; e in neuna cosa vi mancarà la mia provvidenzia.126
Per questo «Non dobbiamo terminare la vita nostra altro che in pianto e amaritudine»127.


2. La realizzazione della sequela di Cristo crocifisso

2.1 Conoscere per meglio amare

Senza virtù non ci si salva. Le virtù le troviamo in Cristo crocifisso. Dobbiamo seguire lui sulla strada ardua della mortificazione. Si deve combattere contro il proprio egoismo. Ma come prepararci a questa battaglia, cosa dobbiamo fare praticamente se vogliamo vivere la vita di grazia, la vita virtuosa di Cristo?
Abbiamo già menzionato che l’albero di vita ha le sue radici dentro il cerchio della vera conoscenza e che si raggiunge sul ponte riconoscendo la propria nullità e la bontà infinita di Dio.
La conoscenza di sé risultava il principio di ogni progredimento spirituale. Se poniamo dunque una domanda a Caterina sulla vita giusta, ella risulta socratica nella sua risposta128: la conoscenza di sé costituisce il fondamento della vita morale. Tale conoscimento è il primo passo che l’anima muove per il perseguimento della santità.
Quelli che vogliono passare allo stato perfetto «debbono entrare e rinchiudersi in casa, cioè nella casa del cognoscimento di loro medesimi, che è quella cella nella quale l’anima debbe abitare»129. Ma questa conoscenza di sé ha senso perché porta all’amore di Dio Anzi ogni conoscenza serve per l’amore più perfetto. Si deve conoscere la bontà di Dio per meglio amarla, ma non si riconosce l’infinità bontà del Creatore se non attraverso la conoscenza di sé. Ciò viene espresso nella rivelazione della Prima Verità nel Dialogo: « [...]dimandi di volere cognoscere e amare me che so’ somma Verità. Questa è la via a volere venire a perfetto cognoscimento e gustare me, Vita eterna: che tu non esca mai del cognoscimento di te; e abbassata che tu se’ nella valle dell’ umilità, e tu cognosce me in te, del quale cognoscimento trarai quello che ti bisogna ed è necessario.»130
Dunque la conoscenza di sé va sempre condita dalla conoscenza di Dio: «al cognoscimento della verità si viene per lo cognoscimento di te: non puro cognoscimento di te, ma condito e unito col cognoscimento di Me in te»131. La fonte dell’amore e tutte le virtù connesse ad esso si trovano infatti «nel cognoscimento che aviamo di Dio, quando col lume l’anima raguardasé essere amata inestimabilmente da lui"132.
La vera conoscenza di sé Santa Caterina la paragona a una casa o a una cella dove ci conviene sempre abitare. Questa dimora però porta a meglio conoscere non solo la verità su di sé ma anche su Dio. Infatti la santa senese in una sua lettera della cella della conocsenza di sé che l’anima in questa «cella truova un’altra cella, cioè la cella del cognoscimento della bontà di Dio in sé»133.
Oltre a parlare della cella, Santa Caterina paragona questo principio della conoscenza - «a un pozzo che tiene in sé l’acqua e la terra, cioè l’acqua della grazia divina e la terra della natura nostra; a due cerchi, o sfere, concentrici: immagini queste ultime, che servono a illustrare la necessità in cui siamo d’integrare la conoscenza di noi con la conoscenza di Dio, e la conoscenza di Dio con quella di noi» 134.
Questa conoscenza provoca l’amore: «colui che cognosce sé, cognosce Dio e la bontà di Dio in sé; e però l’ama»135. Questa conoscenza conduce alle vere e reali virtù e singolarmente alla virtù dell’umiltà, e dell’ardentissima carità. L’ umiltà a sua volta è balia e nutrice della carità, l’anima infatti conoscendo la sua imperfezione, conoscendo che tutto quello che ha (anche l’essere suo), l’ha avuto da Dio, si umilia ed «acquista vera e perfetta carità amando Dio con tutto il cuore e tutto l’affetto, e con tutta l’anima sua»136.
Il vero «cognoscimento» a cui ci invita Santa Caterina non è affatto una conoscenza meramente filosofica, ma è un frutto della ragione illuminata dallo Spirito Santo. In questo senso dice Caterina che la cella (o la casa) del conoscimento di sé, è il «luogo» dove la fede irradia la sua luce137. Il «lume» perfetto della fede perfeziona quello naturale della ragione138. La fede è una virtù fondamentale, perché è una condizione per avere le altre virtù. Lo dichiara Caterina inequivocabilmente: «Il primo, dico che ci conviene avere il lume della Fede, nel quale lume della Fede santa acquisteremo ogni virtù; e senza questo lume anderemo in tenebre...»139.
D’altronde è logico che senza la luce soprannaturale della fede non si può sviluppare compiutamente la vita virtuosa che è una reale partecipazione alla vita divina per mezzo della grazia140. Per comprendere l’importanza della vera luce che fa vedere la verità leggiamo cosa insegna la prima Verità a Santa Caterina sulla miseria di quelli che non ce l’hanno per colpa loro:
non vede nè cognosce sè medesimo non essere, nè i difetti suoi che egli à commessi, nè cognosce la bontà mia in sè, donde à avuto l’essere e ogni grazia che è posta sopra l’ essere. Non cognoscendo me nè sè, non odia in sè la propria sensualità anco l’ ama, cercando di satisfare all’ appetito suo, e cosí parturisce i figliuoli morti di molti peccati mortali. Nè me non ama: non amando me, non ama quello che Io amo, cioè il prossimo suo; non si diletta d’aoperare quello che mi piace, ciò sono le vere e reali virtù, le quali mi piacciono di vedere in voi.141
Conoscere, volere, fare: la vita di Caterina non ha mai conosciuto alternativa a questa logica concatenazione. Non si può amare se non ciò che si è veduto, e perciò la luce è il punto di partenza di tutto l’itinerario spirituale. Tutta la questione dell’acquisto delle virtù è per Santa Caterina una questione di Luce. La perfetta luce della fede cresce esercitando la luce della ragione. La ragione è una facoltà nobilissima che può, anzi deve legare il libero arbitrio. Decidersi per la ragione, infatti, significa, in ultima istanza, decidersi per Dio in quanto la ragione è strettamente legata a Lui: «Voi avete la ragione legata in me»142 dice il Dio Padre nel Dialogo. La virtù non è per lei abitudine per bene, acquistata attraverso la ripetizione quasi meccanica da atti buoni, ma decisione ferma della volontà nel volere il bene conosciuto alla luce della Fede».143
Nel Dialogo troviamo un trattato - dai capitoli XCVIII. fino ai CVIII. - che porta il titolo: La dottrina della luce. Pure Le Orazioni portano ripetutamente questo concetto della luce144. Ma anche nelle Lettere questo «lume» risulta il fondamento di ogni perfezione. Adesso solo per dimostrare l’importanza della luce in cui si riconosce la verità di sé e quella di Dio, vediamo un brano da una lettera, scritta a un domenicano che è uscito dall’ordine:
O carissimo figliuolo, quanto c’ è necessario questo lume! Perocché in esso si contiene la salute nostra. O carissimo figliuolo, io non veggo che noi potiamo avere il detto lume dell’intelletto senza la pupilla della santissima fede, la quale sta dentro nell’ occhio. E se questo lume è offuscato, o intenebrito dall’amore proprio di noi medesimi; l’occhio non ha lume, e però non vede: onde non vedendo, non cognosce la verità. Convienci dunque levare questa nebula, acciocché ‘l vedere rimanga chiaro. Ma con che si dissolve, e leva questa nebula? con l’ odio santo di noi medesimi, cognoscendo le colpe nostre, e cognoscendo la larghezza della divina Bontà, come adopera verso di voi. [...] Questo cognoscimento che l’ uomo ha di sé, germina umilità profonda. E’ non leva il capo per superbia, ma sempre più s’ umilia. E per lo cognoscimento della bontà di Dio in sé, si notrica, e cresce nell’ affettuosa carità; la quale carità notricata dalla umilità, ha il figliuolo della vera discrezione. Onde discretamente rende il debito suo a Dio, rendendo, laude e gloria al nome suo; e a sé rende odio e dispiacimento della propria sensualità, e al prossimo rende la benivolenzia, amandolo come si debbe amare, con carità fraterna, libera, ed ordinata, e non finta né senza ordine. Perocché la virtù della discrezione ha la radice sua nella carità; e non è altro che un vero cognoscimento che l’ anima ha di sé, e di Dio. Onde a mano a mano rende a ciascuno il debito suo. Ma non senza il lume; perocché, se non avesse il lume, ogni suo principio e operazione sarebbe imperfetta. [...] va col lume; ed essendo nel mare tempestoso, gusta e riceve in sé pace.145
Basta questa citazione perché siamo persuasi anche noi che dal terreno incluso nel cerchio del duplice conoscimento germoglia l’albero dell’amore con tutte le altre virtù; questo albero quanto più s’innalza, tanto più affonda le radici in quel terreno da cui trae la sua linfa vitale146. Nella luce si vede, vedendo conosce e conoscendo odia e ama. L’uomo con odio libera sé stesso dal disordinato amore che è la terra che ingombra l’anima e con amore ed affogato desiderio riempie l’anima sua con le pietre della virtù.147
Ma che cosa nasconde questa immagine del lume della fede, e perché è così necessario per le virtù? La Cavallini ci spiega: «Come senza luce l’occhio non vede, così senza un termine di riferimento l’uomo non può dare di sé un giudizio vero, e oscilla tra il credersi ninte meno che Dio e il credersi ninte più che un animale. In uno spirito che non sa svincolarsi dallo spazio compreso tra i due estremi opposti della presunzione e dell’avvilimento, non c’è posto per il desiderio della virtù»148.
Attingendo alla ricchezza della dottrina cateriniana, dopo aver trattato l’importanza nel cammino spirituale di quella luce che comporta la vera conoscenza di sé e di Dio, possiamo definire da questo punto di vista - con le parole di Santa Caterina - l’uomo virtuoso. Il virtuoso è quella persona che ha «ordinato sé col lume della fede»149. Essere virtuoso significa appunto la giusta ordinazione degli atti e dei desideri dell’anima e del corpo secondo la verità.

2.2 L’orazione, madre delle virtù

L’amore segue immediatamente ed inesorabilmente alla conoscenza, se il bene riconosciuto è il bene perfetto, che appaga l’anima totalmente. «La cosa che non si vede non si può conoscere»150, ma la luce della fede ci fa conoscere la perfezione che dobbiamo raggiungere e l’orazione è quel mezzo che ci trasmette la luce della fede. Questa luce ci fa vedere il nostro essere in profondo, perchè possiamo conoscere noi stessi in verità. Di conseguenza la preghiera gioca un ruolo importantissimo per avere le virtù: «L’orazione è quella madre che nella carità di Dio concepe le vere virtù, e nella carità del prossimo le parturisce»151.
Santa Caterina esorta «Piglia bene l’arme dell’umile continua e fedele orazione». Perché è così importante la preghiera? Perché «l’orazione è una madre vestita di fuoco e inebriata di sangue», cioè vestita del fuoco della carità divina ed inebriata del sangue redentore di Cristo crocifisso; è una madre che proprio per la grazia di cui diventa mediatrice «notrica al petto suo i figliuoli delle virtù»152.
Sotto il termine «orazione» generalmente intendiamo il dialogo con Dio153. Ma come definisce il mistero della preghiera la nostra santa? Cosa è l’orazione che è madre? Santa Caterina anche a questo punto utilizza un’immagine: l’orazione è un attaccamento al petto della divina carità. Ella scrive infatti a una superiora: non si può crescere nelle virtù «se non s’attacca al petto della divina carità, da qual petto si trae il latte della divina dolcezza»154.
Questo attaccamento alla divina carità inizialmente è un semplice desiderio di Dio dato da Lui all’anima prima che questa possa pensare di chiederlo, desiderio che si precisa e si acquisisce quando l’anima, guardando in sé, scopre la propria miseria e intuisce il bisogno che ha del aiuto155. Questo desiderio però trova il suo oggetto nella persona di Gesù Cristo. La mistica senese continua la sua lettera in questo senso: «A noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo, il quale volendo prendere il latte, prende la mammella della madre, e mettessela in bocca; onde col mezzo della carne trae a sé il latte: e così dobbiamo fare noi, se vogliamo notricare l’anima nostra. Perocché ci dobbiamo attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità.»156 Per Santa Caterina non esiste preghiera se non per Cristo, l’Amore incarnato: «col mezzo della carne sua trarremo il latte che notrica l’anima nostra, e’ figliuoli delle virtù: cioè per mezzo dell’umanità di Cristo»157. Si scorge che non abbiamo esagerato per niente affermando che Santa Caterina vede proprio tutto in Cristo crocifisso. Se esiste nel cuore umano il desiderio di Dio, ciò esiste e si compie per il Crocifisso.
La cognizione dell’amore di Dio è che aiuta la persona a riconoscere la propria verità e a comportarsi di conseguenza158. Questo amore divino però si é manifestato in Cristo crocifisso. Perciò dice Santa Caterina: «l’ occhio dell’ intelletto non si veda mai serrare, ma sempre debba stare aperto nel suo obietto e amore ineffabile, Cristo crocifisso: e ivi truova l’amore, e la colpa sua propria»159. Appunto per questo il desiderio di Dio si esprime poi in quelle semplici, elementari preghiere che - sappiamo dal Vangelo - hanno ottenuto miracoli: «Signore, se vuoi... Signore, che io veda». «L’umiltà di questa semplice preghiera ci apre gli occhi alle realtà sopranaturali e ci conduce ai piedi della Coroce per cominciarvi la nostra ascesa Spirituale; poi ci aiuta ad approfondire e amare il mistero dell’amore che si rivela del dolore, e a volere ciò che esso esige da noi.»160
La luce presa da Cristo nell’orazione ci aiuta a vedere su quale strada dobbiamo camminare, ed a controllare le eventuali deviazioni dalla via retta, inoltre per trovare le radici dei vizi. Perciò dice la Santa: «veruna virtù à in sé vita, se non è fatta ed esercitata nell’anima col lume della verità»161 La luce della verità di Cristo crocifisso illumina talmente l’anima che ella non può non umiliarsi davanti al suo Dio amandolo e pregandolo. Caterina spiega a frate Francesco di Tolomei che l’anima trova il fondamento di tutte le virtù in quella duplice conoscenza che è nello stesso tempo frutto e fonte dell’orazione:
dal cognoscimento di sé trae una vera umilità, con odio santo dell’ offesa che ha fatta e fa al suo Creatore; e per questo viene a vera e perfetta pazienzia. E’ nel cognoscimento di Dio, che ha truovato in sé, acquista la virtù dell’ardentissima carità: onde trae santi e amorosi desiderii. E per questo modo truova la vigilia e continua orazione; Allora l’anima si leva con grandissimo affetto ad amare quello che Dio ama, e ad odiare quello che egli odia. E tutte le sue operazioni drizza in Dio, e ogni cosa fa a gloria e loda del nome suo.162
Santa Caterina apprezza molto la capacità dell’uomo di poter vedere la verità. L’anima non solo può, ma ha bisogno di vedere per poter amare; l’amore però segue immediatamente, inesorabilmente, alla vista se il bene veduto è il bene perfetto che appaga l’anima totalmente163. Questo bene perfetto lo vediamo in Dio per Cristo crocifisso. Questa è la verità da conoscere e da ammirare per mezzo dell’orazione umile e perseverante. L’orazione - come l’intende Santa Caterina - abraccia tutta la vita, nella triplice denominazione di orazione vocale, orazione mentale, e orazione della buona volontà. Quando Santa Caterina dice che l’orazione genera e conduce a perfezione le virtù, si riferisce principalmente alla orazione vocale e alla orazione mentale164. Se l’anima pone «il cuore e la mente in Cristo crocifisso», la sua preghiera diventa veramente «quella madre che nella carità di Dio concepe le virtù, e nella carità del prossimo le parturisce»165. L’anima inginocchiata ai piedi della croce si affida all’orazione per entrare in contatto con il Maestro delle virtù: «quanto più ci accostiamo a Dio, più participiamo della sua bontà, e più sentiamo l’odore delle virtù; perché solo egli è il maestro dell virtù: e da lui le riceviamo, e l’orazione è quella che ci unisce col sommo Bene»166.
Si scorge subito l’importanza e la nobiltà della preghiera se si considera il fatto che l’anima che prega, contemplando ai piedi della croce l’amore «crociato», concepisce l’amore, ma pregando con desiderio per la salvezza dei fratelli, già pratica, cioè partorisce l’amore.
La preghiera è il mezzo per cui l’anima si accosta a Cristo crocifisso ed impara «a spogliarsi di sé, e vestirsi di» Lui167. Ne fa testimonianza già la seconda frase del Dialogo affermando che «in veruno modo gusta tanto ed è alluminata d’ essa verità quanto col mezo dell’orazione umile e continua, fondata nel cognoscimento di sé e di Dio, però che l’ orazione, esercitandola per lo modo detto, unisce l’ anima in Dio seguitando le vestigie di Cristo crocifisso, e cosí per desiderio, affetto e unione l’ amore ne fa un’ altro sè»168. Ora il primo ufficio dell’orazione è di farci conoscere le virtù nel divino esemplare di Cristo crocifisso e condurci a desiderare di riprodurrlo in noi. L’anima che la grazia conduce a Cristo crocifisso, leva a Lui uno sguardo desideroso di sapere e Cristo ci insegna dalla cattedra della croce quella divina carità che comprende ogni altra virtù169.
È vero che l’orazione è fondamentale nell’acquisto delle virtù, ma chi dimora nella cella del conoscimento di sé è come se pregasse già. Anzi, prega senza intermissione. Questo è la preghiera continua che è tale poiché non cessa mai la sua causa: il santo desiderio.

2.3 Il santo desiderio

Il desiderio é un’espressione essenziale170 in quanto tutta la fatica dell’uomo vale «per la virtù del desiderio dell’ anima, sì come il desiderio ed ogni virtù vale e à in sé vita per Cristo crocifisso unigenito mio figliuolo, in quanto l’anima à tratto l’amore da lui e con virtù seguita il vestigie sue»171. In virtù del desiderio tutte le azioni dell’uomo diventano «uno continuo orare».172
Tale desiderio, che è fonte di orazione continua, anzi è la stessa orazione, deve rimanere sempre nella casa dell’anima173. Il concetto del desiderio santo sottolinea la caratteristica dinamica dell’amore. Nell’amore c’é un dinamismo che non si quieta finché non abbia raggiunto il suo oggetto174. Si stabilisce un ciclo perenne tra desiderio e conoscenza perché come dalla luce della conosceza è partita la scintilla che ha acceso il fuoco dell’amore175, così nel santo desiderio dell’amore l’anima trova nuova luce e nella luce nuovo fuoco. «L’anima alluminata a questo venerabile fuoco»176 infatti conosce sempre meglio ed ama di più. Dio é amato perché la luce della fede e della ragione lo ha presentato all’intelletto come bene sommo e perfetto, e la volontà si è trovata quasi costretta all’assenso. Se l’oggetto dell’amore è Dio, il desiderio dell’anima andrà, sì, al momento in cui l’unione con Lui sarà piena, ma insieme si cerca di attuare questa unione sin dalla vita terrena. Questa unione terrena (attraverso le virtù, l’Eucharistia ecc.) é la premessa indispensabile dell’unione perfetta: «In altro modo non potremmo gustarlo nella vita durabile, ne vederlo facia a facia, se prima nol gustassimo per affetto e amore e desiderio in questa vita»177.
Il desiderio è un anticipo della vita eterna in quanto riveste, unisce l’anima con il suo Creatore.178 A questo punto facciamo cenno al fatto che il piangere e desiderare con amore sono quasi sinonimi, cioè in questa vita sono realtà collegate. La lacrima attinge il suo infinito valore dal desiderio infinito che è nel cuore per dono di Dio179. L’anima reca il suo infinito desiderio anche nel regno beato della Carità eterna, ma lascia dietro di sé la «lagrima», cioé il tormento della propria insensibilità all’amore, la pena del male, il timore di non poter raggiungere il Bene amato. Le rimane il desiderio come fame di Dio: fame senza pena.
Sulla croce si incontrano l’amore di Dio e quello dell’uomo, cioè l’attrattiva che ci viene dal divino Crocifisso e il desiderio dell’anima che a quella risponde: «sì come disse la dolce bocca della verità: “Se io sarò levato in alto, ogni cosa trarrò a me”... E veramente, il cuore vulnerato da questa saetta si leva tutta sua forza»180.
Il santo desiderio è quella preghiera continua che proviene dal conoscimento di sé e di Dio e rende tale conoscimento più profondo; il desiderio nasce dall’amore e partorisce l’amore. In ultima analisi questo desiderio-preghiera è quell’omaggio che Dio vuole da noi.181 Questa preghiera non solo continua ma è anche infinita, cioè ha infinito valore. Il desiderio - la causa e sostanza di tale preghiera - infatti è infinito «per l’unione che ha fatta nello infinito desidirio di Dio»182.
Una manifestazione del santo desiderio è l’odio santo, che è altrettanto necessario. Questo odio è quell’atto fondamentale dell’anima di cui già abbiamo parlato dicendo che accompagna il vero amore e combatte contro l’amor proprio. Anche questo santo odio proviene dalla luce, dalla vera conoscenza: «Onde potremo ricevere questo odio? solo dal conoscimento di noi medesime, vedendo noi non essere: el quale tolle ogni superbia e infonde vera umilità.»183Non brama sinceramente la verità e il bene chi non odia la menzogna ed il male. Chi vuol unirsi a Dio necessariamente odia tutto quello che - sia in sé o fuori di sé - impedisce questa unione. Il desiederio santo - se è sincero - comporta un odio santo verso tutto quello che priva dell’oggetto desiderato.
Sembra quindi che il desiderio santo sia il primo passo che l’anima fa sulla via della perfezione, un passo che accompagna la duplice conoscenza di sè. Anzi, pare che il desiderio sia proprio il primo principio della salvezza, in quanto l’anima vedendo la passione di Cristo crocifisso vuol vedere di più. Siamo però davanti a un vero mistero. Benché il desiderio santo sia un moto fondamentale nell’anima grato a Dio, tuttavia non si può dire che solo il desiderio sia il principio della perfezione spirituale. Abbiamo visto infatti che l’Alfa e l’Omega della vita di grazia è il Crocifisso, ma fuori di lui non si può trovare un vero principio che sarebbe principio da ogni punto di vista e avrebbe la spiegazione della sua esistenza in sé.
Il fondamento dell’amore di Dio non è solo il desiderio, o la luce della fede ecc., ma sembra essere una catena che raccoglie più anelli di catena: la duplice conoscenza, il desiderio santo, l’odio santo, l’orazione, e la luce.
Per quanto riguarda la connessione fra i fatti e moti dell’anima sulla strada della perfezione è molto istruttiva un’attenta rilettura della prima frase del Dialogo.
Levandosi una anima ansietata di grandissimo desiderio verso l’onore di Dio e salute dell’anime, esercitatasi per alcuno spazio di tempo nella virtu, abituata e abitata nella cella dell’cognoscimento di sé, per meglio cognoscere la bontà di Dio in sé, perché al cognoscimento seguita l’amore, amando cerca di seguitare e vestirsi della veritá.184
Questa frase - oltre a riassumere i «princìpi» dell’amore di Dio - richiama la nostra attenzione sul fatto che non vi è nell’anima niente di buono se il santo desiderio non la spinge. Ma il brano stesso suggerisce anche che il santo desiderio l’anima non lo possiede se Dio non glielo dona. Siamo veramente nel campo dei veri misteri. Per poter avvicinarci a questo mistero ricordiamo quello che abbiamo detto sulla libertà della creatura. Infatti il «desiderio verso l’onore di Dio e salute dell’anime»185- non senza la libera collaborazine dell’uomo - proviene dallo Spirito dell’Amore. Il cuore della creatura non si può convertire, se non in quanto Dio stesso lo converte e la stessa creatura si forza volontariamente.
Santa Caterina insegna che «l’affetto delle virtù» è il segno più certo che una «visitazione mentale» sia da Dio186. Ciò è così proprio perché un autentico amore verso le vere e reali virtù non può provenire se non da Colui, da cui proviene ogni santo desederio: «lo Spirito santo gli [all’anima] dà amore, il quale consuma e tolle ogni amore sensitivo dell’ anima, e solo gli rimane l’ amore delle virtù.»187Benché l’amore delle virtù sia quel primo atto che dobbiamo al nostro Creatore, senza un aiuto soprannaturale non ce la facciamo.
Santa Caterina scrive ogni sua lettera «con desiderio». Questo desiderio - con il quale la Santa desidera non solo di avere le virtù ma di vedere anche i suoi figli spirituali fondati sulle vere e reali virtù188- è il dono dello Spirito Santo che infiamma e alimenta l’amore di Santa Caterina verso i suoi.
Il desiderio santo, che è il frutto dell’opera dello Spiriro Santo nell’anima, non è solo inizio ma anche compimento. Mentre asseriamo che il desiderio santo è la base delle virtù, non neghiamo che lo stesso desiderio sia una conseguenza della vita virtuosa: quando infatti tutte le facoltà spirituali e corporali sono ordinate per le virtù, si ha una sete, cioè un desiderio, puro e santo dell’onore di Dio e della salvezza del prossimo, come pure un desiderio della virtù stessa: «Allora l’appetito dell’anima si dispone ad avere sete. Sete, dico, della virtù e de l’onore di me e salute dell’anime»189. Applicando questo concetto del desiderio si potrebbe definire lo stato di virtù così: quando per il desiderio santo l’appetito dell’anima si dispone ad avere sete dell’onore di Dio e della salvezza dell’anime. Il desiderio santo quindi è un fatto che è presente in ogni istante della vita spirituale.

2.4 Amare le virtù

Leggendo ancora la prima e fondamentale frase del Dialogo osserviamo una particolarità della dottrina cateriniana. L’anima - benché già da tempo si eserciti nella virtù - cerca di vestirsi della verità. Abbiamo dimostrato nel primo capitolo che cosa il vestirsi nella verità vuol dire: conoscere la verità e conformarsi ad essa appunto per le virtù. L’anima che è abituata a sostare nella cella del conoscimento e a praticare le virtù è già vestita di verità. Tuttavia come la libertà della creatura risulta un cammino verso quella perfetta, così anche il possedere la virtù è piuttosto una mèta, e quello che conta è l’amore di essa. L’anima - di cui parla il proemio del Dialogo - è sulla strada della perfezione, non è perfetta ma cerca di esserlo: non possiede tutta la perfezione della virtù, ma l’ama.
È vero che in realtà non si ha un amore della virtù senza avere la virtù stessa in una certa misura. Chi ama la discrezione l’ama perché cerca l’onore di Dio e la salvezza degli uomini già con una certa discrezione. Chi desidera servire Dio con umiltà, lo fa perché è già umile per poter riconoscere che ha bisogno di questa piccola virtù e ciò vale per tutte le perfezioni dell’anima. La distinzione fra il conquistare le virtù ed amarle sembra una fumatura marginale, ma non lo è. Si vede anche a questo punto che la dottrina della Santa è frutto non solo una considerazione puramente teorica, ma di esperienza vissuta e approfondita per la preghiera.
Affinché l’uomo raggiunga la felicità, cioè l’unione con Dio, deve camminare nella via delle virtù seguendo Cristo crocifisso. La via delle virtù dunque è l’unica per cui si deve percorrere. Però lo scopo pratico e immediato della vita umana, secondo Santa Caterina, è nient’altro che amare con desiderio santo le vere virtù. Il possesso vero e proprio delle virtù sarà il frutto di tale desiderio. Altronde questo amore della virtù è che distrugge l’amor proprio che è l’inizio di ogni male.
Cercando una risposta sintetica alla domanda dell’uomo che vuol compiere la verità di Dio in sé e non sa concretamente cosa fare e dove comincare la strada della perfezine, in Santa Caterina ripetutamente troviamo una regola semplicissima: «Siate, siate amatore della virtù»190.
[...] la dottrina e ‘l principale fondamento che tu debbi dare a coloro che venissero a te per consiglio, e che volessero escire della tenebre del peccato mortale e seguitare la via delle virtù, ciò è che tu lo’ dia per principio e fondamento l’ affetto e l’ amore delle virtù, nel cognoscimento di loro e della mia bontà in loro; e uccidano e anneghino la loro propria volontà, acciò che in neuna (cosa) ribbellino a me191.
Santa Caterina spesso chiama l’uomo che cerca Dio e cerca di essere gradito a Lui: «amatore della virtù». In questo senso invita certi figliuoli ad essere «amatori della virtù; però che in altro modo non potreste avere la vita della Grazia, né partecipare il sangue del Figliuolo di Dio»192 oppure scrive a un altro: «Cosa voglio che facciate voi, carissimo fratello; che siate amatore della virtù, con una pazienzia santa, e con una confessione spessa»193. Dopo che l’anima «vede che Dio vuole che esso sia amatore della virtù e spreggiatore del vizio»194cerca di amarla. Chi ama la virtù, non ce l’ha ancora, ma desidera di averla. Cioè in una certa misura la possiede, ma non perfettamente. Possiede, perché l’ama, tuttavia desidera di averla così perfettamente come vede che Cristo crocifisso ce l’ha.
Anzi, l’anima che desidera la virtù, non desidera l’altro che il Crocifisso stesso. Chi ama la virtù, non ama che Cristo crocifisso. Per questo scrive Santa Caterina a un suo discepolo che «nella memoria della santa Croce diventiamo amatori della virtù, e spreggiatori de’ vizi»195, infatti la croce di Gesù, di cui si ricorda nella preghiera, ci fa contemplare l’amore - tutto gratuito - di Dio. Rispondendo a questo immenso e perfetto amore cerchiamo di vestirci in virtù anche noi.
L’amore delle virtù comporta che si deve fare tutto per il possesso delle virtù e non per il successo, pagamento o ringraziamento da parte degli altri uomini. L’ Haro afferma nel suo manuale di teologia morale che l’acquisizione delle virtù poggia fondamentalmente sul desiderio di imparare ad amare196. Pure la mistica senese vede il fondamento in questo desiderio. Santa Caterina, maestra esperta della vita spirituale, non dice allora che si debba subito avere tutte le virtù, ma esorta ad amarle subito: «in altro modo non sarebbe grato nè accetto a me se non concepesse l’ odio del peccato e amore delle virtù.197Cioè senza l’amore delle virtù non ci si salva: «Vedi tu, cotoro si sono levati con timore servile dal vomico del peccato mortale, ma se essi nonsi levano con amore della virtù non è sufficiente il timore servile a darlo’ vita durabile»198.
2.5 La virtù provata per il contrario

Il desiderio è l’omaggio al Bene infinito, è l’espressione essenziale del servizio che dobbiamo rendere a Dio. Questo desiderio però ha bisogno di concretarsi in atti: cioè ha bisogno di provare a Dio e a sé stesso la propria sincerità.199
Se è vero che «senza il mezzo della virtù non potremmo piacere al nostro Creatore» è vero anche che è necessario raggiungere «alla virtù provata». «Non basta concepire il desiderio del bene: questo non è che un primo passo. Le virtù vanno conquistate nella lotta, con pena e con fatica, perchè siano degni del loro nome.»200 Altrimenti si ha soltanto una virtù «concepita per desiderio» ma non quella vera201. Ma come nasce la provata e vera virtù dal desiderio della virtù? Tramite il contrario:
Giudica e vede bene che Dio non vuole altro che la nostra santificazione; e ciò ch’egli ci dà e permette, o tribolazioni, o consolazioni, o persecuzioni o strazi o scherni o villanie, ogni cosa ci è data perché siamo santificati in lui. Perché la santificazione non si può avere senza le virtù, e le virtù non si possono avere, se non per lo suo contrario. E però l’ anima che cognosce questo amore, non si può turbare né contristare di veruna cosa che avvenga, di qualunque cosa si sia; perché sarebbe dolersi del suo bene, e della bontà di Dio che il permette a noi. E’ vero che la sensualità si vuole sentire quando la cosa che gli dispiaccia: ma la ragione la vince, e fàlla stare suggetta siccome debbe.202
Il contrario - che mette alla prova la virtù - sono quei fatti che appesantiscono la nostra croce quotidiana. Può essere infatti un nostro sentimento ribellarci contro la ragione, o un influsso da parte del prossimo che cerca di allontanarci dalla via di Cristo, oppure una tentazione del mondo il quale ci confonde con i sui beni apparenti e transitori, o semplicemente un atto del demonio che vuole avvelenare il nostro rapporto con il buon Dio.
Quando si ha apparentemente un insuccesso la virtù non viene meno ma viene messo alla prova. Per questo dice Santa Caterina in una lettera: «Dunque per farci venire a vera virtù [...] si conviene sostenere con vera e reale pazienzia le tribulazioni della mente, cioè quelle che ci dessero le creature per infiamme o per altri scandali che ci fussero date. E così veniamo a virtù; peròcche questi sono quelli mezzi che ci fanno parturire la virtù, perchè è provata nelle fadighe siccome l’oro si pruova nel fuoco»203.
Il frutto della virtù messa alla prova è quella serenità di cui abbiamo detto che gli amici di Cristo crocifisso possiedono: «Onde allora si diletta delle molte tribolazioni» 204.
Dio ci comunica che dobbiamo sopportare. Anche qui rivediamo il Crocifisso, Figlio di Dio, come punto di riferimento:
Onde né tribolazioni né persecuzioni del mondo non sono male; né ingiurie, né strazii, né scherni, né villanie, né tentazioni del dimonio, né tentazioni degli uomini, le quali tentano i servi di Dio; né le tentazioni, né le molestie che dà l’uno servo di Dio all’ altro: le quali Dio tutte permette per tentare, e per cercare se truova in noi fortezza e pazienzia e perseveranzia infino all’ultimo; anco, conducono l’ anima a gustare il sommo ed eterno Bene. Questo vediamo noi manifestamente nel Figliuolo di Dio, il quale essendo Dio e uomo, e non potendo volere veruno male, non le averebbe elette per sé; ché tutta la vita sua non fu altro che pene e tormenti e strazii e rimproverii, e nell’ultimo l’obrobriosa morte della croce: e questo volse sostenere, perchè era bene, e per punire la colpa nostra, che è quella cosa ch’ è male.205
Non soltanto il male apparente, ma pure il demonio stesso contribuisce a portare a termine il disegno di Dio. Molestando la creatura senza averne l’intenzione, la mette nella condizione di potersi perfezionare nella virtù.206
Ci si pone la domanda: per quale scopo Dio permette tutto ciò che prova la virtù? Perché bisogna mettere alla prova la virtù per perfezionarla? E la risposta di Santa Caterina chiarisce che la verifica della virtù comporta la fortificazione di essa in quanto porta a una più profonda conoscenza di sé e di Dio:
Ma perché ci permette queste fatiche e tante ribellioni? Perché si pruovi in noi la virtù; e acciò che col lume cognosciamo la nostra imperfezione, e l’adiutorio che l’anima riceve da Dio nella battaglia e fatiche; e acciò che cognosciamo il fuoco della sua carità nella buona volontà che egli ha riservata nell’ anima nel tempo della tenebra e delle molestie e delle molte fatiche.207
La prova è nel servizio dell’amore. La prova accettata con fede fortifica il legame che si stabilisce fra il Creatore e la creatura. Quando questa verità diventa una convinzione profonda dell’anima dà forza alla mortificazione, cioè a rinunciare a sé stessa per amor di Dio e per affetto delle virtù. Vedendo questo l’anima cerca di conformarsi a Cristo crocifisso ed abbraccia con diletto le difficoltà. Fortificata dalla persuasione che Dio permette le sofferenze e tutte le difficoltà per far crescere l’anima nell’amore, lei diventa tutta libera da sé medesima: «non elegge lo strumento delle tribolazioni, che provano le virtù, a suo modo, ma a modo di colui che gli ‘l dà, cioè Dio; il quale non vuole altro se non che siamo santificati in lui, e però gli ‘l concede. Così egli ha tratto l’amore dell’amore»208.
Dio Padre rivela «Io per esercitargli nella virtù ... ritaggo a me la consolazione della mente e permetto lo’ battaglie e molestie...»209Per quale motivo? Per il motivo che l’anima riconosca la propria miseria e la dipendenza da Dio, e cercando e trovando rifugio a Lui raggiunga una più profonda conoscenza dell’amore di Dio. Tutto questo serve a portare alla maggiore perfezione nella virtù, come dice la prima Verità: «Io gli poto, acciò che faccino molto frutto»210.
Nella prova l’anima è priva del sentimento della presenza di Dio in modo che si sforzi di continuare ad amare Dio come prima pur non provando più alcun piacere spirituale. Solo così riuscirà a dare una prova del suo autentico amore, tutto gratuito. Così prende coscienza della sua imperfezione precedente, perché soffrendo per la mancanza di gioia spirituale scoprirà che ciò che prima la spingeva a rivolgersi a Dio era più il desiderio del gaudio che non il desiderio di Lui stesso. Smascherando l’amor proprio, l’anima si umilia211 e cerca di vestirsi più perfettamente nelle virtù di Cristo crocifisso.
Nel Dialogo212leggiamo ancora un modo per il quale aumenta la virtù in colui che Dio permette la prova. Infatti una mèta della sofferenza - come nel caso di San Paolo apostolo - è una maggior comprensione degli altri. L’esperienza della propria miseria genera nel cuore dei servi di Dio un magiore compassione del prossimo, la quale alimenta in loro la carità.
Certo che l’anima verificata ha bisogno dell’aiuto di Dio, ma questo aiuto non lo trova se non nel sangue di Cristo crocifisso. Perciò Santa Caterina esorta ad accostarci al suo infinito amore che si è manifestato sulla Croce e viene simboleggiato dall’immagine del sangue: «v’annegate nel sangue di Cristo crocifisso; perocché ora è il tempo di provare la virtù nell’ anima»213. Solo così, attingendo amore per il combattimento spirituale all’amoroso sangue di Cristo crocifisso, si può vincere, cioè diventare più virtuosi. Se si fa così, la prova non porta danno, ma dà vantaggio: «Sicché dunque vedete, che nel tempo delle grandi battaglie l’anima viene a maggiore perfezione, e provasi nella virtù»214.
Va sottolineato che Dio non permette o concede una prova, se non nel servizio della virtù. Riaffermando quello che abbiamo detto della libertà umana nel primo capitolo asseriamo che se diminuische la nostra virtù, la responsabilità è nostra, poiché Santa Caterina inevocabilmente insegna: benché le virtù vengano provate per i contrari, tuttavia «non tolte mai, se noi non vogliam»215. Come se leggessimo le parole di San Paolo: «Iddio è fedele, e non permetterà che siate tentati oltre quel che potete, ma con la tentazione vi procurerà anche la via d’uscita, onde possiate sopportarla»216.
La malizia del demonio cospira con la debolezza della nostra natura (per cui il desiderio s’infiacchisce, abbandona l’impresa nel mezzo) e cerca di persuaderci che non riusciamo mai a combinare qualche cosa di buono.217 L’aiuto nostro è l’orazione è l’arma con la quale ci difendiamo, è «uno legame che lega e fortifica la volontà nostra in Dio»218.
Se si riconosce che la virtù «non si pruova se non per lo suo contrario»219, i pesi della vita cristiana diventano veramente dolci. Chi ama Cristo crocifisso e si unisce a Lui è libero e lieto pure nella sofferenza.
Or che può fare il mondo, il dimonio, e i servi suoi a colui che si truova in questo smisurato amore, che s’ à posto per obietto il sangue? niente. Anzi sono istrumento di darci, e di provare in noi, la virtù; imperocché la virtù si prova per lo suo contrario. E però debbe l’anima godere ed esultare, cercare con sua pena sempre Cristo crocifisso, e per lui annichilare e avvilire sé medesimo; dilettarsi sempre di pena e di croce. Volendo pena, tu hai diletto; e volendo diletto, tu hai pena. Adunque meglio ci è annegarci nel sangue, e uccidere le nostre perverse volontà con cuore libero al suo Creatore, senza veruna compassione di sé medesimo. Allora sarà pieno il gaudio e la letizia in voi.220
2.6 Il prossimo

Il desiderio infinito dell’anima si concreta nel servizio del prossimo221. Il prossimo è il reagente indispensabile per trasformare il puro desiderio in atti concreti e in offerta di sacrificio.
La virtù, qualità dell’anima, non può non manifestarsi anche esternamente. Agere sequitur esse, se l’essere è virtuoso altrettanto lo sarà il suo agire. L’azione d’altra parte coinvolge sempre anche le persone distinte dall’agente ed è per questo che Caterina dice che è impossibile fare del bene a sé senza farlo anche agli altri: «niuno può fare bene a sé che non faccia al prossimo suo»222.
L’orazione è la madre di tutte le virtù: nella carità divina le concepisce e nella carità del prossimo le partorisce. Quindi dove e quando nasce la virtù? La vera virtù viene alla luce quando si realizza in rapporto con il prossimo. Se in questo capitolo stiamo cercando le caratteristice particolari della dottrina catreriniana delle virtù, adesso possiamo dire che pure questa risposta - la virtù nasce nel prossimo - è molto tipica.
Chi comincia ad amare Dio non può fare a meno di amare anche il suo prossimo, poichè per l’opera dello Spirito Santo ha un solo desiderio nel cuore che è il «desiderio verso lonore di Dio e salute dell’anime»223. Trattando l’immagine del ponte, a proposito della libertà abbiamo osservato che Santa Caterina metteva in evidenza che l’amore di Dio e quello del prossimo era una medesima cosa, perché l’amore verso il prossimo derivava dall’amore di Dio224. Santa Caterina non distingue tra amore di Dio e amore del prossimo: non c’è che un unico amore di carità, e l’oggetto suo è Dio. Se l’albero dell’anima vive la vita di grazia, dà lode a Dio e utilità a sé e al prossimo. (Anche a sé che è il primo suo prossimo.) Ora l’amore è unico e se uno vuole bene a Dio, vuole bene a sé stesso e agli altri, ma se uno non ama Dio, «fà danno al prossimo e al sé medesimo»225.
Il Dialogo ci spiega inequivocabilmente che «ogni virtù si fa col mezzo del prossimo , e ogni difetto»226. Quindi non vi è peccato che non sia di pregiudizio verso il prossimo e non vi è atto di virtù che non contribuisca alla sua salvezza227.
Il contrario della virtù è qando spesso la prova proviene dal prossimo. Ciononostante dobbiamo amarlo. Questo amore significa una carità molto concreta: «[...] l’anima [...] vedendo che a Dio non può fare utilià neuna, distenderà l’amore al prossimo suo, facendo a lui quella utilità ch’egli non può fare a Dio; visitando gl’infermi, sovvenendo e’ poverelli, consolando e’ tribolati, piangendo con coloro che piangono, e godendo con coloro che godono [...] »228.
Le virtù si attuano in questo servizio del prossimo, il quale servizio può significare due tipi di agire: opere di misericordia corporali oppure opere di misericordia spirituali. Anche queste ultime sono importantissime, anzi le più importanti, perché fanno parte del piano della Provvidenza per il governo del mondo e si inseriscono nel piano della Redenzione. Pare che quando Santa Caterina dice che l’orazione partorisce le virtù nel prossimo, pensi soprattutto a quell’atto di misericordia spirituale che consiste proprio nell’orazione per il prossimo. Così l’orazione diventa non solo l’inizio, ma anche la realizzazione completa della virtù. Così la preghiera diventa una vera madre che non solo concepisce, ma porta anche alla luce i suoi figli.
«Fare utilità al prossimo» è da molti inteso come sinonimo di soccorrere i poveri - con cibo, vesti, denaro o in altre forme di aiuto - nei loro bisogni materiali. Santa Caterina non esclude certo questo aspetto della carità; lo vuole, lo raccomanda esplicitamente ed implicitamente. Lo raccomanda implicitamente vivendo questa forma di carità così radicalmente «che potremmo chiamare “la Santa dei poveri” se altri aspetti più singolari della sua vita non distoglissero da quello la nostra attenzione»229. Il Beato Raimondo scrive che «Caterina sentiva un’ammirabile compassione verso i poveri, e verso gli infermi era di una pietà senza limiti.»230 Tuttavia della carità spirituale, più ancora che della carità materiale, Santa Caterina ci ha dato l’esmpio, strappando al peccato «una infinità di persone, uomini e donne»231.
Mentre sottolineiamo che il santo desiderio deve concretarsi in atti di utilità verso il prossimo, non dimentichiamo che abbiamo asserito sopra che il nostro primo servizio a Dio si attua per il desiderio puro che nutriamo verso l’onore di Dio e la salvezza di tutti gli uomini. Per questo non detengono il primato le opere di misericordia corporali, ma quelle spirituali. L’anima che infatti cerca nel prossimo il mezzo per attuare la carità divina, vorrebbe poter giovare agli uomini di tutto il mondo, e si sforza di farlo con la preghiera e l’ardore del desiderio. Soltanto in un secondo tempo, quando sente il bisogno di unire alla preghiera le opere, si trova costretta a concentrarsi in campo di azione proporzionato alle proprie possibilità, ma anche qui il bene spirituale terrà il primo luogo e l’utilità fisica avrà il secondo posto232.
Perché «doviamo esser costanti e presevereanti nella carità di Dio e del prossimo»? Perché Cristo crocifisso, «questo dolce e amoroso Verbo» ce ne ha dato esempio233.
Ma perché non possiamo dimostrare il nostro amore direttamente al Creatore? Perché è necessario il prossimo? Santa Caterina spiega a una Mantellata, Caterina da Scetto:
Ma non veggo che del nostro noi potiamo fare utilità a lui (Cristo crocifisso); dobbiamo adunque fare utilità al prossimo nostro, perocché egli è quel mezzo dove noi proviamo e acquistiamo la virtù... Sicché vedi che in Dio concipiamo le virtù, e nel prossimo si partoriscono. Sai bene che nella necessità del prossimo tuo, tu partorisci il figliuolo della carità ...; e nella ingiuria che tu ricevi da lui, la pazienza.234
Le virtù concepite nella preghiera, cioè nel santo desiderio, vengono alla luce nel prossimo. La creatura riconoscendo nella luce della fede che, benché ami il suo Creatore non gli può fare nessuna utilità cerca di essere utile al suo prossimo.
Il prossimo è il mezzo che Dio ci offre per amare di un amore disinteressato e premuroso, con il quale amore proviamo la sincerità del nostro amore verso Dio, rispecchiando in modo più fedele l’amore suo per noi.235 Dio infatti lo amiamo di «debito» in quanto Egli ci ha amati per primo; il prossimo invece lo possiamo amare tutto gratuitamente senza pensare di essere contracambiati236. Allora facciamo al prossimo quello che non possiamo fare a Dio amandolo gratuitamente, per la «delizione della carità» e così imitiamo Cristo crocifisso.
Come l’anima ama in verità il suo Creatore e Redentore, «fà così utilità al prossimo suo»237. E Santa Caterina spiega anche il motivo del fatto che proprio il prossimo, cioè la creatura che ha in sé ragione, è il mezzo per poter dimostrare l’amore verso Dio. Il motivo è la natura dell’amore stesso. L’anima infatti «ama la creatura perché vede che il Creatore sommamente l’ama; e condizione è dell’amore, d’amare tutte quelle cose che sono amate dalla persona amata238.
Dobbiamo essere utili, non a Dio direttamente, perché non lo possiamo fare, ma a nostro fratello. «Or con questo mezzo potiamo osservare quello che egli ci richiede per gloria e loda del nome suo.» Per mostrare il nostro amore verso Dio, dobbiamo amare tutti quelli che sono amati da Lui: «servire e amare ogni creatura che ha in sé ragione, e distendere la carità nostra a buoni e cattivi»239. Il prossimo allora non vuol dire «amico», anzi i veri seguaci di Cristo crocifisso devono amare anche quelli che non l’amano «perché sono creature di Dio» e «perché sono strumento e cagione di ponere le virtù in loro, e farli venire a perfezione; e specialmente in quella reale virtù della pazienzia, virtù dolce, che non si scandalizza né si turba, né dà a terra per alcuno vento contrario, né per alcuna molestia d’ uomini»240. Il virtuoso che è virtuoso proprio per la carità divina, ama quindi tutti: perfetti, imperfetti, buoni, iniqui imitando la perfetta carità di Dio.
L’anima quindi riconosce l’infinito amore di Dio che non si estende solo a lei, ma «ad ogni creatura che ha in sé ragione, ad amici, e a nemici». Vedendo ciò anche lei comincia ad amare tutti, anche se non per gli stessi motivi. Il virtuoso lo «ama per amore della virtù, e in quanto egli è creatura; e lo ingiusto e iniquo peccatore, l’ ama, sì perché egli è creato da Dio, e si perché egli si parta dal vizio, e venga alla virtù». Per questi motivi quindi l’uomo comincia ad amare il fratello sia buono o meno. Questa carità verso il prossimo alimenta l’amore stesso, o - come dice Santa Caterina - l’uomo che ama il prossimo «diventa gustatore e mangiatore dell’ anime»241.
Chi pratica la virtù è utile allo stesso tempo a sé ed agli altri nel senso che i virtuosi con l’esempio della loro vita provocano la conversione dei peccatori.
Anco ti dico, che non tanto che si pruovi la virtù in coloro che rendono bene per male, ma Io ti dico che spesse volte gittarà carboni accesi di fuoco di carità, il quale dissolve l’ odio e ‘l rancore del cuore e della mente de l’ iracundo, e da odio torna spesse volte a benivolenzia; e questo è per la virtù della carità e perfetta pazienzia che è in colui che sostiene l’ ira de l’ iniquo, portando e sopportando i difetti suoi.242
Anche se la carità verso il prossimo è l’unico modo di poter provare che si ama Dio, questa carità deve essere molto ordinata. Altrimenti non sarabbe affatto un’autentica espressione dell’amore di Dio. I limiti della carità per il prossimo sono ben precisi: Dio è colui che va amato per sé, le creature solo per Dio:
La Carità non cerca le cose sue, e non cerca sé per sé, ma sé per Dio, ... e non cerca Dio per sé, ma Dio per Dio, in quanto è degno d’essere amato da noi per la bontà sua; e non ama né cerca né serve il prossimo suo per sé, ma solo per Dio, per rendergli quello debito il quale a Dio non può rendere, cioè di fare utilità a Dio. Perché già io ti dissi che utilità a Dio non possiamo fare: e però il fa Dio fare al prossimo suo; il quale è uno mezzo, che c’è posto da Dio per provare la virtù, e per mostrare l’amore che abbiamo al dolce ed eterno Dio.243
La stessa verità viene espressa negli scritti di Santa Caterina quando si distingue tra l’amore infinito, senza misura, reso a Dio e quello regolato ed ordinato, reso al prossimo. Ciò non è una distinzione vera e propria, poiché l’amore è sempre lo stesso, quello infinito e divino, ma con questo amore infinito Dio va amato «senza modo» il prossimo invece «con modo»244.
I veri servi di Cristo crocifisso sono quelli «i quali amano per Cristo e per amore della virtù e non per propria utilità»245. Amare il prossimo in modo giusto vuol dire che egli va amato non per utilità o per qualsiasi altro motivo, ma per amore di Cristo e per amore della virtù. (In ultima analisi questi due amori sono una cosa sola.)
Una verità fondamentale è che il «principale prossimo»246 è il proprio io, che va amato con una carità molto ordinata, ma vera e intensa. Come abbiamo già visto, l’amare noi stessi in ultimo istante significa amare ed acquistare le vere virtù. Siamo responsabili prima di tutto per la nostra salvezza e solo dopo per la salvezza altrui. Tuttavia questo amore verso noi stessi è inseparabile da quello del prossimo, anzi diventa il primo atto del amore verso gli altri infatti « [...] l’anima non può fare vera utilità di dottrina, d’esemplo e d’orazione al prossimo suo se prima non fa utilità a sè, cioè d’ avere ed acquistare la virtù in sé»247. Santa Caterina scrive alla badessa del monastero di santa Maria degli Scalzi in Firenze che «non si può nutrire gli altri con le virtù se prima non si nutre con quelle»248.
Una vera «crudeltà verso il prossimo non dare l’esempio di virtù»249. Per evitare questa crudeltà verso il prossimo conviene essere «uno specchio di virtù, acciocchè la virtù ammonisca più che le parole».250Per l’esempio della vita, con la dottrina della parola e con la continua e umile orazione dobbiamo diventare strumenti della Provvidenza per salvare le anime, poiché questo è il nostro dovere251.
Poiché «non potremmo nutricare altrui se prima non nutricassimo l’anima nostra di vere e reali virtù»252 è necessario attendere a noi stessi per poter servire gli altri. Tuttavia il servizio del prossimo reagisce su noi stessi positivamente. Chi è vero seguace di Cristo crocifisso gusta il cibo delle anime e per questo cresce in virtù. Dedicandosi alla salvezza dei fratelli si viene liberati dall’egoismo. Questa liberazione è frutto del sacrificio di sé per il prossimo, il quale è simboleggiato per esempio dall’immagine dello stomaco che scoppia per il troppo cibo. Tale anima infatti «tanto rigonfia per l’abondanzia del cibo, che il vestimento della propria sensualità [...] criepa quanto all’appetito sensitivo. Colui che criepa muore: così la voluntà sensitiva rimane morta. Questo è perché la voluntà ordinata mia, e però è morta la sensitiva.»253
Dopo aver analizzato il ruolo decisivo del prossimo nella vita virtuosa, potremmo definire la virtù come l’esercizio della carità nel prossimo.254 Questa pratica delle virtù nel prossimo viene facilitata dal fatto che Dio non ha dato a ciascuno tutte le doti di cui avesse stretta necessità, ma abbiamo bisogno gli uni degli altri. Gli uomini sono tra loro interdipendenti255. Ciò proviene dalla sapienza di Dio: «bene potevo fare gli uomini dotati di ciò che bisognava, e per l’ anima e per lo corpo; ma Io volsi che l’ uno avesse bisogno dell’altro»256. Questo aspetto però lo rivediamo nell’ultimo capitolo della tesi nell’analisi della giustizia.


2.7 Maria dolce

Trattando la dottrina cateriniana della virtù non si può trascurare Maria Santissima.257 Se è vero che non si puo considerare la virtù se non nel contesto della dottrina di Cristo crocifisso, è vero anche che il cristocentrismo è inseparabile dal riconoscimento del ruolo della Santa Madre di Dio258. Ciò è vero sempre, ma vale in modo particolare nell’insegnamento di Santa Caterina da Siena. Il ruolo decisivo di Maria viene dimostrato dal solo fatto che Santa Caterina comincia tutte le sue lettere «Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce»; e non di rado finisce con il dolce nome di Maria così: «Gesù dolce, Gesù amore. Maria»259, «Maria dolce»260, «Maria dolce madre»261, oppure «Laudato sia Gesù Cristo crocifisso e Maria dolce»262, «Laudato sia Cristo crocifisso, e la sua dolcissima Madre, gloriosa Vergine, Madonna santa, Maria, Gessù dolce, Gesù amore»263. Come Maria santissima, beata e addolorata è stata sotto la croce del suo Figlio così è anche accanto a noi sulla strada della virtù.
Maria è l’esempio di ogni virtù. Se Cristo crocifisso è la nostra via, allora Maria Santissima è quella pedagoga che ci conduce su questa via. Per Santa Caterina la collaborazione di Maria all’incarnazione è il fatto per cui Maria diventa l’esempio delle virtù. Citiamo un tratto della preghiera pronunciata da Caterina in estasi il 25 marzo 1379, festa dell’Annunciazione:
O Maria vassello d’umilità, nel quale vassello sta e arde el lume del vero cognoscimento, col quale tu levasti te sopra di te, e però piacesti al Padre etterno, unde egli ti rapì e trasse a sé amandoti di singulare amore. Con questo lume e fuoco della tua carità e con l’olio della tua umilità traesti tu e inchinasti la divinità sua a venire in te [...] In te [...], o Maria, si dimostra oggi la fortezza e libertà dell’uomo perché, dopo la deliberazione di tanto e sì grande consiglio, è mandato a te l’angelo ad annunciarti il mistero del consiglio divino e cercare la volontà tua, e non discese nel ventre tuo il Figliuolo di Dio prima che tu lo consentissi con la volontà tua.» 264.
Il corpo del Verbo incarnato è «della carne di Maria»265. L’umanità del Verbo è «tratta dal ventre dolce di Maria»266. L’eccezionale dignità della Beata Vergine proviene dal fatto che ella è la vera madre di Cristo, vero uomo e vero Dio. È vero che Santa Caterina non usa il linguaggio teologico del ventesimo secolo, tuttavia afferma inequivocabilmente che Maria è vestito di ogni perfezione ed è nello stato perfetto delle virtù dall’inizio della sua vita come nuova Eva:
Dato è a noi el Verbo etterno per le mani di Maria; e della sostanza di Maria si vestì della natura nostra senza macchia di peccato originale, perché quella concezione non fu per opera d’uomo, ma per opera nello Spirito santo; la quale cosa non fu così in Maria, poiché che ella procedette della massa di Adamo non per opera di Spirito santo, ma d’uomo. E perché tutta quella massa era putrida e corrotta, però non si poteva infondere quella anima in materia non corrotta, né propriamente si poteva purgare se non per grazia di Spirito santo, la quale gracia corpo non può ricevere, ma spirito ragionevole o intellettuale; e perciò Maria non poté essere purgata di quella macchia se non dopo che l’ anima fu infusa del corpo, la qual cosa così fu fatta per reverenza del Verbo divino el quale doveva entrare in quel vassello. Poiché, così come la fornace in poco tempo consuma la gocciola dell’acqua, così fece lo Spirito santo della macchia del peccato originale, infatti dopo la concezione sua subito fu mondata da quel peccato e le fu data grande grazia. Tu sai, Signore, che questa è la verità.267
Abbiamo dimostrato sufficientemente che - secondo l’ammaestramento di Santa Caterina - noi, peccatori impariamo le virtù, nella misura in cui impariamo ad imitare Gesù che sulla croce è morto per amore. Benché la Santa Vergine non ha delle colpe da soddisfare, non ha bisogno di combattere contro le proprie passioni disordinate, tuttavia risulta la più fedele seguace di Cristo crocifisso: Maria, soffriva anche lei. Anzi la sua «croce» è paragonabile solo a quella di suo Figlio. Per questo Maria Santissima è tra gli uomini la più autentica maestra di virtù, anche se la sua vita è tutta eccezionale, poiché è perfettamente unita alla vita del suo Figlio:
Ella (Maria), come arbore di misericordia, riceve in sé l’anima consumata del Figliuolo, la quale anima è vulnerata e ferita della volontà del Padre; ella, come arbore che à in sé lo’nnesto, è vulnerata col coltello dell’odio e dell’amore. Ora è tanto moltiplicato l’odio e l’amore nella Madre e nel Figliuolo, che ‘l Figliuolo corre alla morte per lo grande amore che egli à di darci la vita; tanta è la fame e ‘l grande desiderio della santa obbedientia del Padre, ch’ egli à perduto l’amore proprio di sè e corre alla croce. Questo medesimo fa quella dolcissima e carissima Madre, che volontariamente perde l’amore del Figliuolo: che non tanto ch’ ella faccia come madre, che ‘l ritraga dalla morte, ma ella si vuole fare scala e vuole ch’ egli muoia. Ma non è grande fatto, però ch’ella era vulnerata della saetta dell’amore della nostra salute.268
Se Cristo ci insegna la dottrina delle virtù dalla cattedra della croce, Maria ne dà un esempio perfetto sotto la croce. Santa Caterina scrive a Beato Raimondo della dottrina di Maria la quale non è che la dottrina di Cristo crocifisso: «Ricordivi, carissimo padre e negligente figliuolo, della dottrina di Maria, e di quella della dolce prima Verità. [...] Ho speranza in quella dolce madre Maria, che adempirà il desiderio mio. Perdete voi medesimo e cercate solo Cristo crocifisso, e non veruna altra creatura»269.
Ella da una parte è il modello più splendente della vita degna dell’uomo e gradita a Dio, dall’altra è la nostra educatrice alla vita virtuosa. Per questo Caterina ci esorta ad essere docili: «Io voglio che impariate da quella dolce madre Maria, che per onore di Dio e salute nostra ci donò il Figliuolo, morto in sul legno della santissima croce»270.
L’amore di Maria ci incoraggia per rivolgerci a Lei con fiducia, poiché Maria è la vera e dolce madre dei fedeli, soprattutto di coloro che si affidano e servono a Lei:
la quale è nostra avvocata, madre di grazia e di misericordia. Ella non è ingrata a chi la serve; anco, è grata e cognoscente. Ella è quello mezzo, che drittamente è uno carro di fuoco, che concependo in sé il Verbo dell’unigenito Figliuolo di Dio, recò e donò il fuoco dell’amore: perocch’egli è esso amore. Adunque servitela con tutto il cuore e con tutto l’affetto, perocché ella è madre dolcissima vostra.271
L’eterno Padre rivela nel Dialogo di Maria che «ella è come una esca posta da la mia bontà a pigliare le creature che ànno in loro ragione»272. Dunque se vogliamo seguire Cristo crocifisso, rivolgiamoci alla sua e nostra dolce Madre Maria, come esorta Santa Caterina: «Ricorri a quella dolce Maria che è madre di pietà e di misericordia. Ella ti menerà dinanzi alla presenzia del figliuolo suo.»273


3. Conclusioni

In questo capitolo abbiamo approfondito la nostra domanda su quello che riguardava la via della salvezza. Abbiamo asserito nel primo capitolo che le virtù caratterizzano talmente l’uomo creato all’immagine di Dio che quegli non può raggiungere la méta della vita senza di esse. Il peccato originale ha compromesso il vestito originale della virtù in cui la creatura che ha in sé ragione è stato creato. Per questo bisogna riacquistarle. Sempre nel primo capitolo abbiamo affermato che per Cristo crocifisso è possibile rivestirsi delle veri e reali virtù in quanto Egli è il nostro vero liberatore e noi siamo fatti liberi per il sangue suo.
Nel capitolo presente abbiamo posto qualche domanda più particolare. Dove si trovano le vere e reali virtù da imparare e in quale maniera si acquistano? La risposta di Santa Caterina è inequivocabile, in quanto le vere virtù si trovano in Cristo crocifisso e si acquistano per Lui con fatica seguendolo. Le virtù uniscono l’anima a Cristo crocifisso e l’unione con Lui comporta l’essere virtuoso. Solo chi ama Cristo crocifisso può possedere quella perfezione dell’anima che si chiama virtù.
La concreta realizzazione della sequela del Crocifisso non è che l’amore del prossimo. Questo amore però presuppone prima di tutto la vera conoscenza di sé e di Dio. Da questa conoscenza - che non può esserci senza la contemplazione della croce di Cristo - nasce il desiderio santo dell’onore di Dio e della salvezza dei fratelli (siano buoni o cattivi). L’anima, vedendo che senza le virtù non può né piacere a Dio né fare utilità al prossimo, si accende di amore per le virtù stesse. Ma non basta amare le virtù, dobbiamo anche acquistarle per «il contrario». La sequela pratica di Cristo significa una lotta quotidiana per avere le virtù e così glorificare Dio e promuovere la salvezza propria e quella degli altri.
Chi pratica la virtù, - pur faticando - trova gioia in tale esercizio. La trova perche è unito con Dio, fonte di ogni felicità, e anche perché si è abituato ad operare secondo l’indicazione della ragione illuminata dalla fede. Se le virtù vengono provate, sarà sempre più facile attuarle. I perfetti «parturiscono le virtù senza pena sopra del prossimo loro»274. Per la prova, la virtù si interiorizza e così per un virtuoso l’amare il prossimo non è un obbligo estraneo da soddisfare. Anzi si possono anche dimenticare i precetti di Cristo, poiché il virtuoso si è talmente unito con Lui che non può agire se non secondo il suo esempio275.
Nell’ultimo punto di questo capitolo abbiamo unito la dottrina di Cristo crocifisso con la dottrina di Maria dolce. Quest’ultima fa parte integrale della prima, in quanto Maria non solo dimostra la perfetta sequela del suo Figlio, ma - come dolce Madre ed avvocata nostra - ci aiuta a compiere la verità di Dio in noi.



1Dial. IV. p.9.
2Dial. XXVII. p.72-73.
3Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p.24.
4Dial. CXXXV, p. 433.
5Dial. XXVII, 75; cf. XXXI, 84.
6G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV, n. 1. p. 12.
7Dial. XXIX, 78-79.
8Cf. Dial. CXV, 323.
9Lett. 2, p.1480; Cf. Sal 104,15, 2Re 1,14.
10Dial. XXIX, 80-81 r.292-303; cf. Dial. CXV, 322.
11G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.2, p.16.
12G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.2 p.16.
13 Dial. XXVI, p. 70.
14Cf. Dial. LXXVI;Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p.70-71.
15Lett.94, p.1430.
16Lett.120, p. 585-586.
17Dial.LI, p.138.
18Dial. LXXXVI, p. 227.
19Dial.LIV, p.143.
20Dial.LIV, p.143.
21Dial.LIV, p. 142.
22Dial.LI, p.137.
23Dial.LIV, p.143-144.
24Dial.CXXIV.
25Dial. LXXIX.
26Dial.CXXIV.
27Dial. CXLV.
28Oraz., XVI, p.129.
29Lett. 224, p.602.
30Certo, da un altro lato, dobbiamo seguire «le vestigie dell Padre» amando i buoni e cattivi, come lo fa Dio Padre. Cf. Lett.94, p.1229.
31Dial.LIII, p.139.
32 Se Caterina fosse stato membro di un ordine, nel quale si avesse avuto un secondo nome corrispondentemente alla propria spiritualità (vedi per es.: Santa Teresa del Bambino Gesù), Caterina avrebbe potuto avere questo nome: «Caterina di Cristo Crocifisso e di Maria Dolce».
33Lett.108, p.963­964.
34Cf. Vita, 207, p.221; Lett. 16. p. 229.
35Cf. Gv 14,6; Dial. XXVII; CCC, 1694: «Alla sequela di Cristo e in unione con lui, i cristiani possono farsi «imitatori di Dio, quali figli carissimi», e camminare «nella carità» (Ef 5,1), conformando i loro pensieri, le loro parole, le loro azioni ai «sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5) e seguendone gli esempi.»
36Dial. XXVI, p. 72.
371 Sam 25,25
38Vita, 90, p.102.
39Cf. Gal 2,19-20.
40Lett. 196.
41Mt 17,4
42Cf. Es 20,4
43Lett. 172. p. 1338.
44Cf. Mt 11,6
45Cf . «Con questo dolce e vero Agnello passerete questa tenebrosa vita, e giungerete alla vita durabile, dove si pascono e’ veri e dolci gustatori.» Lett. 224. p. 602.
46Oraz., II, p. 9.
47Oraz., I, p. 3.
48Lett. 169, p. 1240.
49Lett. 331. p. 1419-1420.
50Dial. XLI.
51Cf. Dial. CXIX, p. 343; CXXXIV, p. 425; CXLVIII, p. 495;
52Lett. 225. p. 1246.
53 Dial. IV, p. 9.
54Vita, 100, p.113.
55Cf. Vita, 334, p.348.
56Cf. Gn 1,16.
57Lett. 31, p.549.
58La Chiesa stessa ha riconosciuto questa universalità con il titolo «Dottore della Chiesa».
59Cf. Mt 13,34
60Lett. 62, p. 868.
61Lett. 33.
62Lett. 35, p..
63Cf. Lett. 34, p. 1320.
64Lett. 251.
65Lett. 27.
66Cf. Dial. C, p.276-277.
67Lett. 354. p.659.
68Cf. Mazzei, T., Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p.2-3.
69Dial. LXIV, p. 166
70 Lett. 241, p.903.
71Lett. 35.
72Lett. 27.
73Lett.173, p.1470.
74Cf. Lett. 46.
75Cf. Lett. 340, p.1690.
76Dial. XI, p.31.
77Lett. 150. p.1394.
78Dil., CLXVI, p.583.
79Lett. 27
80Cf. Mt 16,24.
81Oraz., XXI. p.48.
82Dial. I, p.3.
83Lett. 173, p.1472
84Lett. 27.
85Lett.108, p.963.
86Dial. I, p.1.
87Lett. 184, p.1524
88Lett.94, p.1231­1232.
89Mt 11,30.
90Dial. IV, p.10-11.
91Lett.173, p.1472; cf. «Nella catechesi è importante mettere in luce con estrema chiarezza la gioia e le esigenze della via di Cristo». CCC, 1697.
92Cf. Lc 9,23.
93Lett.108, p.963.
94Lett. 107, p. 1540
95Cf. Dial. LXXXIX, p. 236.
96 Cf. Dial. cap. LXXXVII - XCVI.
97Dial. LXXXVIII, p. 231-232.
98Dial. cap. LXXXVII, p.232.
99Lett. 154. p. 1398.
100Dial. CLXVI, p.583.
101Cf. T. S. Centi «Il mistero della Croce nella vita e nel pensiero...», XXIV (1975) n.4, p.330-338.
102Cf. L’antifona mariana Salve Regina.
103Cf. I. Venchi, una lezione, tenuta all’Angelicum, 15.03.1996. sul tema: Santa Caterina e la riforma dei domenicani all’inizio del cinquecento.
104Cf. B. Raimondo, Vita, I. könyv, 2. fej. p. 41-42; II. könyv, 6. fej. p. 201-213.
105Jacopone de Todi, † 306.
106Vita 183, p.201.
107Cf. Lc. 7,44
108Dial. LXXXVII, p. 230.
109Lc 20,11
110Ct 3,1
111Rm 12,15
112Cf. IICor 2,4; Fil 3,18; IITm 1,4
113Cf. Mc 14,72
114Dial. LXXXIX, p. 232.
115B. Raimondo, Vita, II.cap. VI. 180. p.199.
116Cf. Gv 11,35
117Dial. XCI, p. 243.
118Lett. 228. p. 709.
119Dial. XCI, p. 243-244.
120Sal 41,4; Cf. Lett. 87; 53; ed ancora: 84; 100; 119; 296.
121Lett. 63. p. 1543.
122Sal 79,6
123Sal 118, 136
124Lett. 356. p. 1640. Cf. Lett. 141; 348
125Cf. Lett. 44. p. 735.
126Lett. 272. p. 1153.
127Lett. 356. p. 1640.
128 Cf. Platone, Alcibiade Maggiore, 128d - 130e: «Socrate: Qual è l’arte di rendere migliori noi stessi, non lo potremo sapere mai, se noi ignoriamo che cosa siamo noi stessi? [...] è così: se noi conosceremo, noi sapremo forse anche qual è la cura che dobbiamo avere di noi stessi; se non ci conosceremo, non lo sapremo mai.» (traduzione presa da: Reale, Giovanni, Storia della filosofia antica, I. Dalle origini a Socrate, Vita e pensiero, Milano [1991], p.307.)
129Lett. 94, p.1232­1233.
130Dial. IV.
131Dial. LXXXVI, 286.
132Lett. 154.
133Lett. 94, p.1232­1233.
134G. Cavallini, «Le virtù», A.XIV, n.3, p.17; Cf. Lett. 226. Cf. Lett. 340
135 Lett. 37.
136 Lett. 37; cf. Dt 6,5; Mt 22,37; Mc 12, 30; Lc 10,27.
137 Cf. Lett. 154.
138 Cf. G. Cavallini, «Le virtù», in L’Albero della Carità, A.XIV, n.3, p.17; cf. Lett. 340.
139 Lett. 13.
140Cf. Haro, p. 35.
141Dial. XLVI, p. 120.
142Dial. LI,
143G. Cavallini, «Le virtù», in L’Albero della Carità, A. XIV, n.3, p.17
144Cf. Oraz., V, p. 27; XV, p. 123; VIII, p. 75; XI, p. 94; XXI, p. 48, 52; XXII, p. 56; XIX, p. 37; XII, p. 107; ecc.
145Lett.173, p.1470.
146Cf. Dial. X
147Cf. Lett. 340.
148G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV.n.3. p. 17.
149Lett.173, p.1470.
150Lett. 199.
151 Lett. 203; cfr. . G. Cavallini, «Le virtù», A. XIV, n.1, p.13.
152Lett. 150, p.1393.
153Cf.: «Oratio est conversatio sermocinatioque cum Dio» San Gregorio da Nyssa, Orat. I de orat. dominic., Migne, Patr. graec.. 44, 1125.
154Lett.86, p.1081.
155Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù»,A. XIV, n. 1, p.13; cf. Lett. p. 203.
156Lett.86, p.1081.
157Lett.86, p.1081.
158Cf. R. G. de Haro, La vita Cristiana, p.461.
159Lett. 94, p.1233.
160Cf.G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV, n. 1, p.13; cf. Lett. p. 203.
161 Lett. 213.
162Lett.94, p.1232­1233.
163Cf. Lett. 220.
164Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV. n. 2, p. 15
165Lett. 194. p. 606.
166Lett. 203. p. 1359.
167Cf. Lett. 194. p. 606.
168Dial. I, p. 1.
169Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV, n.2. p. 17
170Cf. G. Cavallini «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XV, n.2, p.14- 17.
171Dial.IV, p.9
172Cf. Lett. 203. p. 1361.
173Cf. Lett. 213.
174G. Cavallini Le virtù, in L'Albero della Carità, A.XV, n.1, p.15 - 18.
175Lett. 154.
176Lett. 109.
177Lett. 226.
178Cf. Lett. 213.
179Cf. Dial. XCII.
180Lett. 34.
181Cf. Dial. XI.
182Lett. 213.
183Lett.108, p.963­964.
184Dial.I, p.1.
185Dial. I, p.1.
186Cf. Cav. Intr. del Dial. p.XXII.
187Dial. XXIX: p.19
188Cf. Lett. 71, p. 588.
189Dial.LIV, p.142.
190Lett. 20. p. 266.
191Dial.CV: p6.
192Lett. 179. p. 1579.
193Lett. 20. p. 809.
194Lett. 60. p. 1665.
195Lett. 142. p. 875.
196Cf. R. G. de Haro, La vita Cristiana, p.461.
197Dial. VII: p.10.
198Dial.LVIII, p.149.
199Cf. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XV. n. 2. p.14.
200Cf. Cavallini, n.2, 15:
201Cf. Lett. 71, p. 590.
202Lett. 184, p.1522-1523.
203Lett. 71, p. 590.
204Lett. 80.
205Lett. 80.
206Cf. Dial. XVIII.
207Lett. 83.
208Lett. 80.
209Dial. LX.
210Dial. XXIV.
211Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p. 63.
212Cf. Dial. CXLV, p. 480.
213Lett. 117.
214Lett. 287.
215Lett. 213. p. 1011.
216ICor 10,13
217Cf. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XIV. n.2. p.17.
218Lett. 169.
219Dial. XVIII.
220Lett. 187.
221Cf. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XV. n. 2. p.14.
222Dial. XXIV. Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p. 57-58
223Dial. I, p. 1.
224Cf. Dial. VII., p.22; «Ratio autem diligendi proximum Deus est: hoc enim debemus in proximo diligere, ut in Deo sit. Unde manifestum est quod idem specie actus est quo diligitur Deus, et quo diligitur proximum. Et propter hoc habitus caritatis non solum se extendit ad dilectionem Dei, sed etiam ad dilectionem proximi». ST, II-II q.25, a.1; Weis Fritz, Gottes- und Nechsten- Liebe nach d. hl. Katharina von Siena, in «Zeitschrift für Asze und Mystik», XIII, 1938, p. 131-140: dove l’autore afferma che sono unico amore del prossimo e quello di Dio; e questo coincide con San Tommaso.
225Dial. VI.
226Dial. VI.
227Deman Thomas, La parte del prossimo nella vita spirituale secondo il Dialogo, in «Saggi e Studi sulla spiritualità di Santa Caterina da Siena», Firenze, Ed. di «Vita Cristiana», 1974, p. 58-66.
228Lett.40, p.989.
229Cavallini, XV. n. 3, p. 12.
230Vita 4.
231Vita 7.Cf. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XV. n. 3, p. 16.
232Cf. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A. XV. n. 3, p. 14., Dial. VII.
233Cf. Lett.35, p.1324-1325.
234Lett.50, p.823.
235Cavallini, XV. n. 2, 15
236Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p.33.
237Dial. VII.
238Lett.51, p.1282.
239Lett.94, p.1227.
240Lett.94, p.1231.
241Cf. Lett.104, p.1122.
242Dial. VIII.
243Lett.113, p.569.
244Cf. Dial. XI, p. 35.
245Lett. 79, p.1047.
246Dial. VI.
247Dial. I, p.1.
248Lett. 86.
249Dial. VI.
250Lett. 79.
251Cf. Lett. 369.
252Lett.86, p.1081.
253Dial.LXXVI, p.198.
254Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p.13.
255Cf. Dial. CXLVIII.
256Dial. VII, p. 24.
257Cf. Carlo Riccardi C.M., Maria Santissima nella Vita e nel Pensiero di S. Caterina da Siena, Cantagalli, Siena, (1996)
258Cf. Giovanni Paolo II, Lett. apost. Tertio millennio adveniente (10 nov. 1994). n.43
259Cf. Lett. 184. p. 1527.
260Cf. Lett. 21. p. 1663.
261Cf. Lett. 276. p. 1658.
262Lett. 17. p. 1278.
263Lett. 15. p. 1604.
264Oraz., XI.
265Lett. 256. p. 1536.
266Lett. 134. p. 1293; cfr. Lett. 110. p. 579.
267Oraz., XVI, p. 130-131.
268Lett. 30. p. 1061-1062; cf. Lett. 144. p. 994-997; Lett. 240. p. 804-805.
269Lett.104, p.1125­1126.
270 Lett. 240.
271Lett. 184. p. 1525.
272Dial. CXXXIX., p.445
273Lett. 276. p. 1656.
274Dial.LXXVI, p.198
275Cf. Quando si impara una lingua e la possiede perfettamente: non pensa più alle regole, tuttavia parla senza offendere tali regole.








«le virtù sono connesse fra di loro, perché parlando con semplicità, una non può stare senza dell’altra; tuttavia ognuna ha il suo carattere particolare, che nessun altra può avere»1



Capitolo III

Le virtù cateriniane




1. La catena delle virtù

«Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel pretioso sangue suo, con desiderio di vedervi fondata in vera e reale virtù: però che senza il mezzo della virtù non potremmo piacere al nostro Creatore»2. Affinché le parole, che Santa Caterina ha rivolte una volta al destinatario di questa lettera, parlino anche a noi, cioè per lo scopo che il desiderio di Santa Caterina, concepito «nel pretioso sangue» del Figliuolo di Dio, sia compiuto in noi, e ella possa vederci «fondati in vera e reale virtù», adesso, in questo terzo capitolo, tento di compendiare quelle veri e reali virtù, che costituiscono il fondamento della dottrina e vita di Santa Caterina.
Beato Raimondo nel prologo della Legenda mette in risalto che Santa Caterina è veramente «Maestra di virtù»3 e questo fatto viene espresso pure dal suo nome, Caterina. «Se pronunci Caterina con una sincope, tu avrai catena, tu angiungi una sillaba, avrai il nome di Caterina.»4 Il nome di Santa Caterina afferma infatti che il fondamento della sua vita è la catena delle virtù. Come l’angelo dell’Apocalisse pure Caterina aveva una gran catena in mano5, in quanto ha «ricevuto dal Signore l’insieme di tutte le virtù»6 e le possedeva in modo perfetto. In seguito analizzeremo nel

contesto della dottrina cateriniana questa catena delle virtù per anelli, tratteremo le singole virtù come gli anelli di una catena, poiché «una non può stare senza l’altra; tuttavia ognuna ha il suo carattere particolare, che nessun altra può avere»7.
Scegliendo questi anelli di catena, trattiamo più particolarmente la virtù della fede, della speranza e della carità, di cui parla Santa Caterina come colonne dell’anima. Pure tra queste tre osserviamo principalmente, e con un’attenzione particolare, la virtù della carità che è la madre di ogni virtù. Delle altre virtù (l’umiltà, l’obbedienza, la giustizia, la perseveranza, la sollecitudine, la purezza, la povertà e la gratitudine) mi occupo invece secondariamente. Questo perchè per i limiti di questo lavoro ed anche per evitare le ripetizioni inutili. Se infatti è vero che la carità è la madre delle virtù, allora parlando di questa virtù parliamo così di tutte le altre. Tutto sommato la nostra considerazione non può corrispondere alle esigenze di completezza, ma vuol essere una sintesi che contiene i lineamenti più caratteristici del tema.

1.1 Le tre colonne dell’anima8

Santa Caterina spesso sottolinea l’unità fraterna di queste sorelle (fede, speranza, carità), figlie della sofia9: i servi di Dio «come banditori poveregli» portando con loro «la ricchezza della fede e della speranza, e con la fortezza e legame della carità» annunciano la verità10. Queste tre virtù sono tre colonne connesse «che conservano e mantengono la rocca dell’ anima», e poiché l’uomo non può avere né fede, né speranza se non in che ama: «queste tre virtù, l’una tiene dietro all’altra, però che amore non è senza fede, né fede senza speranza»11; «i giusti vissuti in carità, morendo in dilezione, quando viene l’estremità della morte se egli è vissuto perfettamente in virtù alluminato del lume della fede, con l’ occhio della fede, con perfetta speranza del sangue dell’ Agnello, veggono il bene il quale Io l’ò apparecchiato, e con le braccia de l’amore l’abbracciano»12.
Or con questo lume della fede e vera speranza passerete questo e ogni altro inganno del dimonio; con profonda umilità, inchinando il capo a passare per la porta stretta: seguitando la dottrina di Cristo crocifisso, acquisterete il dono della fortezza e della carità, della quale abbiamo detto ch’ è l’ arme con che noi ci difendiamo. Con che s’ acquista quest’ arme? col lume della santissima fede, come detto è. Sicché la fede con ferma speranza e con la carità (che altrimenti, non sarebbe fede viva) ci darà lume in cognoscere la nostra fortezza, Cristo dolce Gesù, e la debilezza de’ nemici. E la speranza ci farà certi ch’ ell’ è così, aspettando che ogni colpa sarà punita, e ogni fatica remunerata. E la carità ci fortifica contra ogni avversario.13
Oppure in un altro luogo:
Che dunque c’è bisogno? Ècci bisogno il sangue, nel quale sangue di Cristo trovaremo una speranza ferma, che ci tollarà ogni timore servile, e trovaremo la fede viva, gustando che Dio non vuole altro che el nostro bene, e però ci dé el verbo dell’ unigenito suo Figliuolo, e il Figliuolo ci dié la vita per rendarci la vita, e del sangue ci fece bagno per lavare la lebbra delle nostre iniquità. Per questo l’anima cognosce e tiene con fede viva che Dio non permettarà alle demonia che ci molestino più che noi potiamo portare, né al mondo che ci triboli più che siamo atti a ricevere, né al prelato che c’imponga maggiore obedientia che noi potiamo portare. [...] Chi ne sarà cagione? el lume della santissima fede, la quale trovaste nel sangue. Chi è cagione del lume? l’amore dell’ affocata carità, che truovaste nel sangue, [...] E perché el caldo del divino amore, che trovaste nel sangue, destrusse e consumò la tenebre dell’ amore proprio che obumbrava l’occhio che non vedeva14

1.1.1 La fede

Rimanendo all’espressione applicata da Santa Caterina possiamo dire che la sua propria vita era fondata nella fede, nella vera e reale virtù della fede. Ella era davvero quel giusto che viveva di fede sulla terra - come ha detto il suo caro maestro San Paolo apostolo15.
Una fede forte ha reso capace Caterina di servire il lebbroso come il suo celeste Sposo, il cui piacere l’ha cercato in ogni modo16. Beato Raimondo racconta della sua figlia spirituale che una frequente domanda che ha rivolta a Cristo era «che si degnasse aumentarle la fede, e le donasse la perfezione della virtù della fede. Il Signore [...] le rispose: “Io ti sposerò a me nella fede”»17, dimostrando quasi che ogni esperienza mistica ha le radici nel terreno della fede.
L’oggetto di tale fede è Dio, Colui che è, che è solo, che è il sommo Bene, che è la prima e dolce Verità, la Verità suprema.
Questa fede che dà vita all’anima è luce per essa. In questa luce della fede il giudizio dell’anima di ogni cosa del mondo diventa chiarissimo: sì o no.18 Per questo luce si distingue il bene dal male, l’eterno dal transitorio, la virtù dal vizio, il Creatore dal creato, quello che è degna d’amore da quello che è da odiare.
Si può dire che la fede è il fondamento del sistema delle virtù. La fede è infatti quella luce che - per sé - è la prima virtù, perché non si può amare Dio, né sperare in Lui, se non lo si conosce per fede; accidentalmente però - siccome senza umiltà non c’è fede - si può dire che la prima virtù è l’umiltà19.
La nobiltà dell’uomo proviene dal fatto che egli può vedere in questa luce della fede ed è capace di accorgersi delle grandezza di Dio nelle cose visibili ed invisibili.20 Il frutto della fede in questa vita è la pienezza della grazia, in quella futura è la vita eterna.
Questa luce è la luce della ragione. Questa luce ordina ogni cosa corrispondendo all’unico fine che è l’onore di Dio e la salvezza del prossimo. Questa luce ha reso possibile a Santa Caterina di scrivere come «serva e schiava de’servi di Gesù Cristo » a uomini diversissimi (piccoli e grandi, giovani ed anziani, casalinghe e singore nobili, religiosi e laici, governatori e papi, soldati e sacerdoti ) «nel prezioso sangue» del figlio di Dio «con desiderio di vedere in» loro «uno vero e perfettissimo lume», affinché riconoscano la verità che è necessaria per la loro «salute»21.
L’anima vede con gli occhi della ragione e con la pupilla22 della fede, e riconosce se stessa e la bontà di Dio in sé. Senza luce non si può riconoscere la verità. Chi crede però è illuminato dalla verità «col lume della santissima fede, la quale è la pupilla dell’occhio dell’intelletto, con che si cognosce la verità»23 di sé e di Dio.
Dove cognosceremo lui e noi? dentro nell’anima nostra. Onde c’è di bisogno d’intrare nella cella del cognoscimento di noi, e aprire l’occhio dell’intelletto, levandone ogni nuvila d’amore proprio. E cognoscendolo, noi non esser niente, e specialmente nel tempo delle molte battaglie e tentazioni; perocché, se fussimo alcuna cosa, ci leveremmo quelle battaglie che noi non volessimo. Bene abbiamo adunque materia di umiliarci, e spogliarci di noi; perché non è da sperare in quella cosa che non è. La bontà di Dio cognosceremo in noi, vedendoci creati all’imagine e similitudine sua, affine che participiamo il suo infinito ed eterno bene: e essendo privati della Grazia per lo peccato del primo uomo, ci ha ricreati a Grazia nel sangue dell’unigenito suo Figliuolo24.
Nel cognoscimento di noi, in verità cognosciamo, noi non essere, ma troviamo l’essere nostro da Dio, vedendo che egli ci ha creati alla imagine e similitudine sua. E nel cognoscimento di noi troviamo ancora la recreazione che Dio ci fece, recreandoci a Grazia nel sangue dell’unigenito suo Figliuolo; il quale sangue ci manifesta la verità di Dio Padre. La verità sua fu questa; che egli ci creò per gloria e loda del nome suo, e perch‚ noi participassimo l’ eterna bellezza sua, perch‚ fussimo santificati in lui. Chi cel dimostra, che questo sia la verità? Il sangue dello immacolato Agnello. Dove truoviamo questo sangue? nel cognoscimento di noi.25
L’anima riconosce che Dio - in quanto Egli è il sommo bene e l’origine di ogni bontà - «non può volere altro che ‘l nostro bene e, per darci quello vero bene, dié sé medesimo infino all’obrobiosa morte della croce: del quale bene fumo privati per lo peccato [...] adunque, bene è vero che Dio non vuole altro che ‘l nostro bene.» In questa luce si rafforza la convinzione della fede «che veramente ciò che aviene a noi, o per morte o per vita, o per infermità o per sanità, o ricchezza o povertà, o ingiuria che fusse fatta a noi da amici o da parenti o da qualunque creatura» è con il permesso e volontà di Dio, e senza la sua volontà non succede niente.26
Per questo la fede si collega molto fortemente con la virtù della pazienza e con le altre virtù nella concatenazione di esse. La fede rende il cuore semplice, poiché libera dal timore servile (che sorge sempre dall’amor proprio27). Così l’anima per la fede avrà la virtù del coraggio. Senza il coraggio l’uomo è timoroso e taglia il vigore di ogni santo proponimento28. Il vizio contrario del coraggio nato dalla fede è il timore servile che non riesce se non a danno proprio e a quello altrui, e finisce per perdere quel che si affamava di conservare. Il suo prototipo è l’agire di Pilato che per questo vizio ha lasciato crocifiggere Cristo29.
La fede rende perseveranti, perché dimostra nella sua luce che le difficoltà e le tentazioni Dio le permette soltanto per il nostro bene, per aumentare e rafforzare la nostra perseveranza30. Essa ci rende obbedienti e veramente umili (in quanto non permette che il vedere i nostri peccati causi confusione in noi dimostrando che Dio è più pronto a perdonare che noi a peccare31). Ad ogni perfezione noi giungiamo per la luce soprannaturale32. Questa luce rende tutto l’uomo maturo ed ordinato33, dà un cuore soprannaturale che non è schiavo delle sue passioni34, un cuore che non è triste, ma ha una gioia piena35, poiché è libero dalla fede messa nelle creature36.
Il vizio contrario della fede è l’incredulità, dalle cui tenebre libera l’anima il sacramento del battesimo37, il cui vermine lo uccide un coltello di due tagli: il coltello dell’amore e dell’odio38. L’incredulità è il frutto dell’orgolio e dell’amor proprio, e mette l’anima sotto il dominio del demonio39. L’incredulità rende incostante40 e «attosca tanto il gusto dell’anima, che la cosa buona gli pare cattiva, e l’amara dolce; il lume gli pare tenebre, e quello che già vide in bene, gli pare vedere in male.»41
sappiate che combattere e avere vittoria non potremmo fare, se non ci fusse il lume della sanctissima fede; né il lume potremmo avere, se dell’occhio dell’intelletto nostro non fusse tratta la terra d’ogni affetto terreno e gittata la nuvila dell’amore proprio di voi medesimo. Però che ella è quella perversa nuvila che in tutto ci tolle ogni lume, e spiritualmente e temporalmente. Temporalmente non ci lassa cognoscere la fragilità nostra e la poca fermezza e stabilità del mondo, né quanto questa vita è vana e caduca, né gl’inganni del demonio, quanto occultamente in queste cose transitorie elli ci inganna, e spesse volte sotto colore di virtù.42
La forza e la luce della santa fede è irradiata dalla santissima croce. Chi guarda con fede sulla croce e contempla «Dio umiliato a sé uomo» e crocifisso avrà una forza divina - non propria - contro il male:
l’anima fedele, che tutta la fede e la speranza sua abbi posto in sul legno della santissima croce [...], acquista ine tanta fede che non sarà neuno monte43, cioè monte di neuno peccato o superbia o ignorantia o negligentia nostra, comandandolo con fede viva per virtù di quella santissima croce, la volontà nostra non muova questo monte da vitio a virtù, da negligentia a sollicitudine, da superbia a vera e perfetta umilitù44.
L’anima che crede è molto attiva, poiché «la fede senza le opere è morta»45. Le opere della fede sono la preghiera continua all’onore di Dio, e il servizio del prossimo. L’azione della fede quindi è una lotta costante per poter perseverare nel bene, nell’amore di Dio, è un combattimento contro la sensualità, il mondo e il demonio46. L’atto della fede viva è l’atto dell’amore: «Questa è l’operazione della fede: che noi concepiamo in noi le virtù per affetto d’amore, e parturiranno e’ frutti con vera pazienzia nel mezzo del prossimo nostro, portando, e sopportando e’ difetti l’uno dell’altro»47. La fede quindi ha vita solo dall’amore. «fede viva non è mai senza opera. Che se fede fusse senz’ opera, sarebbe morta e partorirebbe e’ figliuoli suoi delle virtù morti, e non vivi. Però che colui che è senza il lume della fede, è privato della virtù della carità; e senza la carità neuno bene che faccia, o atto di virtù, gli vale a vita eterna»48.
Questa carità che fa viva la fede, sorge dalla luce della fede, per il fatto che l’intelletto si immerge nella conoscenza di Dio e della sua bontà.
Chi ne sarà cagione? il lume della sanctissima fede, la quale trovaste nel sangue. Chi è cagione del lume? l’amore dell’ affocata carità, che truovaste nel sangue, ché per amore questo dolce e amoroso verbo corse all’ oprobiosa morte della croce. E perché il caldo del divino amore, che trovaste nel sangue, destrusse e consumò la tenebre dell’amore proprio che obumbrava l’occhio che non vedeva, però ora vede, e vedendo ama, e amando teme Dio e serve al proximo suo.
In questa vita terrena dunque la fede e l’amore si incatenano come due anelli di catena e pongono le condizioni di tutte le altre virtù nell’anima. Questa catena però che unisce la fede e la cartià (e per la carità ogni altra virtù), collega pure la vita terrena con quella celeste, poiché «l’anima virtuosa, quando si parte da questa vita, entra a vita eterna, colla virtù della carità»49. L’anima non avrà bisogno della fede laddove vedrà faccia a faccia Colui in cui avrà avuto fede.

1.1.2 La speranza

L’anello seguente nella concatenazione delle virtù è la speranza, che è «dolce sorella della fede» e riguarda il frutto della fede che è la vita eterna50. Questa vita eterna realizza ogni speranza che è fondata nella carità. Nella vita eterna quindi non c’è bisogno di alcun speranza poichè l’anima possiede quello il cui possedere ha sperato51. Ma solo la speranza in Dio ha la ricchezza della vita eterna.52
Da dove proviene la forza della speranza? Da Cristo crocifisso, per cui l’anima può tutto, «in cui è posta, e si fermi continuamente, la nostra speranza»53.
La speranza in Cristo crocifisso spera nel Sangue dell’Agnello umile54. In virtù di questo Sangue spera che otterrà la corona della vittoria, e - con le chiavi del medesimo Sangue - apre la vita eterna55. «Annegatevi nel sangue di Cristo, dove ingrasserà l’ anima vostra per speranza»56- scrive Santa Caterina in una sua lettera.
L’anima, la quale crede che Dio è buono e non vuole l’altro che il bene, allora non spera né in sé, né in alcun altra creatura, ma solo in Dio che è costante e sicuro. La speranza si accerta dalla verità che ogni peccato sarà punito ed ogni fatica (fatta per il bene) avrà il suo premio57. La speranza rende capace l’uomo di sopportare le sofferenze con fede viva «credendo in verità, che quando egli vedrà che sia l’onore suo e la salute tua, egli il dolce Dio, ti darà altro tempo»58.
«Chi spera in lui, non gli manca mai; ma a misura tanto ci provede, quanto noi speriamo nella sua larghezza. Onde tanto saremo proveduti, quanto noi spereremo»59.
Qualche volta Dio fa aspettare l’anima fino all’estremità: «quando in tutto ella n’ à perduta la speranza, ed ella à quello che desidera».60
Una eroica manifestazione della speranza è la donazione totale a Dio nella povertà61. Il disprezzo del mondo (che è buono nella sua sostanza) è un altro aspetto della virtù della speranza, è una premessa indispensabile al suo pieno fiorire62.
I vizi contrari della speranza sono la disperazione, sperare nelle cose create e la speranza temeraria. Questi vizi fanno crescere il timore servile e indeboliscono l’anima. Santa Caterina non esita a ripetere l’oracolo del profeta: «maledetto si può chiamare colui che si confida nell’uomo.63
coloro che sperano in loro medesimi sono quegli che temono e ànno paura de l’ombra loro, e dubitano che non lo’ venga meno il cielo e la terra. Con questo timore e perversa speranza che pongono nel loro poco sapere, pigliano tanta miserabile sollicitudine in acquistare e in conservare le cose temporali, che pare che le spirituali si pongano doppo le spalle, e non si truova chi se ne curi.64
Il rimedio di tali vizi è il Sangue, da cui l’anima impara l’umiltà e riconosce la misericordia di Dio. «Questa è quella speranza umile, la quale non spera in sua virtù propria, né si dispera per veruna colpa che sia caduta nell’anima sua; ma spera nel sangue, e caccia la disperazione, giudicando maggiore la misericordia di Dio, la quale truova nel sangue, che la miseria sua»65.
Nel Dialogo la Verità così dà istruzioni a Santa Caterina sui due tipi contrastati della speranza:
quegli che perfettamente sperano in me - e chi spera in me bussa e chiama in verità, non solamente con la parola, ma con affetto e col lume della santissima fede - gustaranno me nella providenzia mia. Ma non coloro che solamente bussano e suonano col suono della parola, chiamandomi: «Signore, Signore!» Dicoti che se essi con altra virtù non m’ adimandano, non saranno cognosciuti da me per misericordia, ma per giustizia.Sí che Io ti dico che la mia providenzia non mancarà a chi in verità spera in me, ma in quelli che si dispera di me e spera in sè. Sai che speranza in due cose contrarie non si può ponere. Questo volse dire a voi la mia Verità nel santo Evangelio, quando disse: «Veruno può servire a due signori, chè, se serve a l’ uno, è in contempto a l’altro». Servire non è senza speranza, però che ‘l servo che serve, serve con esperanza che egli à di piacere al Signore, o serve per la speranza che à nel prezzo e utilità che se ne vede trarre. Al nemico del suo signore ponto non servirebbe; il quale servizio fare non potrebbe senza alcuna speranza, e vederebbesi privare di quello che aspettava dal signore suo. Or cosí pensa, carissima figliuola, che diviene a l’ anima: o e’ si conviene che ella serva e speri in me, o serva e speri nel mondo e in sè medesima66

1.1.3 La carità67

La carità è sorella della fede e della speranza. Il fatto che essa «non cessa mai»68 eleva la carità sopra tute le altre virtù. Non viene meno la carità verso il prossimo per i difetti di esso, e non viene meno l’amore di Dio nella prova, né per la mancanza delle consolazioni69. L’unica virtù che passa nell’aldilà, poiché la Pasqua del Figliuolo di Dio era la Pasqua dell’amore e dell’obbedienza fatta per amore70. Delle altre virtù non ce n’è bisogno nella vita eterna, perciò l’anima lasciando questa vita non porta con sé nessun’altra virtù tranne la carità71. La carità è la più perfetta virtù poiché entra nella vita eterna con i frutti delle altre.
solo la carità è quella che entra dentro come donna, menandone seco il frutto di tutte le virtù - e l’altre rimangono di fuore - in me, vita durabile, in cui essi gustano vita eterna, però che Io so’ essa vita eterna. Non ci salie la fede, perchè essi ànno quello, per pruova e in essenzia, che ànno creduto per fede; nè la speranza, perchè essi sono in possessione di quello che ànno sperato; e così tutte l’ altre virtù. Solo la carità entra come reina e possiede me, suo possessore.72
L’«inestimabile carità» di Dio ha chiamato la creatura nell’essere ed è essa che la ritiene alla vita eterna. La creatura che rimane «nella santa e dolce dilezione di Dio» partecipa a questa immensa carità divina73. L’amore nasce dall’amore e viene nutrito dall’amore. «Che è carità? È uno amore ineffabile, che l’anima ha tratto dal suo Creatore, con tutto l’affetto e con tutte le forze sue. Dico che l’aveva tratto dal suo Creatore: e così è la verità. Ma come si trae? coll’amore: perocché l’amore non s’acquista se non coll’amore e dall’amore»74. L’uomo non viene attratto se non dall’amore: «è conditione dell’amore che, quando la creatura si vede amare, subbito ama, come egli ama, elegge inanzi la morte che offendere quello che egli ama»75. Dell’amore di Dio l’uomo si accorge in se medesimo:
Ella si notrica nel fuoco dell’amore, perché s’à veduta tanto amare, quando vede sé esser stato quel campo e quella pietra dove fu fitto il gonfalone della santissima croce. Ché voi sapete bene che la terra né la pietra averebbe tenuta la croce, né chiovi né croce averebbero tenuto el verbo dell’unigenito Figliuolo di Dio, se l’amore non l’avesse tenuto. Adunque l’amore, che Dio ebbe all’anima nostra, fu quella pietra e quelli chiovi che l’ànno tenuto.76
Nella prospettiva dell’amore non pare più che sia crudele o arbitraria la subordinazione a Dio. Dio ama l’uomo immensamente, lo crea perché goda la felicità stessa di Dio ed abbia vita eterna, ma aspetta una libera risposta dell’amore. Dio vuole che l’uomo ami liberamente il suo Creatore77. Perciò l’autentica realizzazione della libertà è l’amore78.
Questa virtù è una regina, che possiede tutto quanto il mondo79. Come regina «possiede me, suo possessore» dice nel brano sopracitato il supremo, eterno e buon Padre. «Dunque bene è vero che l’ amore transforma, e fa una cosa l’ amato con colui che ama»80 Tutti quanti che servono a questa regina, accompagnandola, raggiungono allo stato di regnare, poiché servire a Dio - che è l’Amore - non è servire, ma regnare81. Per questo la dignità dell’uomo - la cui dignità non è altro che regnare nell’amore - è fondata in questa virtù, poiché questa regina unisce l’anima con Dio: «quando l’amore e l’affetto si leva da sé, e pollo tutto in Cristo crucifisso, egli viene nella maggiore degnità che possi venire, però che diventa una cosa col suo creatore. [...] E non la può riputare a sé quella dignità e unione, ma all’amore»82. In questo senso l’amore non è che il nostro debito che dobbiamo a Dio83. Peccando però l’uomo perde la sua dignità - ricevuta nella creazione - e diventa debitore del demonio. Cristo però ha «stracciata la carta dell’ubligagione fra l’uomo e ‘l dimonio, che per lo peccato era ubligato a lui»84 «stracciandola in su legno della santissima croce»85. L’uomo è così grande davanti a Dio come grande e vivo è il suo amore86.
L’amore è un albero il cui midollo sono la pazienza e la «benevolenzia» verso il prossimo87. La forte unità delle virtù è fondata in questo albero della vita. Esprimendoci con un termine tecnico della teologina morale possiamo dire che questa immagine mette in rilievo la connessione delle virtù. La descrizione dell’albero lascia facilmente intuire le connesse funzioni delle diverse virtù: come la terra nutre l’albero, così l’umiltà alimenta la carità, e come la misura della terra è data dal cerchio, così l’umiltà è in proporzione del duplice conoscimento, dal quale germoglia, insieme con la carità, la discrezione ed ogni altra virtù.88
Allora l’arbore della carità si nutrica nella umilità, mettendo dallato il figliuolo della vera discrezione come detto t’ ò. Il mirollo dell’ arbore, cioè dell’ affetto della carità che è nell’ anima, è la pazienzia, la quale è uno segno dimostrativo che dimostra me essere nell’ anima e l’ anima unita in me. Questo arbore, cosí dolcemente piantato, gitta fiori odoriferi di virtù con molti e variati sapori; elli rende frutto di grazia all’ anima e frutto d’ utilità al prossimo, secondo la sollicitudine di chi vorrà ricevere de’ frutti de’ servi miei89.
L’amore è la madre delle virtù, ma come senza l’amore non ci sono gli altri virtù, così senza le altre virtù non può esserci un autentico amore90 di cui balia è l’umiltà91.
Una forma speciale della carità è la politica. Santa Caterina apprezza molto l’impegno politico e la pratica in modo eroico lavorando, pregando, viaggiando nel servizio della pace, sì che «a pieno titolo può essere considerata un vera mistica della politica»92.
Una forma particolare dell’amore è l’amore verso la patria. Anche questo deve essere ordinato in Dio, altrimenti produce ingiustizie e dalle ingiustizie nascono guerre, rapine e violenze. La virtù dell’amor patrio aiuta l’anima, unita a Dio, a compiere i doveri che appartengono alla sua vocazione, questo amore rafforza in questa anima lo spirito del sacrificio e della fedeltà, a volte fino al martirio. Benché «la cittadinanza nostra sia nei cieli93, noi non possiamo meritare qesta patria celeste se non per l’amore verso la patria terrena, sapendo bene che «non doviamo fare differenzia più d’uno che d’un altro»94. La causa della mancanza dell’amor patrio - come il motivo dell’assenza di qualsiasi virtù - è l’amor proprio: Santa Caterina scrive ai tre Cardinali italiani che hanno rinnegato il vero papa: «Cristo in terra italiano, e voi italiani, che non vi poteva muovere la passione della patria, come gli oltramontani: cggione non ci veggo, se non l’amore proprio»95.
Il vizio contrario dell’amore è «l’amore sensitivo», che è il principio di ogni disordinato amore e si manifesta per l’amor proprio e per l’odio del bene96. Questo vizio «tolle il lume della ragione e non lassa cognoscere la verità; tolle la vita della Grazia, e dacci la morte; tolleci la libertà e facci servi e schiavi del peccato»97. La conoscenza di sé libera l’uomo da questo vizio e porta alle veri e reali virtù98, a quell’amore che vive nell’uomo nuovo. La legge dell’amore non la può osservare alcun uomo se non l’uomo nuovo99. Questo amore è fondato in Dio ed esige per natura che l’uomo ami nel prossimo suo la virtù e l’immagine di Dio100. Questo amore include pure l’odio, il cui oggetto però è la sensualità propria che si ribella costantemente contro l’amore autentica. L’amor proprio caccia l’amore di Dio101, e per questo amore divino l’anima sale sulla croce dove attinge all’amore ineffabile di Cristo crocifisso, Dio e uomo: «ci dobbiamo attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità; e col mezzo della carne sua trarremo il latte che notrica l’ anima nostra, e’ figliuoli delle virtù: cioè per mezzo dell’umanità di Cristo; perocchè nell’umanità cadde, e sostenne, la pena, ma non nella deità»102.
Possiamo dire pure che ogni vizio è vizio proprio perché offende la carità. Questo «offendere la carità» è il peccato:
Il peccato è quello che ci chiude la porta, e tolleci il fine per lo quale fummo creati: il peccato ci tolle la vita, e dacci la morte; tolleci la luce, e dacci la tenebra, perché offusca l’ occhio dello intelletto, e non gli lassa vedere il sole né la tenebra, la tenebra dico del cognoscimento di sé, dove vede e truova la tenebrosa sensualità, che sempre ribella e impugna contra il suo Creatore; e perché non vede la tenebra sua, però non può cognoscere l’ amore e il lume della divina bontà.103
Il peccato è offesa dell’amore quindi una cosa gravissima: «Vedete che è tanto abbominevole dinanzi a Dio il peccato, che permise che il Figliuolo ne sostenesse morte e passione, ed egli con tanto amore sostenne pena, strazi, scherni e villania, e nell’ ultimo l’ obrobriosa morte della croce»104.
Concludiamo questa parte - in cui abbiamo parlato dell’amore - con le righe prese da una lettera, che trasmettono una certa versione dell’inno paolino indirizzato alla carità cristiana:
perfettissima Carità. La quale Carità non cerca le cose sue. Ella è libera, e non è serva della propria sensualità: è larga, che dilata il cuore nell’ amore di Dio, e dilezione del prossimo suo; e però sa portare e sopportare i difetti delle creature per amore del Creatore: ella è pietosa, e non crudele, perch‚ ha tolto da s‚ quello che fa l’ uomo crudele, cioè l’ amore proprio di s‚; e però riceve caritativamente con grande pietà il prossimo suo per Dio: ella è benevola, pacifica e non iraconda: ella cerca le cose giuste e sante, e non le ingiuste; e come le cerca, così le serva in s‚; e però riluce la margarita della giustizia nel petto suo. La Carità, se elle lusinga, non inganna; e se riprende, non ha odio n‚ ira: ma caritativamente ama tutti come figliuoli; o lusingando o riprendendo, in qualunque modo si sia. Ella è una madre che concepe nell’ anima i figliuoli delle virtù, e parturisceli per onore di Dio nel prossimo suo. La sua balia è la profonda umilità. E che cibo gli dà questa sua nutrice? Cibo del lume e del cognoscimento di s‚: col quale lume ha cognosciuta la miseria sua e la fragile sensualità, cagione d’ ogni miseria sua e la fragile sensualità, cagione d’ ogni miseria. Con questo cognoscimento s’umilia, e concepe odio verso s‚ medesima; e con questo notrica in s‚ il fuoco della divina carità, cognoscendo la ineffabile bontà di Dio, la quale bontà è principio e fine d’ ogni suo cognoscimento.105


1.2 Le figliuole della carità

Tra le virtù sono quelle le più importanti che sono «le gemme» dell’umanità di Cristo. Benché - per «l’unione della natura divina con l’umana»106 - nel Dio-uomo si trovi il fondamento di tutte le virtù, tuttavia sono eccezionalmente significative quelle virtù che nella sofferenza, sopportata per la salvezza dell’uomo, ha dimostrato «Colui che non conosceva il peccato»107. Così è per esempio l’obbedienza che è la verificazione dell’amore del Figlio verso il Padre; la perseveranza e la pazienza per le quali il Figlio ha imparato questa obbedienza nella sofferenza108; l’umiltà, per cui lasciando la sua gloria divina il Verbo eterno «svuotò se stesso»109 ha accettato le incomprensioni, le ironie, le ingiurie e - alla fine - l’obbrobriosa morte della croce; l’amore della povertà, per cui viveva come falegname di Nazaret, ed - Egli, donatore di ogni ricchezza - è morto così che non aveva dove posare il capo110.
Le virtù sono vere e reali appunto perché le ha avute il Figlio di Dio che solo è e vero.




1.2.1 La perseveranza

Tra le figlie della cartià Santa Caterina menziona la perseveranza accanto alla pazienza e l’obbedienza come regina: «la perseverazione è quella reina che è coronata, e sta in mezzo della fortezza e vera pazienza; ma ella sola riceve corona di gloria»111. Solamente la «perseveranza è incoronata, ma none il cominciare»112. Dalla perseveranza nasce fortezza e pazienza, e la perseveranza rende l’anima virile. La frase conclusiva di molte lettere - «Permanete nella santa e dolce delezione di Dio» - in realtà non fa altro che sollecitare alla perseveranza, cioè rivela il fondamento e la condizione della perseveranza: il rimanere nel bene infatti è il frutto dell’amore ordinato113.
L’essere perseverante è lo stato «naturale» dell’anima, infatti «ella à infinito essere, e però ella infinitamente desidera e non si satia mai se non si congiogne collo infinito114». L’anima dopo aver riconosciuto che senza perseveranza non raggiunge lo scopo della vita, cerca di acquistarla con sollecitudine: «Con fede viva cognobbe che ogni colpa è punita, e ogni bene è remunerato; e però abbraccia la virtù e spregia il vizio. Con grande sollecitudine diventa costante e perseverante in fino alla morte; in tanto che né dimonio né creatura né la fragile carne il fanno vollere il capo addietro, quando questo lume perfettamente è nell’ anima»115
La perseveranza «fa l’ anima forte, che mai non indebolisce; fa il cuore largo e non stretto, che vi cape ogni creatura per Dio, in tanto che tutte reputa che siano l’ anima sua»116. In questa perseveranza l’anima viene aiutata dalla perghiera continua, poiché l’orazione senza intermissione e la perseveranza rafforzano e condizionano l’una l’altra.117
L’anima che possiede la virtù della perseveranza:
- non indietraggia per le prove e non si rallenta per la disordinata gioia sopra i propri successi, cioè «non volle il capo a dietro»118.
- impara ad affidarsi a Dio, perché essa riconosce - con il tempo - che Egli permette tutto per il nostro bene, visto che abbiamo virtù:
Queste sono battaglie che vengono; le quali non fanno però danno nell’ anima; né queste né altre molte miserabili e dissolute battaglie, se la propria volontà non consente. Perocché Dio non le dà per nostra morte, ma per vita; non perché noi siamo vinti, ma perché noi vinciamo, e perché sia provata in noi la virtù. Ma noi, virili, con lume della santissima fede apriamo l’ occhio dell’ intelletto a ragguardare il sangue di Cristo crocifisso, acciocché si fortifichi la nostra debilezza, e cognosciamo la virtù e la perseveranzia in questo glorioso e prezioso sangue.119
- si fortifica nelle virtù per la mortificazione, per le veglie, per le preghiere umili e continue, e così le sue virtù diventano provate120: «E per questo va innanzi, e non torna indietro; crescendo di virtù in virtù; esercitandosi con la vigilia e con la umile e continua orazione»121
- è capace di perseverare accanto a un consigliere122.
- diventa colonna e fortezza per la Chiesa e per il prossimo123.
Il vizio contrario della perseveranza è l’incostanza. La causa di questo è l’amor proprio, per cui l’uomo si occupa di soddisfare la sua voglia propria, e così si disperde nelle cose transitorie. Per questo «egli è fatto incomportabile a sé medesimo»124. L’incostante perde la sua libertà «facendosi servo e schiavo del peccato, e del mondo con le sue delizie, e della propria fragilità»125. Perseverare nel male è l’opera del malvagio: «Perocché umana cosa è il peccare; ma la perseveranzia nel peccato è cosa di dimonio»126.

1.2.2 L’obbedienza

L’obbedienza, è quella virtù che condivide la dignità di regina della perseveranza e che rimedia al primo peccato, il peccato di Adamo, cioè ricostruisce l’ordine originale della creazione. La triste situazione dell’umanità dopo il peccato infatti viene descritto da Santa Caterina così: «neuna virtù ci conduceva a porto di vita, perocché la marcia della disobedienzia di Adam non era levata con l’obedienzia del Verbo, unigenito Figliuolo di Dio»127. L’uomo infatti disobbedendo è diventato nemico di Dio, Egli però con l’umile obbedienza ha distrutto la sua superbia128 in Cristo crocifisso. Il Padre eterno dice nel Dialogo a Santa Caterina che il Verbo «v’insegnò la via dell’obedienza come vostra regola, facendosi obedienti infino all’obrobriosa morte della croce, Nella cui obedienza, che fu la chiave che diserrò il cielo, è fondata l’obedienza»129. Gesù attira dalla croce tutti gli uomini per coinvolgerli nel suo stesso movimento di dedizione all’amore del Padre, che si attua nell’obbedienza alla sua volontà. Perciò l’obbedienza non è una virtù accanto a tante altre, ma è ciò che le assomma in quanto è espressione dell’amore ardente verso Dio e per la salute delle anime. Tale amore non è mai solo, ma è sempre accompagnato dalle vere e reali virtù130.
Se c’è negli scritti cateriniani una virtù che abbia una trattazione completa e organica, questa è la virtù dell’obbedienza. Il «trattato dell’obbedienza» costituisce l’ultima e conclusiva parte del Dialogo, ed è naturale che sia così, perché il Dialogo è la storia dell’umanità nei suoi rapporti con Dio, e l’obbedienza è la risposta dell’uomo alla Provvidenza divina che lo conduce, per i casi vari della vita, al suo termine beato, senza violentare la sua libertà131.
L’obbedienza è la chiave che ha aperto il cielo che aveva serrato la disobbedienza di Adamo. Cristo ha concesso questa chiave a «Cristo in terra», al papa «questo vicario la pone in mano d’ ogni uno, ricevuto e il santo battesmo, dove egli promette di renunziare al dimonio, al mondo, alle pompe e delizie sue: promettendo d’ obbedire riceve la chiave de l’ obbedienzia. Sì che ogni uno l’ à in particulare, ed è la medesima chiave del Verbo.»132, chi promette l’obbedienza, riceve la chiave dell’obbedienza.
L’anima trova l’obbedienza nel «dolce ed amoroso Verbo». Per questa virtù viene «il cuore e l’affetto [...] innestato in su la dolce e venerabile croce [...] Perocché senza questo innesto non basterebbe a noi che la natura divina sia innestata e unita nella natura umana, e la natura umana con la natura divina.»133 L’obbedienza dunque - similmente alla carità - è un debito dell’uomo, dovuto a Dio:
Ogni creatura, figliuoli carissimi, che ha in sé ragione, debbe essere obediente a’ comandamenti di Dio. La quale obedienzia leva via la colpa del peccato mortale; e riceve la vita della Grazia. Perocché con altro strumento non si leva la colpa. Nella obedienzia si leva la colpa, perocché osserva i comandamenti della legge; e nella disobedienzia offende, perché trapassa quello che gli fu comandato, e fa quello che gli è vietato; onde ne gli nasce la morte e elegge subito quello che Cristo fuggì, e fugge quello che egli elesse. Cristo fuggì le delizie e li stati del mondo; egli lo cerca, mettendo l’ anima sua nelle mani delle dimonia per potere avere e compire i suoi disordinati desiderii; fuggendo quello che ‘l Figliuolo di Dio abbracciò, cioè scherni, strazii, vituperii, i quali con pazienza portò infino all’ obrobriosa morte della croce, e umilmente, in tanto che non è udito il suo grido per veruna mormorazione; ma sostenne infino alla morte per compire l’ obedienzia del padre e la salute nostra. Ma Colui che è obediente, seguita le vestigie di questo dolce e amoroso Verbo, e cerca l’ onore di Dio e la salute dell’ anime134.
L’obbedienza e la perseveranza, due figlie della cartià, vanno sempre insieme e si rafforzano l’una con l’altra: «O obedienzia, [...] tu se’ una reina coronata di fortezza; tu porti la verga della lunga perseveranzia» 135.
Ma l’obbedienza comporta sempre anche l’umiltà, poiché Cristo - Dio-uomo, il mediatore delle virtù per l’anima - è stato obbediente per umiltà «sino alla morte e alla morte di croce»136. L’umiltà è balia e nutrice della carità e dell’obbedienza. Queste ultime sono connesse, «o due o veruna»137.
È lo specchio dell’obbedienza pure Maria «quella dolcissima e carissima Madre, che volontariamente perde l’amore del Figliuolo: che non tanto ch’ ella faccia come madre, che ‘l ritraga dalla morte, ma ella si vuole fare scala e vuole ch’ egli muoia»138.
Il seguente brano rappresenta bene quella catena delle virtù di cui anelli sono connessi per la carità, realizzata nell’obbedienza:
O gloriosa virtù, che porti teco l’ umilità! Perocché, tanto è l’ uomo umile quanto obediente, e tanto obediente quanto umile. Il segno di questa obedienzia, che ella sia nel suddito, è la pazienzia; con la quale pazienzia non vorrà recalcitrare alla volontà di Dio n‚ a quella del prelato suo, guarda già che non gli fusse comandato cosa che fusse offesa di Dio, perocché a questa non debbe obedire; ma a ogni altra cosa sì. Questa virtù non è sola, quand’ ella è perfetta nell’anima; anco, è accompagnata con lo lume della fede fondata nell’ umilità; perocché altrimenti non sarebbe obediente con la fortezza e con la lunga perseveranzia, e con la gemma preziosa della pazienzia139.
Caterina scrive in una lettera: «fatti liberi, sarete legati nel legame della carità»140. Il legame della carità è appunto l’obbedienza, come leggiamo nel Dialogo:
Innamorati, dilettissima figliuola, di questa gloriosa virtù. Vuogli tu essere grata de’ benefizi ricevuti da me Padre eterno? Sia obbediente, però che l’obbedienza ti mostra se tu se’ grata, perché procede dalla carità. Ella ti dimostra se tu non se’ ignorante, perché procede dal cognoscimento della mia Verità.141
«Si potrebbe dire che l’obbedienza, così intesa, non è se non carità in atto.»142
L’anima obbediente corre «morto» sulla strada che viene segnata dall’obbedienza di Cristo crocifisso. In Lui è la pienezza dell’obbedienza, compiuta nella più eroica pazienza. L’obbedienza infatti consuma i dolori disordinati del cuore poiché «l’obedienzia tolle quella cosa che ci dà pena, cioè la propria e perversa volontà»143e l’amor proprio sensitivo.
O obedientia dolce, che non ài mai pena: tu fai vivere e corrire gli uomini morti, perché uccidi la propria volontà, e tanto quanto è più morto, più corre velocemente; però che la mente e l’ anima che è morta all’ amore proprio d’ una perversa volontà sensitiva più leggiermente fa el corso suo e uniscesi col suo sposo etterno con affetto d’ amore. E viene a tanta elevatione e dolcezza di mente che, essendo mortale, comincia a gustare l’ odore e ‘l frutto delli immortali»144.
L’obbedienza è l’ornamento dell’abito della sposa, vestita di sole. Lo dimostra splendidamente la vita di Santa Caterina che era obbediente verso tutti145.
È la colonna della vita religiosa (accanto alla povertà e la purità). C’è infatti l’obbedienza generale che spetta a tutti e l’obbedienza particolare che spetta ai religiosi. Tutte e due sono carità tradotta in azione. L’obbedienza dei religiosi non è, in sé, una virtù diversa da quella a cui tutti gli uomini sono tenuti. Diverso è l’impegno, consacrato dal voto, col quale l’uomo che ha ricevuto più luce e più amore si lega ad una obbedienza piena e totale, e non dei soli comandamenti ma anche dei consigli evangelici.146 Per questo soprattutto per i religiosi è necessario che «s’inchinino per la porta stretta della santa obedientia, acciò che la superbia della loro volontà non lo’ rompesse il capo»147 poiché «avendo tagliato per la virtù di Dio il vizio della superbia, troverenci radicati nella virtù santa della carità, la quale dimostreremo nella virtù della santa ubedientia, che dimostraremo per la virtù della santa umilità»148. Per i religiosi, che sono consacrati a Dio, la fedeltà alla virtù dell’obbedienza è proprio fondamentale, infatii «I secolari obedienti osservano i comandamenti di Dio; e i religiosi osservano i comandamenti e i consigli, come hanno promesso alla santa Religione»149.
L’amore, umiltà e l’obbedienza sono eccezionalmente connessi: «Pensate, che tanto quanto sarete umili, tanto sarete obedienti; ché della obedienzia nasce la vena dell’ umilità, e dall’ umilità l’ obedienzia; le quali escono dal condotto dell’ ardentissima carità. Questo condotto della carità trarrete dal costato di Cristo crocifisso»150.
L’obbedienza non è una difficoltà a chi vive nella carità perfetta151.
Questa virtù rende il cuore sereno, poichè lo collega con Dio e separa dal peccato come ha insegnato l’eterno Padre a Santa Caterina:
Tu se’ dritta senza veruna tortura, perchè fai il cuore dritto e non ficto, amando liberamente e non fittivamente la mia creatura. Tu se’ un’ aurora che meni teco la luce della divina grazia. Tu se’ uno sole che scaldi, perchè non se’ senza il calore della carità. Tu fai germinare la terra: ciò è che gli stormenti dell’ anima e del corpo tutti producono frutto, che dà vita in sè e nel prossimo suo. Tu se’ tutta gioconda, perchè non ài turbata la faccia per impazienzia, ma à la piacevole con la piacevolezza della pazienzia, tutta serena di fortezza. Se’ grande con longa perseveranzia: si grande che tieni dal cielo alla terra, perchè con essa si diserra il cielo. Tu se’ una margarita nascosta e non cognosciuta, calpestata dal mondo, avilendo te medesima sottoponendoti alle creature. Egli è sì grande la tua signoria, che niuno è che ti possa signoreggiare, perché sei escita della mortale servitudine della propria sensualità la quale ti tolleva la dignità tua. Morto questo nimico con l’odio e dispiacimento del proprio piacere, ài riavuta la tua libertà.152
L’obbedienza è la sposa dell’anima, (soprattutto nel caso di un religioso) «la quale gli fu data dalla madre della carità, sposata con anello della fede»153
Il vizio contrario dell’obbedienza è la disobbedienza, che è figlia della superbia e fonte di ogni peccato.

1.2.3 La pazienza

La carità-madre, che viene chiamata da Santa Caterina «reina», oltre alla perseveranza e all’obbedienza fa partecipare della sua dignità pure la pazienza: «nella ingiuria riluce la pazienzia, reina, che tiene la signoria e signoreggia tutte le virtù, perchè ella è il mirollo della carità»154 - dice la prima e dolce Verità nel Dialogo; e più avanti: «questa pazienzia è reina, posta nella rocca della fortezza. Ella vince e non è mai vinta»155. Ed in una lettera leggiamo: «ella è una reina, che signoreggia la impazienza, non si lascia vincere all’ ira: non si pente del bene adoperato, del quale spesse volte ne riceve fatiche e tribulazione; anco, gode e ingrassa, l’ anima, di vedersi sostenere senza colpa»156.
La pazienza è segno di amore157. La carità si esercità infatti nel prossimo, e con la pazienza si prova che la carità è vera.
La pazienza - come regina - ha accanto a sé tutte le altre virtù. La pazienza infatti è segno che l’anima è obbediente e verificata in ogni vitù:
O quanto è dolce e gloriosa questa virtù, in cui son tutte l’altre virtù, perch’ella è conceputa e parturita dalla carità. In lei è fondata la pietra della santissima fede; ella è una reina che, di cui ella è sposa, non sente veruno male: sente pace e quiete. L’onde del mare tempestoso non gli possono nuocere, che l’ offendano, per veruna sua tempesta, il mirollo de l’anima. Non sente l’ odio nel tempo della ingiuria, però che vuole obedire, chè sa che gli è comandato che perdoni; non à pena che l’ appetito suo non sia pieno, perchè l’ obbedienzia l’ à fatto ordinare a desiderare solamente me, che posso e so e voglio compire i desideri suoi: àllo spogliato delle mondane allegrezze.158.
La pazienza «dimostra il lume ch’ è nell’anima che la possiede; cioè dimostra che l’ anima col lume della santissima fede ha veduto e cognosciuto che Dio non vuole altro che il suo bene: e ciò che esso dà e permette a noi in questa vita; dà per nostra santificazione»159. La pazienza ha con sé la gratitudine e la conoscenza di sé, poiché nasce dalla gratitudine che proviene dalla vera consoscenza160.
La pazienza ha la virtù del discernimento, non dimenticando e ritenendo sempre nella memoria che «le sofferenze del tempo presente non han nulla a che fare colla gloria che dev’essere manifestata in noi»161. L’anima paziente considera la piccolezza della fatica e la grandezza del frutto. Il frutto è infinito, ma la fatica piccola poiché relativa al tempo che è breve:
E ‘l vedrete bene, ch’ egli [il tempo] è tanto piccolo che l’ uomo nol può imaginare. Il tempo ch’ è passato, voi non l’ avete; ‘l tempo ch’ è a venire, non siete sicuro d’ averlo: solo dunque questo punto del tempo presente avete, e più no. Dunque la fatica passata non c’ è ne l’avvenire; però che non siamo sicuri d’ averla, ma tanta fatica abbiamo quantoil tempo; più no. Bene è dunque vero, ch’ è piccola162.
La pazienza dimostra se noi in verità amiamo o meno il nostro Creatore; perocché «ella è il midollo della carità: ché carità non è senza pazienzia, né pazienzia senza carità»163. Di conseguenza Santa Caterina afferma che «tra l’ altre virtù questa ci è la più necessaria»164.
O vera e dolce pazientia, la quale se’ quella virtù che non se’ mai venta, ma sempre vinci! Tu sola se’ quella che mostri se l’ anima ama el suo creatore o no. Tu ci dài speranza della gratia. Tu solvi l’odio e il rancore del cuore. Tu tolli el dispiacere del prossimo. Tu privi l’ anima della pena. Per te i grandi pesi delle molte tribulationi diventano leggieri, e per te l’amaritudine diventa dolce; in te, patientia, virtù reale, acquistata con la memoria del sangue di Cristo crucifisso, troviamo la vita165
Il vizio contrario della pazienza è l’impazienza. Essa è sorella della incostanza (vizio contrastante alla perseveranza), e causa dei danni simili a quelli della incostanza. Cioè l’uomo privo della pazienza non è libero per il fatto che è legato al proprio egoismo ed alle cose transitorie di questo mondo. Chi non è legato fortemente dall’amore divino non può essere né perseverante, né paziente.

1.2.4 L’umiltà

Il punto di partenza della considerazione sulla virtù dell’umiltà è un fatto storico: «Dio umiliato a sé uomo, e per stirpare la nostra superbia, fugge l’ onore e la gloria umana, e abraccia le vergogne e le ingiurie, scherni e vituperi, pena, fame, sete, e persecutioni»166. Questa è l’umiltà che attira la sposa, consacrata a Cristo, quando ella contempla lo Sposo, immolato, trafitto ed inchiodato sulla croce. Cioè nel Verbo incarnato risplende in tutta la sua perfezione la virtù dell’umiltà167: «La sua umiltà stirpa la nostra superbia; egli è regola che tutti ci conviene seguitare»168.
La luce della ragione unita con quella perfetta della fede porta all’umiltà. Questa luce c’indica nella valle dell’umiltà il luogo dove fondare l’edificio della nostra perfezione spirituale. E se, invece di edificio, si parlerà di albero, la valle dell’umiltà sarà ancora il luogo al riparo dei venti. Proprio con la figura dell’albero Santa Caterina ci dà il senso della funzione insostituibile dell’umiltà nella nostra crescita spirituale169. Come la misura della terra di questa immagine è data dal cerchio che la limita, così l’umiltà è proporzionale alla conoscenza che abbiamo di Dio e di noi170.
Non è necessario avere molti difetti per essere umili, perché la massima perfezione che la creatura possa ragiungere non toglie nulla alla sua essenziale dipendenza da Dio. Ma i difetti che abbiamo sono utili per aiutarci ad esercitare praticamente l’umiltà ad acquistarne un senso più vivo.171
L’umiltà mostra i limiti e anche la nobiltà della natura umana172: «Non potremo vedere la nostra dignità né i nostri difetti [...] se noi non ci andassimo a specchiare nel mare pacifico della divina Essenzia»173
L’amore della verità rende umile l’uomo. E la verità è questa: l’uomo non è da sé, il suo essere e tutti i doni sopra l’essere (tra questi anche le virtù) li riceve da Dio. Dio ci ha dato l’essere per amore, ce l’ha dato a sua immagine e somiglianza174. Dopo che l’uomo ha perso i doni della vita Dio - mosso dall’amore - l’ha ricreato nella grazia per Cristo crocifisso175. «Per umiltà la somma altezza discese alla bassezza della nostra umanità; e per umiltà e amore inefabile ch’egli ebbe a noi, si dié l’umanità sua all’ obrobiosa morte della croce, eleggendo la via de’tormenti, de’fragelli stratii e vituperi»176. Che cosa ha causato questa opera dell’amore? - Santa Caterina risponde con vera umiltà: «le nostre virtù che non ci sono? No: ma solo la sua infinita misericordia»177.
Questa è la verità per il cui amore l’anima umile sopporta ogni fatica con pazienza; e per questo l’umiltà è balia e nurtice dell’amore, e l’amore partorisce l’umiltà178. Per l’unità della catena delle virtù l’umiltà è la balia pur dell’obbedienza:
Questa virtù à una nutrice che la nutrica, cioè la vera umilità, unde tanto è obbediente quanto umile e tanto umile quanto obediente. Questa umilità è baglia e nutrice della carità, e però notrica il latte suo medesimo la virtù de l’obedienzia. Il vestimento suo, che questa nutrice le dà, è l’avilire sè medesimo, vestirsi d’ obrobri, di scherni e di villanie, dispiacere a sè e piacere a me.179
L’umiltà - come sorella dell’obbedienza - è la base e condizione di ogni unità, sia questa unità nell’anima o «fuori» (cioè nell’insieme di persone diverse)180.
I santi camminavano tutti sulla strada dell’umiltà, cominciando da Sant’Agnese da Montepulciano fino a Santa Maria Maddalena181. Ma prima di tutti Maria Santissima, l’Ancilla del Signore, ha preso questa strada: colei, sulla cui umiltà rivolgendo i suoi sguardi182, Dio la amò183. La piccola virtù dell’umiltà «costrinse e inchinò Dio a fare incarnare il Figliuolo dolcissimo suo nel ventre di Maria»184. L’umiltà ha fatto Maria capace di accompagnare suo Figlio dalla povertà della grotta di Betlemme fino all’obbrobrio della croce, in virtù di questa umiltà Maria era così unita con la verità di Dio che ella - se fosse stato necessario - avrebbe voluto costruirsi scala per aiutare il Figlio a salire sulla croce185.
E in tanto gli piacque la virtù dell’ umilità di Maria, che fu costretto per la bontà sua di donare a lei il Verbo dall’unigenito suo figliuolo; ed ella fu quella dolce Madre che il donò a noi. Sapete bene, che infino che Maria non mostrò col suono della parola l’umilità e la volontà sua, dicendi: «Ecce Ancilla Domini; sia fatto a me secondo la parola tua»; il figliuolo di Dio non incarnò in lei; ma, detta che ella l’ebbe, concepette in sé quello dolce e immacolato Agnello, mostrando in questo a noi la prima dolce Verità, quanto è eccellente questa virtù piccola, e quanto riceve l’ anima che con umilità offera e dona la volontà sua al Creatore. 186
L’Onnipotente ha mostrato in Maria non solo la perfetta umiltà ma anche il premio di questa virtù, quando l’ha assunta e l’ha incoronata in cielo. In Maria si manifesta pure il premio della povertà, voluta per umiltà, poiché questa dolce Madre essendo pur povera aveva «la ricchezza del Figliuolo di Dio»187.
Il vizio contrario dell’umiltà è la superbia che è la madre di tutti gli altri vizi, la cui manifestazione tra l’altro è «l’umiltà stolta» che solo pare di essere vera umiltà188.
La superbia è una nostra stima errata, quasi di esseri autonomi 189. Come la carità ha per suo midollo la pazienza, così la superbia ha per suo midollo l’impazienza. L’amor proprio nutre la superbia. La superbia è insieme la prima e l’ultima colonna del male (queste: superbia, avarizia, lussuria), perché tutti i vizi sono conditi con essa, come tutte le virtù sono condite e ricevono vita dalla carità190.




1.2.5 La sollecitudine

La sollecitudine sorge dall’umiltà e dalla gratitudine, ed è mossa dal santo desiderio. L’anima riconosce con la luce della fede la ragione della vita: la vita è stata donata all’uomo affinchè operi per la gloria di Dio, per la salvezza delle anime e per il bene comune, cioè - in ultima analisi - servi il prossimo suo e fatichi per acquistare le virtù. L’anima riconosce che non ha tanto tempo per lavorare a questo scopo. Vede «la brevità del tempo, il quale è tanto caro a noi. Però che nel tempo si può acquistare la vita durabile, e perderla, secondo che piace a noi; e, passato il tempo, neuno bene possiamo adoperare.»191 Questa verità è basilare rispetto alla virtù della sollecitudine. Perciò Santa Caterina ammonisce spesso i destinatari delle sue lettere che non si sa quanto tempo ci sia ancora per fare il bene: «Ricordovi che voi dovete morire, e non sapete quando»192.
«che dormi tu, anima mia? dormi e la divina bontà veglia sopra te: e ‘l tempo passa e non ti aspetta. Vuo’ tu esser truovata a dormire dal Giudice, quando ti richiederà che tu rendi ragione del tempo tuo, come tu l’ hai speso, e come sei stata grata al benefizio del sangue suo?» Allora si desterà la mente: e poniamoché sopra di quello destare non sentisse, ella s’ è pure desta, e stirpa lo amore proprio dell’ anima sua. E per questo modo va innanzi, e vassi dalla imperfezione alla perfezione; alla quale pare che vogliate venire. Perocché l’amore non sta ozioso, ma sempre adopera grandi cose.193
Appunto perchè l’amore ordinato non può essere ozioso, Santa Caterina spesso sollecita i suoi: «Pregovi dunque per amore di Cristo crocifisso, che siate sollicito, e non negligente. Non più dormite nel sonno della negligenzia, perocché il tempo è breve, e ‘lcammino è lungo»194.
Il tempo è un tesoro prezioso che non aspetta noi, allora non dobbiamo aspettarlo neanche noi. «Son certa, - dice Santa Caterina - se averete il lume della santissima fede, e che in verità cognosciate la verità [...] , voi terrete queste vie senza negligenzia, e senza mettere intervallo di tempo, ma con sollecitudine piglierete il punto del tempo che voi avete»195.
È per opera della sollecitudne che l’uomo non ritardi né nella gioia, né nella tribolazione, ma «corre morto» sulla strada delle virtù fino al martirio: «Pregovi che siate solliciti di consumare la vita per»196 Cristo, poiché «Ora è il tempo [...] , di perdere tutto sé, e di sé non pensare punto; siccome facevano i gloriosi lavoratori che con tanto amore edesiderio disponevano di dare la vita loro e inaffiavano questo giardino di sangue, con umili e continue orazioni, e col sostenere infino alla morte»197.
È l’amore che rende il cuore sollecito e muove i piedi dell’affetto di andare là dove si trovano le virtù. Senza la sollecitudine infatti l’anima non può né trovarle, né ritenerle. La sollecitudine allora è un segno della presenza delle altre virtù, soprattutto dell’amore: «L’ anima dunque, che non è sollicita, segno è che non ama»198. Chi invece «arde nella fornace della carità, non è negligente; anco, ha perfetta sollicitudine, perocché la carità non sta mai oziosa, ma sempre adopera»199.
Il vizio contrario della sollecitudine è la negligenza e l’oziosità, la cui causa è l’amor proprio, il temere per sé.

1.2.6 La discrezione e la giustizia

La giustizia è particolarmente la virtù dell’amore ordinato. L’anima vestita di tale virtù, dà a tutti un debito: la gloria, l’amore a Dio; la fatica per le virtù, l’odio e dolore dei propri peccati; e il servizio al suo prossimo nelle necessità spirituali e materiali.
La giustizia serve e non esiste senza la virtù del discernimento, cioè della discrezione200. Il principio della pratica della giustizia è infatti un giudizio «discreto». La discrezione infatti consiste nella veracità della conoscenza, «non è altro che un vero cognoscimento che l’ anima ha di sé, e di Dio»201.
Non c’é virtù così tipicamente cateriniana come la discrezione. Caterina considera questa virtù come indispensabile: «la virtù santa della discrezione [...] ci é necessaria ad avere, se vogliamo la salute nostra». E se chiediamo «Perché ci è tanto di necessità?»202, la risposta la troviamo nel legame forte tra la discrezione e la luce della fede la quale talmente illumina l’occhio della ragione umana che quell’ultima vede e conosce tutto in modo ben distinto (il bene viene distinto dal male, la verità dalla menzogna ecc.)
Se consideriamo il rapporto della discrezione con la fede vediamo nell’ammaestramento di Santa Caterina un legame forte tra le due virtù. La luce della fede infatti sta alla base dell’ascesi cateriniana. In quella luce l’anima aquista la conoscenza di sé e di Dio e sente nascere il desiderio di rendere il proprio debito a Dio e a sé. A questo punto però bisogna che intervenga la virtù della discrezione ad illuminare l’anima sul come le convenga farlo. In questo senso si parla della luce della discrezione che è indispensabile per una carità autentica. La carità infatti deve essere ordinata alla luce della discrezione.
L’albero ha un «un figliuolo da lato», un germoglio che s’innesta sul ceppo del tronco principale. «Discrezione non é altro che un vero cognoscimento che l’anima debba avere di sé e di Me, in questo cognoscimento tiene la sua radice. Ella é uno figliuolo che é innestato e unito con la caritá203». Caterina distingue la funzione della discrezione nei nostri rapporti con Dio, con noi stessi, col prossimo. Questi sono i tre rami principali del figliuolo.
Nei nostri rapporti con Dio la discrezione non avrà freni da imporre all’anima, poiché Dio dobbiamo amarlo «senza modo».
La discrezione dunque illumina l’anima «accioché l’anima serva a Dio con cosa che non gli può essere tolta e che non sia finita, ma con cosa infinita, cioé col santo desiderio [...] e nelle virtù204». La discrezione ci aiuta a trovare la volontà di Dio, cioé ad evitare un amore spirituale verso di noi stessi che cerca la consolazione invece l’utilità del prossimo o vuol «uccidere il corpo ma non la volontà».
Rispetto all’amore del prossimo la discrezione fa vedere una precisa scala dei valori, poiché l’amore del prossimo deve essere «con modo e non senza modo». Possiamo, e qualche volta dobbiamo, sacrificare i beni del mondo per la vita del prossimo; la nostra stessa vita può arrischiarsi per l’anima dei fratelli; ma niente può esigere da noi o giustificare il sacrificio della vita dell’anima. Infatti é un’illusione pensare che possiamo giovare al prossimo offendendo Dio.
L’anima discreta evita di lasciarsi rimorchiare dal prossimo e compiacergli nel male, ma evita pure la cosa peggiore - opera della indiscrezione -, cioé giudicare il prossimo.
La virtù della discrezione nella vita di Santa Caterina era eccellente, pensiamo al fatto storico: dava consiglio al papa.
In ultima analisi il discernimento è la virtù che rende giustizia, dando a ciascuno quel che gli spetta. Il discreto giudizio su Dio infatti si nutre dalla comprensione della sua verità: «Perocché colui che è esso amore [...] ci amò prima che noi fussimo, perché voleva che partecipassimo del sommo ed eterno Bene. E però ciò che egli ci dà, cel dà per questo fine»205.
Quindi la giustizia si nutre con la verità di Dio che è stato conosciuto con discrezione e esige un comportamento ben preciso: che noi amiamo Dio infinitamente, l’amiamo con l’amore dell’amore, per sé medesimo e non per la nostra utilità. L’amiamo perché in Lui l’anima trova tutto - come dono - che la rende felice, a misura che Dio stesso l’ha rivelato a Santa Caterina:
Io so’ ricco, potevalo e posso dare, e la ricchezza mia è infinita; anco ogni cosa è fatta da me, e senza me veruna cosa può essere. Unde, se vuole bellezza, Io so’ bellezza; se vuole bontà Io so’ bontà, perchè so’ sommamente buono; Io sapienzia, Io benigno, Io pietoso, Io giusto e misericordioso Dio. Io largo e non avaro. Io so’ colui che do a chi m’ adimanda, apro a chi bussa in verità e rispondo a chi mi chiama. Non so’ ingrato, ma grato e cognoscente a remunerare chi per me s’ afadigarà, cioè per gloria e loda del nome mio. Io so’ giocondo, chè tengo l’ anima che si veste della mia volontà di sommo diletto. Io so’ quella somma providenzia che non manco mai a’ servi miei che sperano in me, nè ne l’ anima nè nel corpo.206
La virtù della giustizia però all’anima non dà solo l’amore di Dio per la vera conoscenza di Lui, ma a causa del vero conoscimento di sé comporta pure l’odio dell’amor proprio sensitivo. L’anima infatti vuol fare giustizia sopra di sé quando vede che «il sangue fu sparto solo per lo peccato [...]; e vedendosi difettuosa, vede ancora nel sangue la divina giustizia: perocché per fare giustizia del peccato commesso, sparse il sangue suo»207.
L’anima attinge forza, per poter fare giustizia sopra di sé, alla fede che Dio è giusto ed «ogni colpa sarà punita e ogni bene remunerato»208. Questa fede rende l’anima sollecita nel bene, nel servizio del prossimo, nel sopportare la persecuzione, nella fatica quotidiana della virtù e soprattutto nel dare il debito dell’orazione e del desiderio.
La giustizia divina viene misurata dall’amore e dalla misericordia. Perciò per le nostre buone opere finite ci dà «frutto infinito, vivendo in questa per grazia» e nell’ altra ci dà la vita eterna209. Il sommo Giudice che è «rimuneratore d’ ogni bene e punitore d’ ogni male» fa tanta misericordia, che la colpa che merita pena infinita per avere offeso il Bene infinito» la punisce «in tempo finito dandoci fatica e tribulazioni»210 e non nell’eternità, con la dannazione eterna (eccetto se l’anima si ostina nel male). «Questo vede e cognosce l’ anima alluminata della dolce verità: e però ha ogni cosa in debita riverenzia; giudica giustamente la volontà di Dio e la providenzia sua in sé: perocché la sua providenzia provede a ogni nostra necessità, e la sua volontà non vuole altro che il nostro bene»211.
Il grado eroico della giustizia, quando l’anima chiede che Dio punisca lei per i peccati degli altri212. Questo è il più grande amore che ci ha dimostrato l’esempio di Cristo: «[...] Maggiore amore non può mostrare l’ amico, che dare la vita per l’ amico suo; ed egli v’ ha dato la vita, avendo svenato ed aperto il corpo suo»213. L’anima attingie all’amore di Cristo crocifisso che ha tolto i peccati del mondo prendendoli sopra di sé.
Santa Caterina offre se stessa al papa, affinché punisca lei al posto dei suoi fratelli che hanno peccato:
Ma se volete fare vendetta e giustitia, pigliatela sopra di me, misera miserabile, e datemi ogni pena e tormento che piace a voi, infine alla morte. Credo che per la puzza delle mie iniquità sieno venuti molti defetti e grandi inconvenienti e discordie. Dunque sopra me, misera vostra figliuola, prendete ogni vendetta che volete.
E pur nel Dialogo più volte offre se stessa per soffrire per gli altri. Per esempio in questo passo: «O Padre eterno, [...] perchè delle pene che debba portare il prossimo mio, io per li miei peccati ne so’ cagione, però ti prego benignamente che tu le punisca sopra di me»214.
La virtù della giustizia è indispensabile soprattutto per coloro che guidano gli altri: superiori delle comunità, re, governatori delle città. Certamente perché chi è responsabile per gli altri, ma manca della giustizia ed agisce «ingiustamente, cioè con poco timore e onore di Dio, bene vede che questo gli dà la morte e fallo degno dell’ eterna dannatione», come pure Pilato «el quale, per paura di non perdere la signoria, uccise Cristo, e per la sua ignorantia perdé lo stato dell’ anima e del corpo»215.
La giustizia sostiene ogni stato e città. La giustizia testimonia infatti che ogni potere è dato dall’alto216 ed esso viene dato alle creature solo in prestito. Al re di Francia scrive Santa Caterina:
voi sapete bene che vita né sanità né ricchezze né onore né stato né signoria non è vostra. Ché s’ ella fusse vostra, voi la potreste possedere a vostro modo. Ma talora vuole essere l’ uomo sano, ch’ egli è malato; o vivo, ch’ egli è morto; o ricco, ch’ egli è povero; o signore, ch’ egli è fatto servo. E tutto questo è perché non so’ sue; e non le può tenere se non quanto piace a colui che gli l’ à prestate. Adunque bene è semplice colui che possiede l’ altrui per suo: drittamente egli è furo ladro, degno di morte.217
Chi non è in grado di dominare sé stesso, non può governare bene neanché gli altri. «Conviensi dunque che l’ uomo che ha a signoreggiare altrui e governare, signoreggi e governi prima sé. Come potrebbe il cieco vedere e guidare altrui? Come potrà il morto sotterrare il morto? Lo ‘nfermo governare lo ‘nfermo, il povero sovvenire al povero? non potrebbe»218.
La giustizia fondata nel vero amore di Dio costituisce il più verace e saldo legame di ogni società umana in ogni suo grado e forma: della famiglia, della città, dello stato, dell’insieme delle nazioni di cui si compone la grande famiglia umana219. La giustizia infatti impone i doveri reciproci nella famigia degli sposi, dei genitori verso i figli, dei figli verso i genitori ecc.220La stessa giustizia ordina i rapporti degli uomini nella socetà civile ma anche nella Chiesa.
Il vizio contrario della giustizia è l’ingiustizia che è conseguenza del amor proprio. Dall’amor proprio infatti - che è l’anticarità - nasce il timore servile, e dal timor servile il malgoverno, che abusa dell’autorità e vìola la giustizia nell’unico intento di conservare a sé il potere. Sono ingiusti verso il prossimo, ma prima «sono crudeli a loro medesimi» vivendo in immondizia e in tanta superbia che «per la loro superbia non possono sostenere che gli sia detta la verità»221.
Chi guida gli altri - per poter farlo in modo giusto - deve spogliarsi dal vecchio vestimento del peccato, dell’amor proprio e vestirsi del «vestimento nuovo della divina carità»222, ma prima di tutto deve liberarsi dal timore servile, affinché abbia coraggio di correggere gli altri:
Neuno stato si può conservare nella legge civile e nella legge divina in stato di grazia senza la santa giustizia, però che colui che non è corretto e non corregge fa come il membro che è cominciato a infracidare, che se ‘l gattivo medico vi pone subitamente l’ unguento solamente e non incuocie la piaga, tutto il corpo imputridisce e corrompe223.
La gemma della giustizia però risplende nei superiori veri e santi:
facevano sacrificio di giustizia con santa e onesta vita. La margarita della giustizia, con vera umilità e ardentissima carità, col lume della discrezione, riluceva in loro e ne’ loro sudditi: in loro principalmente. Giustamente rendevano a me il debito mio, cioè rendendo gloria e loda al nome mio; a sè rendevano odio e dispiacimento della propria sensualità, spregiando i vizi e abbracciando le virtù con la carità mia e del prossimo loro. Con umilità conculcavano la superbia e andavano come angeli a la mensa de l’ altare; con purità di cuore e di corpo e con sincerità de mente celebravano, arsi nella fornace della carità. E perchè prima avevano fatta giustizia di loro, però facevano giustizia de’ sudditi, volendoli vedere vivere virtuosamente, e correggevano senza veruno timore servile, perchè non attendevano a loro medesimi ma solo a l’ onore mio e alla salute de l’ anime, sì come pastori buoni, seguitatori del buono Pastore mia Verità, il quale Io vi diei a governare voi pecorelle, e volsi che ponesse la vita per voi 224.

1.2.7 La purità

La purità è lo stato dell’anima unita a Dio. Il Dialogo perciò insegna così:
Vuogli tu venire a perfetta purità ed essere privata degli scandali, e che la mente tua non sarà scandelizzata per veruna cosa? Or fa che tu sempre ti unisca in me per affetto d’ amore, però che Io so’ somma ed eterna purità e so’ quel fuoco che purifico l’ anima; e però quanto più s’ accosta a me tanto diventa più pura, e quanto più se ne parte tanto più è immonda. E però caggiono in tante nequizie gli uomini del mondo perchè sono separati da me, ma l’ anima che senza mezzo si unisce in me participa della purità mia225.
L’importanza della puritá viene dimostrata anche dal fatto che la purezza viene contata tra le virtù più caratteristiche di Caterina226. La purità perfetta è la figlia della carità227, la quale nasce tra lacrime. Le lacrime del fuoco, le lacrime della carità ardente, cioè le lacrime del pianto perfetto228 sono quelle che lavano l’anima nella contrizione sì che «sarà bianca più della neve»229.
La fonte della purità è l’umiltà e l’obbedienza230. Questa preziosa virtù è sposa della povertà, e segue sempre quella virtù che «riveste lo sposo suo di purità, tollendo via la ricchezza che ‘l faceva immondo»231. La purità è vestita «di sole di giustizia» ed è adornata «col fibbiale dell’ obedienzia e colle margarite della fede viva, speranza ferma e carità perfetta».
E la purità viene aiutata dalla virtù della sollecitudine. La purità riguarda la mente come il corpo e quando le facoltà dell’anima vengono ordinate, raccolte in Dio, cioè pure, l’anima comincia ad evitare le cose superflue, perché queste ritirerebbero ella dal servizio di Dio e del prossimo.
E voglio che voi pensiate, figliuole mie, che questa purità di mente e di corpo non si potrebbe avere con le molte conversazioni delle creature, né col ponere l’ affetto e l’ amore nostro in loro n‚ in cose create, fuori della volontà di Dio; n‚ con amore proprio e tenerezza del corpo nostro; ma acquistasi con molta sollicitudine di vigilie e d’ orazioni, e con confirma memoria del suo Creatore; sempre ricognoscendo l’ amore ineffabile che Dio gli ha.232
La perfetta purità - come tutte le virtù - è un dono del Figlio di Dio, perciò incoraggia Santa Caterina un’anima consacrata per andare a Cristo per acquistare una purità più perfetta: «in tanto ché, quanto più t’accosti a lui, tanto più raffina il fiore della verginità tua»233.
Il vizio contrario della purità fa parte dei tre vizi principali «cioè della immondizia e infiata superbia e della cupidità, [...] Di questi tre vizi l’uno dipende da l’altro, e il loro fondamento di queste tre colonne è l’ amore proprio di loro medesimi»234

1.2.8 L’amore della povertà

In questa parte ho tentato di raccogliere quelle virtù cateriniane che sembravano più importanti. Perciò non può mancareon la lode di quella virtù che dalla Santa viene chiamata ancora regina. Questa virtù è l’amore della povertà.
Questa regina non trova posto, se non in quell’anima che l’accoglie per un motivo particolare e ben preciso: per la salvezza dell’anima, per «il regno dei cieli»235. Non le cose create corrompono l’uomo - poiché tutta la creazione proviene da Dio, dal sommo bene -, ma l’attaccamento disordinato ai beni transitori fanno male all’anima.
La base dell’autentico amore della povertà è la speranza che è fondata nella fede che «Dio provvede a tutti, in diversi modi. In modo tutto speciale provvede a quelli che hanno rinunziato all richezza, causa di ogni male»236.
Questa povertà soprannaturale ce la insegna il Figliuolo di Dio:
E non ve la insegna con parole solamente ma con esempio; unde, dal principio della sua natività infino a l’ ultimo della vita, in esempio v’ insegnò questa dottrina. Egli la sposò per voi questa sposa della vera povertà; con ciò sia cosa che egli fusse somma ricchezza per l’ unione della natura divina, unde egli è una cosa con meco, e Io con lui, che so’ eterna ricchezza. E se tu il vuogli vedere umiliato e in grande povertà, raguarda Dio essere fatto uomo, vestito della viltà de l’ umanità vostra. Tu vedi questo dolce e amoroso Verbo nascere in una stalla, essendo Maria in camino, per mostrare a voi viandanti che voi dovete sempre rinascere nella stalla del cognoscimento di voi, dove trovarete nato me, per grazia, dentro ne l’ anima vostra. Tu il vedi stare ine in mezzo degli animali, in tanta povertà che Maria non à con che ricoprirlo. Ma essendo tempo di freddo, col fiato de l’ animale, e col fieno ricoprendolo, sí riscaldava. Essendo fuoco di carità, vuole sostenere freddo ne l’ umanità sua. In tutta la vita, mentre che visse nel mondo volse sostenere, e senza discepoli e co’ discepoli: unde alcuna volta per la fame sgranellavano i discepoli le spighe e mangiavano le granella. E ne l’ ultimo della vita sua, nudo e spogliato e fragellato alla colonna e asetato, sta in sul legno della croce, in tanta povertà che la terra e il legno gli venne meno, non avendo luogo dove riposare il capo suo; ma convennesi che sopra la spalla sua riposasse il capo. E, come ebbro d’ amore, vi fa bagno del sangue suo, uperto il corpo di questo Agnello, che da ogni parte versa. Essendo in miseria dona a voi la grande ricchezza; stando in sul legno stretto della croce egli spande la larghezza sua a ogni creatura che à in sè ragione; assaggiando l’ amaritudine del fiele egli dà a voi perfettissima dolcezza; stando in tristizia vi dà consolazione; stando confitto e chiavellato in croce egli vi scioglie dal legame del peccato mortale; essendosi fatto servo v’à fatti liberi e tratti della servitudine del dimonio; essendo venduto v’à ricomperati di sangue; dando a sè morte, à dato a voi vita.237
Ci insegna la povertà la sposa del «Padre dei poveri»238, Maria dolce che pur avendo tra le bracce il Verbo eterno come bambino, «non ebbe panno dove invollerlo»239, ma ha sperimentato come è «ricco Dio nella misericordia»240.

1.2.9 La gratitudine

La gratitudine - come la carità - è madre di tutte le virtù, per questo concludiamo questo breve riassunto delle virtù con la gratitudine.
Ogni gratitudine viene dalla conoscenza di sé241, dal riconoscimento del fatto che tutto è dono, dono di Dio. L’anima che - giungendo alla luce della conoscenza di sè - conosce questa verità, può essere grata pur delle persecuzioni e tribolazioni, poiché da queste nascono le virtù provate242.
Che cosa dimostra la gratitudine? La gratitudine dell’anima non viene dimostrata dalle parole, ma dalle opere243. L’anima manifesta la sua gratitudine per la mortificazione della volontà propria, per i santi e buoni atti. Poichè Dio non ha bisogno dei miei servizi, noi dobbiamo verificare la nostra gratitudine per il servizio del nostro prossimo:
Chi è grata, [...] sovviene e fa utilità al prossimo suo, vedendo che a Dio non la può fare. Perocché egli è lo Dio nostro che non ha bisogno di noi; e volendo l’ anima grata dimostrare che in verità ricognosce le grazie ricevute da lui, il mostra sopra la creatura che ha in s‚ ragione, la quale vede che Dio molto ama. E in tutte quante le cose s’ ingegna di mostrare nel prossimo suo gratitudine a Dio. Onde tutte le virtù sono esercitate per gratitudine: cioè, che per amore che l’anima ha conceputo, diventa grata; perché col lume ha ricognosciute le grazie del suo Creatore in sé. Chi la fa paziente, che con pazienza porti le ingiurie e rimproverii e villanie dalle creature, battaglie e molestie del dimonio? la gratitudine. Chi la fa annegare la propria volontà e soggiogarla al giogo della obedienzia santa? la gratitudine.244
L’anima grata attribuisce a Dio i frutti di ogni sua fatica e con vera umiltà riconosce che tutte quelle grazie che possiede vengono da Dio e non dal suo «proprio potere e sapere», poiché con tutto il suo «studio umano» non avrebbe potuto fare, «senonché Dio ‘l fece» quando «Egli volse l’occhio della sua misericordia sopra di» lei. E tale anima, poiché è grata a Dio, è grata pure al prossimo suo245.
Uno splendente esempio di questa virtù lo troviamo in Maria: «Ella non è ingrata a chi la serve; anco, è grata e cognoscente»246.
Il vizio contrario della gratitudine è l’ingratitudine. Anche questo vizio è una delle conseguenze dell’amor proprio dell’uomo anziano. È molto dannoso rispetto alla vita dell’anima, poiché l’accompagnano tutti gli altri vizi247. L’ingrato non conserva nella sua memoria il sangue248, la prova del gratuito e incondizionato amore di Cristo crocifisso. L’ingratitudine allontana l’anima dall’amore di Dio e del prossimo «germina superbia, vanità e leggerezza di cuore, con molta immondizia [...], priva l’ anima della carità fraterna inverso del prossimo suo; e concepe odio e dispiacimento. E se egli pur ama; amalo per propria utilità, e non per Dio.»249
Santa Caterina conclude il Dialogo con un bellissimo inno pronunciando anche che la creatura finita non è capace mai di rendere grazie in modo sufficente per i doni ricevuti a Colui che è infinito. Dio però può farlo quando riveste l’anima in sé, nella Verità sua. Allora chiediamolo a Lui affidandoci alle parole di Santa Caterina da Siena.
Grazia, grazia sia a te, Padre eterno, chè tu non ai spregiata me, fattura tua, nè voltata la faccia tua da me, nè spregiati i miei desideri. Tu, luce, non ài raguardato alla mia tenebre; tu, vita, non ài raguardato a me che so’ morte, nè tu, medico, per le mie gravi infermità; tu, purità eterna, a me che so’ piena di loto di molte miserie; tu che se’ infinito, a me che so’ finita; tu sapienzia, a me che so’ stoltizia. Per tutti quanti questi ed altri infiniti mali e difetti che sono in me, la tua sapienzia, la tua bontà, la tua clemenzia e il tuo infinito bene non m’ à spregiata, ma nel tuo lume m’ ài dato lume. Nella tua sapienzia ò cognosciuta la verità, nella tua clemenzia ò trovata la carità tua e dilezione del prossimo. Chi t’ à costretto? Non le mie virtù, ma solo la carità tua. Questo medesimo amore ti costringa ad illuminare l’occhio de l’ intelletto mio del lume della fede, acciò che io cognosca la verità tua manifestata a me. Dammi che la memoria sia capace a ritenere I benefici tuoi, e la voluntà arda nel fuoco della tua carità; il quale fuoco facci germinare e gittare al corpo mio sangue, e con esso sangue dato per amore del sangue, e con la chiave dell’ obedienzia io diserri la porta delcielo. [...] E chi potrà agiognere all’ altezza tua e renderti grazia di tanto smisurato dono e larghi benefizi quanti tu ài dati a me, della dottrina della verità che tu m’ ài data? [...] Volesti conscendere, alla mia necessità e dell’altre creature che dentro ci si specchieranno. Tu rispondi Signore: tu medesimo ài dato e tu medesimo rispondi e satisfa, infondendo uno lume di grazia in me, acciò che con esso lume io ti renda grazie. Veste, veste me di te, Verità eterna, sì che io corra questa vita mortale con vera obedienzia e col lume della santissima fede, del quale lume pare che di nuovo inebri l’anima mia. Deo gratias. Amen.250


2.  La virtù dell’amore e Santa Caterina

2.1. La Sposa dei Cantici

Dopo aver parlato sufficientemete della virtù della carità in generale, in questo capitolo ne parliamo da un punto di vista particolare in quanto la carità è una virtù di una persona concreta, è la carità di Santa Caterina verso Dio e - per Dio - verso il prossimo.
Questa carità che vive in Santa Caterina, è un’amore sponsale, l’amore della «sposa di Cristo»251 verso il suo sposo.
Questo amore è una risposta alla «dolce parola della Cantica»252; un cantico al Cantico: questo amore in Santa Caterina è davvero il Cantico dei Cantici.
Sembra che tutto questo sia apparso evidente a quelli che vivevano intorno a lei. Non è per caso che il Beato Raimondo inizia due grandi parti (libri II e III) della Legenda citando brani dal Catnico dei Carntici. Egli vede in Santa Caterina - che ha avuto la grazia dello sposazlizio mistico e dello scambio del cuore con il Signore253 - la sposa del Cantico dei Cantici. Così quando il Signore chiama la Santa dalla stretta contemplazione - secondo le parole di Beato Raimondo - vive l’angoscia della Sposa dei Cantici che ha trovato l’amato dalla sua anima254 e teme di perderlo.
Lo sposo che sta nei cieli, parlando nei Cantici alla sua cara e diletta sposa: «Aprimi sorella mia, amica mia, innamorata mia; il mio capo è pieno di rugiada, e i miei capelli pieni dell’umido della notte» La sposa risponde: «Mi spogliai della mia tonaca, come farò a rivestirmene? Lavai I miei piedi, come tornerò io ad imbrattarmeli?»
[...] Ad ogni anima, che ha gustato quanto è attraente il Signore, riesce molto difficile distaccarsene o allontanarsi dalla pienezza delle sue soavità. Se ciò dovesse accadere, la sposa chiamata da Dio a generare figliuoli e a porgere loro il necessario non potrebbe non risentirsi, brontolare un pochetto, e manifestare il suo risentimento. Queste le ragioni, per le quali ho riportato sopra la voce dello Sposo, che sveglia la sposa dormente nel letto della contemplazione, spogliata delle cose temporali e lavata di ogni immondizia, e la invita ad aprire la porta, la quale non è certamente la sua, ma quella delle altre anime. La sua porta, senza dubbio, stava già aperta; altrimenti non avrebbe potuto riposare nel Signore, nè, a rigore di termini, si sarebbe potuta chiamare sposa. Caterina, avendo inteso dalla voce del suo Pastore e Sposo, di essere chiamata dalla dolcezza della quiete alle fatiche, dal silenzio ai rumori, dal ritiro della cella al pubblico, rispose con voce lamentevole: «Mi sono già spogliata della veste di ogni cura terrena: ora che l’ho gettata via da me, dovrò di nuovo riprenderla? Ho lavato di ogni macchia di peccato e di vizio i piedi delle mie affezioni, dovrò, dunque, di nuovo sporcarmeli con la polvere della terra?»
[...] Il Signore [...] le dice: «Aprimi ecc.» Aprimi, cioè, col tuo ministero, la porta delle anime, per la quale io possa entrare in loro. Apri la via, per la quale le mie pecorelle possano andare e venire liberamente a brucar erba. Apri ancora a me, cioè, a mio onore, lo scrigno del tesoro celeste, sia delle dottrine che delle grazie, perché si sparga a piene mani sui fedeli. Aprimi, mia sorella, per la conformità della natura; amica mia, per l’intima carità; colomba mia, per la semplicità della mente; immacolata mia, per la purità dell’anima e del corpo. A tutte queste cose la santa vergine risponde alla lettera.255
Nelle prime righe del terzo libro della Legenda Beato Raimondo cita di nuovo il Catnico dei Cantici. Il perfetto fine che è desiderato con desiderio256, cioè la morte, è il compimento dell’amore della sposa e dello Sposo: «Chi è costei, che sale dal deserto ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto?»257 Beato Raimondo giustamente domanda: «Chi è costei?»; poiché in Santa Caterina è diventata visibile la verità che si legge all’inizio del Dialogo e spesso anche nelle Lettere, che l’ anima diventa un altro sé di Cristo:
l’orazione [...] unisce l’anima in Dio seguitando le vistigie di Cristo crocifisso, e così per desiderio, affetto e unione d’amore ne fa un altro sè. Qquesto parve che dicesse Cristo quando disse: «Chi m’amerà e serverà la parola mia, Io manifesterò me medesimo a lui, e sarà una cosa con meco ed Io con lui»; ed in più luoghi troviamo simili parole, per le quali potiamo vedere che egli è la verità che per affetto d’ amore l’ anima diventa un altro lui e per vederlo più chiaramente258.
In Caterina si è realizzato ciò che lei stessa raccomandava ai servi di Cristo, al papa e ai sacerdoti, cioè di diventare Cristo. Nella sua vita realizzata nell’amore Santa Caterina è diventata un «altro Cristo». «Ella è fatta una cosa con lo Sposo suo [...] chi dimandasse Cristo crocifisso: “chi è questa anima?”, direbbe: “è un altro me, fatta per affetto d’amore.”»259 Beato Raimondo domanda giustamente: «Chi è costei?», Cristo o Caterina, oppure sono due in una sola carne?260
Questa vita realizzata nell’amore sale dal deserto di sé stesso e poi dalle cose che passano sale alla «perfetta unione»261, poiché il fuoco della divina Carità «fa levare l’affetto dell’anima sopra se medesima»262, si eleva a quelle delizie che comporta l’essere appoggiata al diletto, poiché si appoggia più al suo Sposo che a una creatura.
Da tutto questo, la persona intellingente viene a capire che questa terza parte, contenendo la beata fine e l’ultimo buon frutto della nostra santa vergine, conferma e abbellisce le prime due parti. Indubbiamente, con le parole citate, si mostra la bellezza di tutte le virtù di Caterina e la sua eccellenza straordinaria, quando con meraviglia, ci si domanda: «Chi è costei?»263. Si dà ancora a conoscere che, pel vigore di spirito, era nel volo più leggera dei volanti, mentre si aggiunge: «che sale dal deserto ricolma di delizie». In ultimo si dimostra che, per l’intensità dell’affetto e per l’eterna amicizia, il Signore era unito a lei, quando si afferma: «appoggiata al suo diletto». [...] Da tutto ciò si conclude che Caterina, ripiena di divino amore, in questa valle di lacrime giunse, mediante la grazia di Dio, a uno grado simile di virtù, che prima di arrivare al termine dell vita, fece tutti gli sforzi per raggiungere quasi innanzi tempo la mèta, e corse velocemente, anelando con ardore al premio celeste. [...] Catarina, sul termine di questa vita, fatta simile al suo Sposo nei patimenti, unita a lui e a lui appoggiata, con la vittoria su questo secolo malvaggio, tutta lieta e gloriosa ascese al cielo.264
Dietro alla domanda di Beato Raimondo «Chi è costei?» può celarsi una sua esperienza documentata nella Legenda:
Un’altra volta, senza che io lo cercassi, ebbi un altro segno della perfezione di questa vergine; e lo voglio divulgare a suo onore, benché sia certo di farci una ben magra figura. Caterina si trovava in letto ammalata nel predetto monastero, e desiderando di parlarmi di cose revelatele da Dio, mi fece chiamare di nascosto. Ci andai e mi accostai al suo letto e lei, secondo il suo modo di fare, cominciò a parlarmi di Dio, e a raccontarmi ciò che quel giorno le era stato rivelato. All’udire cose tanto straordinarie, che non capitano a nessuno, dimentico e ingrato della prima grazia già ricevuta, ebbi dei dubbi, e dissi fra me: Ma sarà vero tutto quello che dice? Mentre pensavo così, volsi lo sguardo verso di lei, che parlava, e sull’istante al sua faccia si trasformò in quella di un uomo fiero, il quale, fissandomi con occhi seri, mi mise addosso una gran paura. Era una faccia ovale, di mezza età, e aveva una barba corta del color del grano, e mostrava nell’aspetto una tal maestà, da far capire che fosse il Signore. In quel momento, del resto, non potevo riconoscere altra faccia all’infuori di quella. Spaventato e atterrito, alzando le mani all’altezza delle spalle, gridai: «Chi è che mi guarda?». La vergine rispose: «Colui che è!».265

2.2  Le parole conclusive: «Gesù dolce, Gesù amore»

Prima di trattare le immagini cateriniane che provengono dal Cantico dei Cantici e dimostrano l’amore dell’anima verso Dio e l’amore di Dio verso l’uomo, fermiamoci per un attimo a una caratteristica della spiritualità di Santa Caterina.
Nel secondo capitolo di questo lavoro abbiamo detto che Santa Caterina comincia il Dialogo ed ogni sua lettera nel nome di Gesù Cristo crocifisso. Corrispondendo a questo punto sicuro dell’inizio, Santa Caterina finisce ogni sua lettera con il santo nome di Gesù: Gesù dolce, Gesù amore. L’alfa e l’omega delle sue lettere e della sua dottrina, come se fossero i due pillastri del ponte, il nome santo di Gesù e questo nome: Amore. «Egli è esso Amore»266 Gesù Cristo è l’amore stesso. Per Santa Caterina l’amore non è soltanto una virtù della persona, ma la Persona stessa, lo stesso Signore Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio. Per lei questa parola, amore, è il nome del Figlio di Dio, del Messia, del Salvatore, del Agnello, del Redentore; è un nome che riguarda lo stesso mistero di Cristo.
Per l’Antico Testamento (prima di tutto per l’autore del Libro della Sapienza) la sapienza è uno degli attributi di Dio, è «emanazione della gloria dell’Onnipotente [...] e immagine della sua bontà»267, ma non è persona. Da quando però Gesù Cristo ha rivelato agli uomini il nome di Dio268, la Sapienza - per i seguaci suoi - è Gesù Cristo stesso personalmente. Similmente - per quelli che sono fidanzati a Cristo269- egli non è solo l’amante del Cantico dei Cantici, ma l’Amore stesso. San Giovanni apostolo, «uno dei discepoli, quello che Gesù prediligeva e se ne stava appoggiato al petto di Gesù»270e riposava sul petto suo come una borsettina di mirra271 ha sentito questa verità nella rivelazione della preghiera sacerdotale di Gesù e la dice pure: Dio è Carità272.
Si può quindi chiamare Gesù Cristo per questo nome: Amore, come per qualsiasi altro nome riguardante il mistero della redenzione. Lo fa Santa Caterina per concludere ogni suo parlare, ma usa questo nome anche in sé come un rivolgere la parola a Cristo: «O Amore, con quanta carità e con quanta letizia dicesti quella parola di fare di te sacrificio, perchè ti vedi presso al termine!»
Anche l’esortazione conclusiva: «Permanete nella santa e dolce dilezione di Dio» che troviamo spesso alla fine delle lettere, si riferisce alla preghiera sacerdotale di Gesù: «conserva nel tuo nome coloro che tu mi hai dato»273, cioè in quel nome che è «Amore».
Il nuovo comandamento di Gesù: «Amatevi gli uni con gli altri»274 non comanda un amore qualsiasi (tiepido, mondano, o amor proprio), ma quell’amore che conserva e fissa l’anima in Cristo, nell’Amore.
Il compimento dell’esortazione «Amatevi, amatevi insieme!» non è possibile se l’anima non rimane «nella santa e dolce dilezione di Dio».
Se abbiamo detto nei capitoli precedenti che la virtù non è che una certa stabilità, perseveranza dell’anima nel bene, una disposizione a fare il bene, allora adesso nel contesto sopracitato possiamo ripetere: nell’insegnamento cateriniano l’unica vera causa della virtù che dà stabilità, perseveranza nel bene, è Cristo, Cristo crocifisso e il suo amore. L’anima può essere «amatore della virtù» solo perché è sposa della virtù; amante dell’amore, amato di Cristo.

2.3 Le immagini e parole dal Cantico dei Cantici

Nelle immagini e parole di Santa Caterina da Siena è sempre presente come fondamento e retroscena il dialogo del Cantico dei Cantici: un dialogo dell’amore, un dialogo dell’amore dell’anima verso lo Spirito. L’anima può essere il vero e proprio «amatore della virtù», sposa della virtù, perché le virtù le trova in Cristo che è l’amato dell’anima sua275.

2.3.1 «Veni [...] sponsa mea, veni »276

La vita di Santa Caterina è un’unica «sì» alla parola dello Sposo che chiama: «Vieni, mia sposa». E Santa Caterina sollecita i suoi figli spirituali a dare la stessa risposta: «Rispondi a Cristo crocifisso che ti chiama con umile voce»277; «Oimè! non più, per l’amore di Dio! Attendete, attendete alla salute vostra: rispondete a Cristo che vi chiama.»278 «Rispondi a Cristo crocifisso [...] ; corri dietro all’odore dell’unguento suo.»279

2.3.2 «Trahe me, post te curremus in odorem unguentorum tuorum»280

Le ultime parole del punto precedente si riferiscono già ad un’altra immagine dei Cantici: «Corriamo, corriamo...» -- una bellissima esortazione di Caterina per i suoi cari. «Corriamo, corriamo, corriamo, morte, per la via della virtù»281; «Corrimao come affamati dell’onor suo [di Dio] e della salute della creatura)»282; «corriamo verso il calore della divina carità»283.
«Corri dietro all’odore dell’unguento suo»284 - l’odore dell’unguento è il profumo delle virtù di Cristo, il profumo del Sangue285.

2.3.3 «Trahe me»286

«Attraimi» - è la parola del santo desiderio, è la preghiera continua, l’unica necessaria domanda dell’anima a Dio. Questa parola e questo desiderio: «Trahe me», è la risposta al desiderio di Dio, a quel desiderio che è in Dio per l’uomo. «Ragguardando Dio in sé medesimo, s’ innamorò della bellezza della sua creatura; e come ebbro d’amore, ci creò alla imagine e similitudine sua.»287 L’unità infatti del desiderio santo di Dio e quello dell’uomo è il fondamento dell’unione dell’uomo con Dio. La prima e dolce Verità ne parla così a Santa Caterina:
Ché morendo in su la croce, terminò la pena del santo desiderio ad un’ ora con la vita; ma non terminò il desiderio e la fame che io ho della salute vostra. Che se l’amore ineffabile che io ebbi e ho all’ umana generazione fusse terminato e finito, voi non sareste. Perocché come l’amore vi trasse dal seno del Padre mio, creandovi con la sapienza mia; così esso amore vi conserva: chè voi non sete fatti d’altro che d’amore. Se ritraesse a sé l’amore con quella potenzia e sapienzia con la quale egli vi creò, voi non sareste.288
Cristo «per fame e sete che aveva d’ansietato desiderio della salute
nostra, gridava in sul legno della santissima croce, quando disse sitio. Quasi dica: Io ho più sete e desiderio della salute vostra, che con questa
pena finita mostrare non vi posso.»289« O amore, [...] Tu facesti come colui che à avuto grandissimo desiderio di fare una grandissima operatione, che quando se la vede presso a fare, à gaudio e letitia, e con questa letitia corre questo inamorato all’obrobrio della santissima croce. »290
Nel dialogo tra la Verità e l’anima si uniscono i due desideri, quello di Dio e quello dell’uomo: «è il desiderio di Dio, il quale, il desiderio che è nell’affetto dell’anima, trae a se, e fannosi una cosa l’uno con l’altro.»291 All’inizio della lettera scritta al domenicano Bartolomeo Dominici possiamo leggere: « [...] e Catarina serva inutile di Gesù Cristo si raccomandano; con desiderio di vedervi unito e transformato in quello transformato e unito desiderio di Dio.»292«Cristo crocifisso sarà il facitore e adempitore degli spasmati desideri de’ servi di Dio.»293 «Il qual desiderio
il [l’uomo] fa correre per la via, per la strada battuta da Cristo crocifisso.»294
L’anima quindi è capace di chiedere: Trahe me, perché Dio stesso è colui che fa e rafforza tale desiderio dell’anima «rapendo e tirando a sè più forte il desiderio suo»295. Cristo crocifisso ed innalzato da terra trae a sé e compie questo desiderio dall’altezza della croce296.
Queste parole di Santa Caterina sono nutrite probabilmente pure dalle sue esperienze mistiche: ella poteva sperimentare non di rado questa attrattiva di Dio nei sui rapimenti estatici quando «’l vasello del corpo suo perde ogni sentimento; in tanto che vedendo non vede, udendo non ode, parlando non parla, andando non va, toccando non tocca» e «Dio con la virtù e carità sua ha tratto a sé quell’ affetto: e però mancano e’ sentimenti del corpo; perché più perfetta è l’ unione che l’anima ha fatta in Dio, che quella dell’anima nel corpo.»297 Nel Dialogo così insegna di questa perfetta unione «Colui che è»:
Io, che esalto gli umili, trassi a me il desiderio e l’affetto di quella anima, dandole cognoscimento ne l’abisso della Trinità, me Dio etterno, illuminando l’occhio de l’intelletto suo nella potenzia di me Padre, nella sapienzia de l’ unigenito mio Figliuo, e nella clemenzia dello Spirito santo, i quali siamo una medesima cosa. In tanta perfezione s’ uní quella anima, ch’ el corpo si sospendeva da la terra, perchè come nello stato unitivo de l’anima Io ti narrai, era più perfetta l’unione che l’anima aveva fatta per affetto d’amore in me, che nel corpo suo.298

2.3.4 «Introduxit me in cellam vinariam, ordinavit in me caritatem»299.

L’attrattività di Dio ordina nell’anima la carità, e l’amore ordinato per le virtù rende ordinata l’anima stessa.300
Questo amore ordinato è l’amore del Crocifisso che su, in alto sulla croce, raccoglie e sottopone in un unico motivo le potenze e le operazioni dell’anima.301 Questo unico motivo, principio è l’onore di Dio e la salvezza del prossimo. L’anima fuori di questi non cerca l’altro. Questo principio ordina ogni parola, ogni pensiero, ogni atto dell’anima. Ella ama il prossimo suo per Dio. Dio, lo ama per Dio medesimo, che è il sommo bene, unico degno dell’amore. L’anima ama tutto e tutti gli altri solo per Lui ed in Lui. Questa «carità ordinata» è l’amore della virtù. Dio «trae a sé le potenzie dell’anima, con tutte le sue operazioni. Perché la memoria s’ è empita del ricordamento de’ beneficii, e della grande bontà sua; l’intelletto ha posto dinanzi a sé la dottrina di Cristo crocifisso, data a noi per amore; e però la volontà corre con grandissimo affetto ad amarla. Allora tutte le operazioni sono ordinate, e congregate nel nome suo.»302
Dico che l’ anima che [...] raguarda coll’occhio dello intelletto el cuore consumato e aperto per amore, ella riceve in sè tanta conformità con lui, vedendosi tanto amare, che non può fare che non ami. E allora diventa l’ anima ordinata, ché ciò ch’ama, ama per Dio, e neuna cosa ama fuore di lui; e così diventa un altro lui per desiderio, perocche non si truova altra volontà che quella di Dio.303
colui che in verità è privato dell’ amore sensitivo, ama il suo Creatore sopra ogni cosa, e il prossimo come sé medesimo. Il quale amore non può avere, che prima col lume dell’ intelletto non cognosca, sé medesimo non essere, e l’ essere suo ricognosca da Dio, e ogni grazia ch’ è posta sopra l’ essere. Allora, quando così dolcemente cognosce sé, e il difetto suo, e la bontà di Dio; odia il suo difetto, e il proprio amore che n’ è cagione; e ama la virtù; e per amore della virtù, la quale egli ama per amore del suo Creatore, si dispone a sostenere ogni pena, prima che offendere Dio e contaminare la virtù; e tutte le sue operazioni sono drizzate secondo Dio, e spirituali e temporali. E in ogni stato che egli è, ama e teme il suo Creatore. Onde, s’ elli ha le ricchezze e lo stato del mondo, e figliuoli, e parenti, e amici; egli possiede ogni cosa come cosa prestata, e non come cosa sua; e usale con modo, e non senza modo. E s’ elli è nello stato del matrimonio; sì vi sta ordinatamente, come a sacramento, avendo in riverenzia e’ dì che sono comandati dalla santa Chiesa. S’ egli ha a conversare con le creature e a servirle, elli le serve schiettamente, non col cuore finto, ma libero, avendo rispetto solamente a Dio. Egli ordina le potenzie dell’ anima sua, e tutti e’ sentimenti del corpo. Onde la memoria ordina a ritenere e’ benefici di Dio, e lo intelletto a intendere la sua volontà, la quale non vuole altro che la nostra santificazione; e la volontà dispone ad amare il suo Creatore sopra ogni cosa. Ordinate che sono le potenzie dell’ anima, sono ordinati tutti e’ sentimenti del corpo.304
Ci esorta Santa Caterina: «Non amate voi per voi, ma voi per Dio; né la creatura per la creatura, ma solo a loda e gloria del nome di Dio; n‚ amate Dio per voi, per vostra utilità, ma amate Dio per Dio, in quanto è somma bontà, degno d’ essere amato.»305 E questo amore ordinato fa «che
nella allegrezza non disordina, nè nella tristizia viene a impazienza: ma
tutto è maturo.»306 Questo amore però non solo garantisce l’unità della singola anima, ma è il fondamento del rapporto giusto pure tra gli uomini.
E perché l’anima è fatta per puro amore, l’ amore accorda le potenzie dell’ anima nostra, e legate insieme queste tre potenzie. La volontà muove l’ intelletto a vedere, volendo amare alcuna cosa: sentendo l’ intelletto che la volontà vuole amare, se ella è volontà ragionevole, l’ intelletto si pone per obietto l’ amore ineffabile del Padre eterno [...] ; e l’ obedienzia e umilità del Figliuolo, sostenendo con mansuetudine pene, ingiurie, strazii, scherni e villanie, [...] Legatevi, legatevi insieme, figliuoli miei, caritativamente; l’ uno sopporti e comporti e’ difetti dell’ altro; acciò che siate legati, e non sciolti, in Cristo dolce Gesù. Amatevi, amatevi insieme: ché voi sapete che questo è il segno che Cristo lassò a’ discepoli suoi, dicendo che ad altro non sono cognosciuti e’ figliuoli di Dio, se non all’ umilità dell’ amore che l’ uomo ha col prossimo suo in perfettissima carità. Ho avuta grandissima consolazione delle buone novelle dell’ unità ch’ io ho udita che avete insieme. Crescete.307
Quest’amore ordinato si manifesta nella creazione, in quanto le cose create sono ordinate al servizio dell’uomo308. Quest’ordinato amore edifica il bene comune, la società, perché Dio ha disposto i beni, le virtù particolari che gli uomini abbiano bisogno dell’aiuto altrui.
non dare a uno uomo, e a ogni uno a sè medesimo, il sapere fare quello che bisogna in tutto alla vita de l’ uomo; ma chi n’ à uno e chi n’ à un’ altro, acciò che l’ uno abbi materia per suo bisogno di ricorrire a l’ altro. Unde tu vedi che l’ artefice ricorre al lavoratore e il lavoratore a l’ artefice: l’ uno à bisogno de l’ altro, perchè non sa fare quello, l’ uno, che l’ altro. Cosí il cherico e il religioso à bisogno del secolare, e il secolare del religioso; e l’ uno non può fare senza l’ altro. E cosí d’ ogni altra cosa. E non potevo Io dare a ogni uno tutto? Sí bene, ma volsi con providenzia che s’ aumiliasse l’ uno a l’ altro, e costretti fussero di usare l’ atto e l’ affetto della carità insieme.309
Pure i beati vivono in questo amore ordinato, e per questo uno è lieto del bene dell’altro:
Se tu raguardi di sopra in me, Vita durabile, nella natura angelica e nei cittadini che sono in essa vita durabile, che in virtù del sangue dell’ Agnello ànno avuta vita eterna, Io ò ordinato con ordine la carità loro, ciò è che non ò posto che l’ uno gusti pure il bene suo proprio nella beata vita che egli à da me e non sia participato dagli altri. Non ò voluto così, anco è tanto ordinata e perfetta la carità loro, che il grande gusta il bene del piccolo, e il piccolo del grande. [...] O quanto è fraterna questa carità, e quanto è unitiva in me e l’ uno con l’ altro, perchè da me l’ ànno e da me la ricognoscono con quel timore santo e di debita reverenzia, che vedendo loro s’ affogano in me, e in me veggono e cognoscono loro dignità nella quale Io gli ò posti. L’ angelo si comunica con l’ uomo, cioè co’ l’ anime dei beati, e i beati con gli angeli. Sì che ogni uno in questa dilezione della carità godendo il bene l’ uno de l’ altro, esultano in me con giubilo e allegrezza senza tristizia, dolce senza veruna amaritudine, perchè mentre che vissero e nella morte loro gustarono me per affetto d’ amore nella carità del prossimo. Chi l’ à ordinato? La sapienzia mia con ammirabile e dolce providenzia.310

2.3.5 «[...] bibi vinum meum cum lacte meo. Comedite, amici, et bibite et inebriamini, carissimi»311

Lo Sposo dei Cantici invita i suoi amici a mangiare e bere insieme a Lui. In questo stato ordinato della carità l’anima «gusta il latte della divina dolcezza, ella si inebria del Sangue di Cristo»312. Lo stato dell’amor ordinato quindi è lo stato dell’ebbrezza. Lo Sposo invita i suoi cari alla mensa della santissima croce313 dove l’anima diventa ebbra dell’amore. Lo Sposo invita a mangare, a bere ed a inebriarsi quelli che non chiama più servi, ma amici suioi314.
Maria Maddalena è stata maestra e madre per Santa Caterina - come rispetto alle lacrime perfette così - anche rispetto all’ebrietà. La insegnava quella «dolcissima Maddalena» e «Maddalena amore», la quale «per vedere il maestro suo, ella allaga di sangue» e sotto la croce «s’inebria d’amore Maddalena, in segno che ella è inebriata del maestro suo»315.
La bevanda inebriante è il sangue di Cristo, di cui dice il Padre nel Dialogo che è «il sangue del mio Figliuolo il quale fu il vino che vi porse questa vite vera». «Questo sangue è uno vino che inebbria l’anima, del quale quanto più beie, più ne volrebbe bere, e non si satia mai, però che ‘l sangue e la carne è unita con lo infinito Dio.»316
Questa anima ebbra è colei che corre «morto» sulla via della verità, corre algli odori dei profumi,317 poiché pure Cristo ciò l’ha fatto: «O inestimabile dilectione e carità! Tu dimostrasti questo affocato desiderio e corristi come ebbro e cieco all’obrobio della Croce. Il cieco non vede e l’ebbro quando è bene avinacciato: così egli quasi come morto perdette sé medesimo, siccome cieco ed ebbro della nostra salute.»318

2.3.6 «Introduxit me in cellam vinariam»319

Lo Sposo dei Cantici ha introdotto la sua sposa nella cantina, nella «cella vinaria» che è il luogo dove l’anima si inebria del vino, del sangue del Figliuolo di Dio, dell’Agnello immacolato. Questa cantina è la cella spirituale che costruisce l’anima in sé per Dio, «la quale cella è un’abitazione che l’uomo porta seco dovunque va. In questa cella s’acquistano le vere e reali virtù»320poiché questo è il posto dove «l’orazione continua [...] unisce l’anima in Dio»321. Per amore ordinato l’anima «partesi della conversazione degli uomini, e fugge e ricovera in cella, cercando lo sposo suo, e abbracciandosi con esso in sul legno della santissima croce. Ine si bagna di lacrime e di sudori ed inebriasi del sangue del consumato ed innamorato Agnello: pascesi de’ sospiri, i quali gitta per dolci e affocati desideri. Or questa è vera e reale sposa»322. «In cella fa mansione con lo Sposo eterno, abbracciando le vergogne e le pene per qualunque modo gli concede; spregiando le delizie, lo stato e l’onore del mondo.»323 «In cella si notrica di sangue, ed unisce col sommo ed eterno Bene per affetto d’amore.»324
A causa dell’unità delle immagini di Santa Caterina possiamo dire che questa «cella vinaria» è pure il costato aperto di Cristo crocifisso (che si è fatto Ponte) di cui leggiamo le parole divine nel Dialogo: è il luogo «dove voi potiate vedere e gustare l’amore ineffabile che Io v’ ò, trovando e vedendo la natura mia divina unita nella natura vostra umana»325. E la Santa in questo senso parla della bottega del costato aperto di Cristo crocifisso e sollecita le sue figlie spirituali: «Or su, carissime figliuole, non stiamo più a dormire nel sonno della negligenzia, ma entriamo nella bottiga aperta del costato di Cristo crocifisso (dove noi roviamo il sangue) con ansietato dolore e pianto dell’ offesa di Dio.» 326 Ma la «cella vinaria» si riferisce alla Chiesa stessa. Il cellerario di questa cantina è il papa:
sai ch’ Io ti posi il corpo mistico della santa Chiesa quasi in forma d’ uno cellaio, nel quale cellaio era il sangue de l’unigenito mio Figliuolo, nel quale sangue vagliono tutti i sacramenti, e ànno vita in virtù di questo sangue. A la porta di questo cellaio era Cristo in terra, a cui era commesso aministrare il sangue, e a lui stava di mettere i ministratori che l’aiutassero a ministrare per tutto l’ universale corpo della religione cristiana.327

2.3.7 «Hortus conclusus sorror mea sponsa»328

Per l’amore ordinato l’anima diventa un giardino chiuso.
è chiusa, e non è aperta, cioè che non si diletta nelle delizie del mondo [...] e non si distende in piacere alle creature, ma solo al Creatore. E quando il dimonio le desse laide e diverse cogitazioni con molte fadighe di mente e disordinati timori, allora ella non s’apre, ponendoseli a investigare, nè a voler sapere perché vengano, nè a stare a contendere con loro; e non spande il cuore suo per confusione né per tedio di mente; né abbandona gli esercizi suoi. Anco si serra e si chiude colla compagnia della speranza e col lume della santissima fede.329
Ma la Chiesa stessa è un giardino: «il giardino de’ Cristiani, dove essi dilettano, e onde essi traggono la vita della Grazia» ,è un «glorioso giardino», di cui lavoratori siamo noi «ciascuno secondo lo stato suo»330.
E pure le comunità religiose sono giardini e i religiosi devono essere «fiori odoriferi piantati nel giardino della santa religione».

2.3.8 «mea sponsa»

Tuttavia l’anima che è nel cellaio ed inebriata dell’amore ordinato, che risponde all’invito dell’eterno Sposo, prima di tutto è sposa. Una sposa, che è fidanzata e aspetta le nozze, come Santa Caterina stessa dal momento del suo sposalizio mistico con il Signore aspettava il compimento promesso. Cristo infatti ha fatto la promessa a Santa Caterina che ella, dopo una vita santa, nel cielo avrebbe celebrato con il suo Sposo le nozze eterne: «Ecco: io ti sposo a me nella fede; a me tuo Creatore e Salvatore. Conserverai illobata questa fede fino a che non verrai in cielo a celebrare con me le nozze eterne.»331
Una lettera di Santa Caterina, scritta alla sua nipote, Nanna332 è basata sulla parabola delle dieci vergini333, poiché tutti gli uomini sono invitati alle nozze. L’anima nella sua vita o procede verso le nozze di Cristo, oppure verso quelle del demonio.334 Lo sposo è Cristo, l’umile ed immacolato Agnello, che correva verso la morte obbrobriosa della croce: «Egli è quello eterno Sposo che non muore mai: egli è somma sapienzia, somma potenzia, somma clemenzia e somma bellazza, in tanto che ‘l sole si maraviglia della bellezza sua. Egli è somma purità, in tanto che, quanto più l’anima che è sua sposa, s’accosta a lui, tanto più diventa pura e monda d’ogni peccato, e più sente l’odore della verginità.»335
Questo Sposo che lava «la faccia della sposa sua [...] nell’acqua del santo battesimo, il quale battesimo vale a noi in virtù del sangue: e il sangue gli fu colore, che fece la faccia dell’anima vermiglia, la quale era tutta impallidita per la colpa di Adam.»336 La sposa di Cristo crocifisso «è vulnerata di questa saetta della carità» e il suo cuore «ogni dì di nuovo gli sono gittate nuove, cioè saette d’ardentissima carità.»337
Questo Sposo veste la sua sposa «di sole di giustizia»338. Questa giustizia è «antica e nuova»339. Il vestito nuziale si fa nel fuoco del divino amore e ne veste l’anima il Sangue, poichè ha sparso il fuoco dell’amore di Dio: «O sangue dolce, tu la spogli del proprio amore sensitivo, el quale amore indebilisce l’anima che se ne veste; e a’la vestita del fuoco della divina carità, perché non può gustare te, sangue, che tu non la vesta di fuoco, perché tu fusti sparto per fuoco d’amore, acostandoti nell’ anima.»340 Questo vestito della sposa è adornato dalle veri e reali virtù.

Parmi che la prima dolce Verità t’ abbia mandati i messi ad annunziare le nozze, e a recarti il vestimento: e questi messi sono le sante e buone ispirazioni e dolci desiderii che ti sono dati dalla clemenzia dello Spirito Santo. Queste sono quelle sante cogitazioni che ti fanno fuggire il vizio e spregiare il mondo con tutte le delizie sue, e fannoti giugnere alle nozze delle vere e reali virtù. [...] vedi che le spirazioni sante di Dio ti recano il vestimento della virtù, fannotelo amare (e però ti vesti); ed invitati alle nozze di vita eterna. Perocché dopo il vestimento della virtù e della ardentissima carità séguita la Grazia, e dopo la Grazia la visione di Dio, dove sta la nostra beatitudine.341
tu sia vera sposa consegrata allo sposo, adornata e vestita di virtù. Sai, dilettissima mia figliuola, che la sposa, quando va dinanzi allo sposo, s’ adorna e si veste; e singularmente s’ adorna e pone el colore vermiglio, per piacere allo sposo suo. Così voglio che facci tu, che tu abi in te el vestimento della carità, senza el quale vestimento non potresti andare alle nozze, [...] voglio e comandoti che [questo dolce vestimento] tu me l’ adorni di fregiature, cioè della santa e vera ubedientia, essendo sempre oservatrice dell’ ordine tuo, sudita e obediente a madonna e alla più minima che v’ è. Tolle la virtù dell’ umilità, la quale nutricarà in te la virtù dell’ obedientia, riconoscendo e’ doni e le gratie che tu ài ricevute da lui. Fa’ che tu sia sposa fedele.342
La caparra delle «nozze di vita eterna» è il dolore sopra i peccati, il quale dolore adorna la sposa come fascio di mirra343.
promettovi così, di pigliare e’ miei e vostri [difetti], e faronne uno fascio di mirra, e porrommelo nel petto per continuo pianto e amaritudine, fondata in vera carità, ci farà pervenire alla vera dolcezza e consolatione della vita durabile. Perdonate alla mia presumptione e superbia. Racomandatemi e benedicete tutta la fameglia in Cristo Gesù. Pregolo che vi doni quella dolce etterna beneditione, e sia di tanta fortezza, che rompi e spezzi tutti e’ legami che vi tollessero lui. Permanete nella santa dilectione di Dio.344
Il rapporto di ogni cristiano - soprattutto dei sacerdoti e religiosi - con la verità è una relazione che si può esprimere con l’immagine del fidanzamento. L’essere sposi infatti è la sostanza di ogni cristiana relazione d’amore.
È sposa dunque pure la Chiesa: «la Sposa di Cristo»345 e la «dolce sposa» del «Cristo in terra» cioè del papa.
Prima di tutti è sposa Maria, «ella era vulnerata della saetta dell’ amore della nostra salute»346. La Beata Vergine Maria «come cera calda ha ricevuta l’impronta del desiderio e dell’amore della nostra salute dal suggello dello Spirito Santo»347.
Per mezzo di questa dolce Maria tutta l’umanità è diventata sposa: «Sposa fu fatta la creatura razionale quando Dio prese la natura umana»348. Santa Caterina esprime anche in una preghiera questo mistico sposalizio tra il Creatore e la creatura sottolineando pure il ruolo particolare di Maria: «lo sposo si unì alla sposa, cioè la divinità nel Verbo alla umanità nostra, e di questa unione fu mezzo Maria, che vestì te sposo eterno della sua umanità.»349
Dio quindi ha fatto tutta la generazione umana «sposa del Verbo del suo Figliuolo, il quale dolce Gesù la sposò colla carne sua, perocchè, quand’egli fu circonciso, tanta carne si levò nella circoncisione quanta è una estremitè d’uno anello, in segno che come sposo voleva sposare l’umana generazione»350.
In quanto proprio tutti siamo invitati ad essere sposi fedeli di Cristo, Santa Caterina pone la domanda: «E non sarebbe bene stolta e matta quell’anima che può essere libera e sposa, ed ella si facesse serva e schiava, rivendendosi al dimonio, e adultera?» - e risponde decisamente: «Certo sì.»351
2.3.9 «flores apparuerunt in terra nostra»352

Questa immagine dei Cantici - «i fiori sono riapparsi sulla nostra terra» - è particolarmente bella. Essa simboleggia l’avvicinamento dello Sposo e delle nozze eterne.
La prima Verità vuole «producere i fiori»353 scrive la Santa al suo padre spirituale e dice in un’altra lettera: «Orsù, figliuolo, non stiamo più in negligenzia, ché il tempo de’ fiori ne vene.»354 Santa Caterina sollecita di non dormire più «nel letto della negligenzia» poiché è il tempo da dare «la vita per lo Dio nostro, dove si terminano tutte le iniquità nostre. Questo dico per l’odore del fiore che comincia ad aprire»355. Appunto per la brevità del tempo esorta Caterina così: «Confortatevi in Cristo Gesù dolce amore: ché tosto vedremo apparire i fiori»356 «Tosto [...] verranno i frutti, poiché ‘l fiore comincia a venire.»357
Per concludere e riassumere le immagini attinti dai Cantici citiamo più a lungo dalla lettera scritta alla moglie di Bernabò Visconti:
Adunque correte, madre, e corriamo tutti fedeli cristiani, all’ obietto di questo sangue, dietro all’ odore suo. Allora diventaremo veramente ebri d’esso sangue, arsi e consumati nella divina dolce carità; fatti saremo una cosa con lui. Faremo l’ebrio, che non pensa di sé, se non del vino ch’egli ha bevuto e di quello che rimane a bere. Inebriatevi di sangue per Cristo crocifisso: poi che l’avete inanzi, non vi lasciate morire di sete; non ne prendete poco, ma tanto che voi v’inebriate, sì che perdiate voi medesima. Non amate voi per voi, ma voi per Dio; né la creatura per la creatura, ma solo a loda e gloria del nome di Dio; né amate Dio per voi, per vostra utilità, ma amate Dio per Dio, in quanto è somma bontà, degno d’essere amato. Allora l’amore sarà perfetto e non mercennaio. Non potrete pensare altro che di Cristo crocifisso, del vino che avete bevuto, cioè della perfetta carità, la quale vedete che Dio v’ha data e mostrata inanzi la creazione del mondo, inamorandosi di voi prima che voi fussi. Che se non si fusse inamorato, mai non v’averebbe creata. Ma, per l’amore ch’ egli v’ebbe vedendovi in sé, egli si mosse a darvi l’essere. Or qui si destendaranno i pensieri vostri in questa carità. Ben dico che pensarete in quello che è a bere, cioè aspettando e desiderando d’avere e gustare la somma eterna bellezza di Dio.358


1Vita, n.11
2Lett. 71. p. 588.
3Vita, n.14, p.26.
4Vita, n.10, p.23.
5Cf. Ap 20,1
6Vita, n.11, p.24.
7Vita, n.11, p.24.
8«Caritas igitur facit hominem Deo inhaere propter seipsum, mentem hominis uniens Deo per affectum amoris. [...] Fides ergo facit hominem Deo inhaerere inquantum est nobis principium cognoscendi veritatem [...], Spes autem facit Deo adhaerere prout est nobis principium perfectae bonitatis». ST, II-II, q. 17, a. 6.
9Cf. la legenda della santa martire Sofia.
10Cf. Lett. 281.
11Lett. 69.
12Dial. XLIII.
13Lett. 69.
14Lett. 56.
15Cf. Rm 1,17
16Cf. Vita n.145
17Vita n.115
18Cf. Mt 5,37
19Cf. San Tommaso: II-II, q. 4, a. 7
20Cf. Lett. 39; 157; 266.
21Lett. 350. p. 269.
22Diminutivo di pupula, a sua volta diminutivo di pupa, detta così dalla piccola immagine che si vede riflessa nell’occhio. N. Zingarelli, Vocabolario della Lingua italiana, Zanichelli, Bologna (1994)
23Cf. Lett. 173.
24Lett. 78.
25Lett. 102.
26Cf. Lett. 31.
27Cf. Lett. 88; 314.
28Lett. 233
29cfr. Lett. 123; Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XV, n.5 , p.18.
30Cf. Lett. 150; 354.
31Cf. Lett. 21; 173; 178; 343.
32Cf. Lett. 188.
33Cf. Lett. 341.
34Cf. Lett. 364.
35Cf. Gn 15,11
36Cf. Lett. 31.
37Cf. Lett. 15.
38Cf. Lett. 83.
39Cf. Lett. 39; 178.
40Cf. Lett. 344.
41Lett. 150.
42Lett. 69.
43Cf. Mt 17,19
44Lett. 32.
45Gc 2,26
46Cf. Lett. 154.
47Lett. 122.
48Lett. 85.
49Lett. 345.
50Cf. Lett. 343.
51Cf. Lett. 345; Rm 8,24
52Cf. Lett. 352.
53Lett. 346.
54Cf. Dial. LVI; CXXXVI,
55Cf. Lett. 343.
56Lett. 173.
57Cf. Lett. 169.
58Lett. 298.
59Lett. 85.
60Cf. Dial. CXLII,
61Dial. 151
62Cf. Lett. 345; G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XVII, n.1 , p.11-13.
63Lett. 352; Cf. Ger 17,5
64Dial. CXIX.
65Lett. 343, Cf.Dial. LXVI; CXXXVI.
66Dial. CXXXVI, p.434-435.
67Articoli riguardanti: Thomas Deman, «Pour une théologie de l’amour d’après l’Epistolario (spécialment la lettere 29 ed. Tommaseo)», in Studi Cateriniani, XI, (1935), p. 90-99; e delle tre gradi dell’amore: Garrigou - Lagrange, R., «La carità secondo S. Caterina da Siena» in Vita Cristiana, X, (1938), p.173-189.
68Cf. Cor 13,8
69 Cf. Lett. 16, 17, 36, 118, 187, 292, 320, 328, 340.
70Cf. Lett. 16, 36, 52, 97, 189, 207, 208, 225, 226.
71Cf. Lett. 345; 104.
72Dial. CLX.
73Cf. Lett. 161.
74Lett. 113; Cf. Lett. 86.
75Lett. 29; Cf. Lett.285.
76Lett. 29.
77 Cf. Oraz I, IV.
78 Cf. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), 87 in AAS 85 (1993), 1202: “Jesus (...) indicat libertatem amore effici, donatione scilicet sui. Is (...) libere Passioni occurrit (cf. Mt 26,46) et Patri in cruce oboediendo vitam pro omnibus hominibus dat (cf. Phil 2,6-11).
79Cf. Lett. 38, 113.
80Lett.108, p.964.
81Cf. Lett. 29; 62; 90; 112; 121; 143; 254; Dial. CXLI; CLV; CLIX.
82Lett. 29.
83Lett. 21; 173; 254.
84Cf. Lett. 69; Col 2,14
85Cf. Lett. 21
86Cf. Lett. 34.
87Cf. Lett. 38. p.976; 113; Dial. X; XCIII.
88Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano.p.46.
89 Dial. X.
90Cf. Lett. 223.
91Cf. Lett. 86; 88.
92L’Arcivescovo di Siena Monsignor Gaetano Bonicelli Cf. Roberto Romaldo, Messagera di Pace per gli uomini del nostro tempo, in Oss. Rom. , 5. Maggio 1996
93Cf. Fil 3,20
94Lett. 350. p.274.
95Lett. 310. p.195; Cf. Bel esempio dell’amore della patria che è nato dall’amore di Dio, la grande santa dei Francesi: Giovanna d’Arco.
96Cf. Lett. 3; 56; 58; 66; 68; 81; 90; 105; 120; 138; 154; 170; 184; 315; 329; 354.
97Lett. 299.
98Cf. Lett. 32; 49; 73; 101; 113; 141; 153; 154; 173; 173; 178; 199; 241; 304; 342; 351; 365; 366; 369.
99Cf. Lett. 366; 369.
100Cf. Lett. 292
101Cf. Lett. 188.
102Lett. 86.
103Lett.184, p.1522.
104Lett.184, p.1526
105Lett. 33; ICor 13,4-12
106Lett. 107
107Cf. II Cor 5,21
108Cf. Eb 5,8
109Cf. Fil 2,7
110Cf. Mt 8,20; Lett. 114; 64; 75; 87; 152; 217.f
111Cf. Lett. 258.
112Cf. Lett. 107.
113Cf. Lett. 96
114Lett. 77.
115Lett. 83.
116Lett.150, p.1394
117Cf. Lett. 184.........
118Cf. Lett. 37; 40; 48; 72; 76; 93; 95; 96; 107; 113; 119; 245; 289; 297; 267; 373; 355.
119Lett. 76.; Cf. Lett. 107; 200.
120Cf. Lett. 76; 150; 246; 289, 290; 294; 334; 378; 380.
121Lett. 82.
122Cf. Lett. 82.
123Cf. Lett. 282; 291; 293; 305, 310; 334; 373.
124Lett. 84.; Cf. 38; 44; 56; 64, 96; 264; 322; 352; 361; 380.
125Lett. 96.
126Lett. 173.
127Lett. 27.
128Cf. Dial. XV, 51
129 Cf. Dial. CLXIII, 568.
130Cf. T. Mazzei, Le virtù nel Dialogo Cateriniano, p. 28-29
131Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XVII, n.3 , p.12-14.
132Dial. CLV.
133Lett. 27
134Lett. 84.
135Lett. 84.
136Cf. Fil 2,8; Lett. 30; 36.
137Dial. CLIV.
138Lett. 30.
139Lett. 35.
140 Cf. Lett. 62.
141 Cf. Dial. CLXIII, 568.
142 G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XVII, n.3 , p.12.
143Lett. 118
144Lett. 217.
145Cf. Vita
146Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 , p.12-15.
147Lett. 30.
148Lett. 30.
149Lett. 36.
150Lett. 36; Cf.84.
151Lett. 84.
152Dial. CLC.
153Dial. CLIX, p.547
154Dial.LXXVII.
155Dial. XCV.
156Lett. 297.
157Lett.87) Dial. X
158Dial. CLV.
159Cf. Lett. 355.
160Cf. Lett. 1; 6.
161Rom 8,18
162Lett. 299.
163Lett. 355; Cf. Lett. 51
164Lett. 151.
165Lett. 151.
166Lett. 175.
167G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4, p.20.
168Lett. 109.
169Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 , p.17.
170G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 , p.18.
171Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4 , p.18.
172Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4, p.18.
173Lett. 226.
174Cf. Lett. 263; 113; 221; 246; 259.
175Cf. Lett. 263; 113; 221; 246; 259.
176Lett. 75.
177Lett. 173.
178Cf. Lett. 51; 88.
179Dial. CLIV.
180Cf. Lett. 14; 28; 29; 58; 61; 79; 93; 95; 171; 277; 286; 348; 373.
181Cf. Lett. 58.
182Cf. Lc 1,48.
183Cf. Mc 10,21
184Lett. 174. Cf. Cavallini, Le virtù in L’albero---A.XIV, n.4, p.20.
185 Cf. Lett. 30. p. 1062; 144. p. 994-997; Lett. 240. p. 804-805.
186Lett. 38. p. 879-880.
187 Cf. Lett. 363.
188Lett.266, p.749.
189Cf.G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XIV, n.4, p.18.
190Dial.CXXVIII, p.385.
191Lett. 82.
192Cf. Lett. 5, 31; 59; 88; 157; 258; 261; 277; 350.
193Lett. 82.
194Lett. 27.
195Lett. 173.
196Lett. 30.
197Lett. 373.
198Cf. Lett. 104.
199Lett. 51.
200Cf. Cavallini, G., Le virtù, in L'Albero della Carità, A.XIV, n.5, p.19
201Lett. 173.
202Lett.213, p.1007
203Dial. IX
204Lett. 213
205Lett. 173.
206Dial. CXLI.
207Lett. 153.
208Lett. 59; Cf.Lett.60; 85; 110; 301; 307; 313; Dial. XIV.
209Cf. Lett. 19.
210Cf. Lett. 307.
211Lett. 307.
212Cf. Lett. 310.
213Lett.184, p.1526.
214Dial. II.
215Cf. Lett. 168.
216Cf. Gn 19,11.
217Lett. 235.
218Lett. 121; Cf. Lett. 135; 291; 268; 338.
219Cf.. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XV, n.5, p.13.
220Cf. G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XV, n.4 , p.13-17.
221Cf. Lett. 367.
222Lett. 268.
223Dial. CXIX.
224Dial. CXIX.
225Dial. C.
226Cf. Vita,12; G. Cavallini, «Caterina madre e maestra delle anime. Le virtù», A.XXI, n.1 , p.10-13.
227Cf. Lett. 279.
228Cf. Dial. LIIIVIII.
229Cf. Sal, 50,9
230Cf. Lett. 67.
231Dial. CLI.
232Lett. 40.
233Cf. Lett. 26.
234Dial. LXXXIV.
235Cf. Mt 5,3; Dial. CLI.
236Cav. Introd. del Dial. P.XXIII
237Dial. CLI.
238Cf. Sequentia «Veni Sancte Spiritus»
239Cf. Lett. 79.
240Cf. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dives in misericordia, (30 nov 1980)
241Cf. Lett. 1.
242Cf. Lett. 89; 320; 1.
243Cf. Lett. 339.
244Lett. 336.
245Cf. Lett. 349. p. 432.
246Lett. 184. p. 1525.
247Cf. Lett. 96; 337; 1.
248Cf. Lett. 167.
249Lett. 349. p. 430.
250Dial. CLXVII, p. 583-584; 587.
251Vita n.118.
252Lett. 66. p. 1264.
253Cf. Vita n.12, n.114, n. 179-180.
254Cf. Ct 3,4
255Vita n.118-119. Cf. Ct 5,2-3.
256Cf. Lett. 16; 36; 37; 52; 61; 97; 139; 189; 206; 207; 208; 225; 240; 298; Lk 17,15
257Vita n.330. p.343, Cf. Ct 8,5
258Cf. Dial. I, p. 2.
259Lett. 215. p. 1093.
260Cf. Mk 10,8; 1Cr 6,16
261Dial. LXXXIV, p. 219.
262Lett. 263. p. 1680.
263Vita. p. 343.
264Vita n.331. p. 344.
265Vita n. 90.p.102.
266Cf. Lett. 184. p. 1525.
267Sap 7,25-26
268Cf. Gn 17,6
269Cf. IICor 11,2
270Gn 13,23.
271Cf. Ct 1,12
272Cf. Gn 4,8
273Cf. Gn 17,11
274Cf. Gn 13,34
275Cf. Ct 3,4
276Ct 4,8; cfr. Ct 2,13; 5,2; cfr. l’espressinone cateriniana: «Vieni diletta sposa mia»: Lett.66 p.1264:
277Lett. 276. p. 1657.
278Lett. 21. p. 1661.
279Lett. 276. p. 1657. Cf. 1,3
280Ct 1,3.
281Lett. 30. p. 1061.
282Lett. 137. p. 1550.
283Lett. 172. p. 1338.
284Lett. 276. p. 1657. Cf. 1,3
285Cf. Lett. 29; 73.
286Ct 1,3.
287Lett. 308. p. 1017.
288Lett. 16. p. 230.
289Lett. 8. p. 1312. Cf. Gn 19,28
290Lett. 97. p.992.
291Lett. 26. p. 817.
292Lett. 70. p. 1196.
293Lett. 16. p. 233.
294Lett. 29. p. 635.
295Dial. III, p. 7;cfr. Gn 6,44
296Cf. Gn 12,32; 34; Lett. 139; 286
297Lett. 263. p. 1680.
298Dial. CXLII, p. 460.
299Ct 2,4.
300Cf. Lett. 223.
301 Dial. XXVI, p. 70.
302Lett. 263. p. 1680.
303Lett. 97. p. 992.
304Lett. 244. p. 782.
305Lett. 29. p. 636.
306Lett. 351. p. 134.
307Lett. 95. p. 1553, 1556.
308Cf. Dial. XXVI, p. 70.
309Dial. CXLVIII, p. 492-493.
310Dial. CXLVIII, p. 494-495.
311Ct 5,1.
312Lett. 263. p. 1680.
313Cf. Lett. 57; 208.
314Cf. Gn 15,15.
315Cf. Lett. 61. p. 986.
316Cf. Lett. 208. p. 1214.
317Cf. Ct 1,3
318Lett. 224. p. 1245.
319Ct 2,4.
320Lett. 37.
321Cf. Dial. I, p. 9.
322Lett. 79.
323Lett. 86.
324Lett. 37.
325Dial. CXXVI, p. 375.
326Lett. 87. p. 949.
327Dial. CXV, p. 323. Cf. Lett. 270. p. 104; 291. p. 112.
328Ct 4,12.
329Lett. 113. p. 567; Cf. Lett. 12; 22; 138; 313; 321.
330Cf. Lett. 191. p. 338; vedi ancora: Lett. 16; 101; 145; 313.
331Vita n.115, p.129.
332Lett. 23. p. 813.
333Cf. Mt 25,2
334Cf. Lett. 318. p. 851.
335Lett. 81. p. 961.
336Lett. 81. p. 960; Cf. Ct 5,10.
337Cf. Lett. 97. p. 990-991; Ct 8,6.
338Cf. Lett. 26. p. 819; Ct 6,9; Ap 12,1.
339Cf. Lett. 227. p. 1270; Ct 7,13.
340Lett. 195.
341Lett. 72. p. 1558.
342Lett. 54.
343Cf. Ct 1,12.
344Lett. 24. p. 1492.
345Lett. 16. p. 233; Cf. Lett. 97.
346Lett. 30. p. 1061.
347Lett. 30. p. 1062.
348Lett. 143. p. 301.
349Oraz., XII p. 105.
350Lett. 262. p. 608; Cf. Lett. 35, 143.
351Lett. 262. p. 608.
352Ct 2,12.
353Lett. 280. p. 1168.
354Lett. 74. p. 1226.
355Lett. 131. p. 459.
356Lett. 16. p. 233.
357Lett. 218. p. 80.
358Lett. 29. p. 635-636.






«Corriamo, Corriamo, Corriamo, morte per la via della virtù»1





CONCLUSIONE




Ho cercato di esplicare la dottrina morale di Santa Caterina da Siena, «Sicura guida nel cammino verso la perfezione cristiana»2 come risposta fondata alle domande dell’uomo di ogni tempo. In conclusione possiamo affermare che, secondo l’ammaestramento della Santa, la virtù gioca un ruolo così rilevante nella vita morale che tutto l’impegno del cristiano deve imperniarsi sullo sforzo per acquistarla.
Con il nostro lavoro abbiamo messo in evidenza che la virtù non è affatto un elemento trascurabile nell’insieme dell’insegnamento cateriniano, è invece un concetto chiave per tutta la dottrina morale di Caterina.
Sintetizzando gli «efficaci ammaestramenti di Santa Caterina per la pratica delle virtù»3 possiamo dire che la virtù è una disposizione ferma ad agire bene, cioè agire in direzione del vero fine della vita. Senza questa disposizione positiva non si giunge alla vita eterna, poiché essa appartiene strettamente alla verità dell’uomo. La virtù non si acquista se non da Cristo crocifisso ma seguirla però è faticosa. Tuttavia la fatica della virtù non diminuisce la profonda gioia della vita virtuosa.
L’insegnamento di Santa Caterina sottolinea l’importanza dell’intervento soprannaturale di Dio nella storia dei singoli e di tutta la umanità. Dio entra nella storia degli uomini attraverso il suo Figlio, Gesù Cristo crocifisso. Vediamo che senza la luce del Verbo incarnato non conosciamo la verità di Dio e così non comprendiamo neanche noi stessi. «L’uomo continua anche oggi a essere un mistero per la ragione umana: un

mistero che solo la Rivelazione divina chiarisce in modo soddisfacente»4. La dottrina cateriniana ci indica un modo sicuro per poter rispondere alle domande fondamentali dell’esistenza umana. L’unica risposta che soddisfa gli interrogativi capitali è la dottrina e la persona stessa di Cristo. Chi siamo? Perché viviamo? Qual è il significato del dolore , del male, della morte? Solo in Cristo e per Lui siamo capaci di riconoscere ed anche compiere la verità di Dio. Questo cristocentrismo da un lato è una particolarità cateriniana che ho cercato di dimostrare nel secondo capitolo, dall’altro è una caratteristica costante della dottrina ecclesiale. In realtà è verità perenne che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistereo dell’uomo. [...] Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rilevando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. [...] Egli è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli d’Adamo la somiglianza con Dio, resa deforma già subito agli inizi a causa del peccato»5. Abbiamo sottolineato che per Santa Caterina il nome di Cristo crocifisso è il nome oltre di che né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi6. In Santa Caterina anche la dottrina delle virtù si inserisce in questo contesto.
Le virtù infatti non sono altro che le virtù di Cristo crocifisso, cioè l’amore infinito di Dio espresso in modo umano. Le virtù sono il mare infinito dell’amore per gocce. Non potremmo né conoscere, né imitare la perfezione di Dio se Cristo non ci insegnasse l’amore dalla cattedra della croce.
L’uomo, creato a immagine di Dio Amore, fa risplendere in sé l’immagine divina quando esercita liberamente l’amore per le diverse virtù che ha imparato da Cristo crocifisso. Ciò comporta implicitamente uno schema delle virtù, in cui le varie e ricche potenzialità dell’uomo appaiono riunite, attualizzate e dinamizzate – costituite in virtù – dall’amore di Dio. I figiuoli della carità l’umiltà, discrezione, giustizia, gratitudine, ecc. orientano la libertà umana all’amore. L’amore con cui Dio lo ama produce un nuovo amore, fede e speranza. Le vere e reali virtù non sono frutto dell’impegno umano, ma dono gratuito di Dio. Più esattamente secondo gli scritti di Santa Caterina la virtù è la risultante di due azioni: l’opera della creatura che (in virtù del sangue di Cristo) ha una libertà relativa ma reale per scegliere la strada dura delle virtù e l’opera del Creatore senza il quale l’uomo non è e non fa nulla.
Studiando la dottrina delle virtù, Santa Caterina risulta veramente dottore universale della Chiesa, poiché dimostra l’inscindibile unità della teologia (quella morale, dogmatica e spirituale). Solo l’accentuazione di tale unità rende fruttuoso l’insegnamento della Chiesa. Il prof. Haro scrive nel suo manuale di teologia morale: «La teologia morale non si può rinnovare senza ricuperare l’audacia della fede e la sua unità con la spiritualità e la dogmatica, così come si trova nei Padri e in San Tommaso»7, e possiamo aggiungere: «in Santa Caterina».
Oltre la sua unità, la dottrina cateriniana può offrire un aiuto al rinnovamento di una teologia morale, che oggi sta riscoprendo l’etica della virtù, in quanto ella riconcilia nel suo insegnamento delle virtù la tensione fra le due domande morali: Cosa devo fare? e Chi devo essere? Infatti la mèta della vita morale è unita per le virtù. Lo scopo pratico dell’impegno morale infati è: glorificare Dio e servire la salvezza del prossimo acquistando le virtù.
L’affermazione che la dottrina morale della santa senese, ed in particolare il suo insegnamento delle virtù, abbia qualcosa da offrire alla teologia moderna e all’uomo di oggi si prova anche partendo dall’attualità di S. Tommaso d’Aquino. L’attualità della teologia morale dell’Aquinate è ampiamente riconosciuta8e persino molti autori considerano l’insegnamento tomistico sulle virtù come il fondamento di una morale rinnovata. Se Tommaso è attuale quando insegna le virtù lo è anche Santa Caterina: anche se il compito scientifico di paragonare sistemeticamente la dottrina cateriniana delle virtù con la rispettiva dottrina tommasiana è ancora da svolgere, non si può negare (accanto alle divergenze) una coincidenza apparente.
Alla fine del mio studio vorrei sottolineare un motivo indiscutibile dell’attualità dell’insegnamento morale della Santa. Studiando infatti la dottrina delle virtù, sembrava particolarmente verificata l’universalità dell’insegnamento di Santa Caterina. Che è sempre (universalmente) attuale, anche oggi.
Ho parlato nell’introduzione del falso misticismo, oggi giorno così diffuso. L’ammaestramento cateriniano risulta una dottrina attualissima in quanto contraddice a una illusione moderna e irrazionale, secondo cui per l’uomo è possibile una autorealizzazione immanante compiuta per la «fede» in sé stesso9. Caterina parla della perfezione dell’uomo, ma questa è tutt’altra cosa che il cosiddetto «self improvement»: se vogliamo perfezionarci, dobbiamo realizzare in noi la verità di Dio.
Analizzando questa realizzazione della verità di Dio in noi ho messo in rilievo che l’aspetto interpersonale delle virtù non è affatto secondario nella dottrina di Santa Caterina. Ella ha annunciato, con la sua vita prima ancora che con le sue sagge parole, che non si acquistano le vere e reali virtù senza il prossimo. Anche per questo il messaggio di Santa Caterina ancora oggi ha molto da dire a tutti gli uomini di buona volontà.


Maria dolce e sua meravigliosa figlia, Santa Caterina, intercedino per noi presso Cristo, dolce Gesù, affinché possiamo essere buoni discepoli nella dolce scuola delle virtù, affinché solo Dio sia la nostra ricchezza, e con questa ricchezza (cioè con l’amore dell’amore) possiamo raggiungere le nozze eterne, l’eterno cantico dei cantici!
Gesù dolce, Gesù Amore!
1Lett., 30. p. 1061.
2I. Castellano, «Una preziosa guida nel cammino », in L’Osservatore. (09.02.’96) p.8.
3Paolo VI, Omelia, Tenuta nella Basilica Vaticana quando Sancta Catarina, vergine fu dichiarata dottore della Chiesa universale il 27.09.1970, in AAS, 62, (1970) p. 675 ss.
4 R. G. de Haro, La Vita Cristiana, Ed. Ares, Milano, (1995).
5Concilio Vaticano II, Cost. Past. Gaudium et spes, n. 22
6Cf. Act. 4,12
7 R. G. de Haro, La Vita Cristiana, Ed. Ares, Milano (1995), p.13.
8 Cf. P. Giovanni Battista Mondin, S.X., «Grandezza e attualità di S. Tommaso d’Aquino», in Seminarium, A. XXXVI, n. 1, (1996), p.109.
9Cf. Normann Vincent Peale, A pozitiv gondolkodàs hatalma, Tulsa, Oklahoma (1981)












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INDICE GENERALE


Prefazione 2

Abbreviazioni 3

Bibliografia 5

Introduzione 11

Capitolo I:
La creatura libera, rivestita delle virtù 22
1. Uomo, «la creatura che à in sé ragione» 22
1.1  L’anima spirituale, immagine della Trinità 22
1.2  L’unità dell’anima e del corpo 24
1.3  La verità di Dio e quella dell’uomo 25
2  Il concetto della virtù 26
2.1  All’inizio della storia umana 26
2.2  La «fortezza delle vere e reali virtù» 29
2.3  Le virtù perdute 36
3. La libertà: principio e conseguenza della virtù 41
3.1  Libertà dono della verità 41
3.2  La libertà originale 44
3.3  La perdita della libertà 45
3.4  Il Verbo incarnato, l’unico liberatore 47
3.5  Veramente liberi 51
3.6  Immagini della libertà 55
3.6.1  Il coltello della volontà 55
3.6.2  La roccaforte dell’anima 58
3.6.3  Il ponte, via della libertà e della virtù 59
3.7  Liberi per esercitare le virtù 65
4. Conclusioni 71


Capitolo II:
La dottrina di Cristo crocifisso 74
1.  Seguire Cristo crocifisso 74
1.1  L’unione con Cristo crocifisso 74
1.2  L’Alfa e l’Omega 80
1.3  L’unità delle virtù in Cristo crocifisso 86
1.4  La croce salvifica 90
1.5  Correre morto 93
1.6  Lacrime dell’amore 97
2.  La realizzazione della sequela di Cristo crocifisso 102
2.1  Conoscere per meglio amare 102
2.2  L’orazione, madre delle virtù 106
2.3  Il santo desiderio 109
2.4 Amare le virtù 113
2.5 La virtù provata per il contrario 115
2.6  Il prossimo 119
2.7  Maria dolce 125
3.  Conclusioni 128


Capitolo III:
Le virtù cateriniane nel servizio del prossimo 130
1.  La catena delle virtù 130
1.1 Le tre colonne dell’anima 131
1.1.1 La fede 132
1.1.2 La speranza 137
1.1.3 La carità 139
1.2 Le figliuole della carità 144
1.2.1 La perseveranza 145
1.2.2 L’obbedienza 146
1.2.3 La pazienza 151
1.2.4 L’umiltà 153
1.2.5 La sollecitudine 156
1.2.6 La discrezione e la giustizia 157
1.2.7 La purità 162
1.2.8 L’amore della povertà 164
1.2.9 La gratitudine 165


2.  La virtù dell’amore e Santa Caterina 167
2.1. La Sposa dei Cantici 167
2.2  Le parole conclusive 170
2.3 Le immagini e parole dal Cantico dei Cantici 172
2.3.1 «Veni [...] sponsa mea, veni » 172
2.3.2 «Trahe me, post te curremus [...]» 172
2.3.3 «Trahe me» 173
2.3.4 «[...] ordinavit in me caritatem» 174
2.3.5 «[...] bibite et inebriamini, carissimi» 177
2.3.6 «Introduxit me in cellam vinariam» 178
2.3.7 «Hortus conclusus sorror mea sponsa» 179
2.3.8 «mea sponsa» 180
2.3.9 «flores apparuerunt in terra nostra» 183

Conclusione 184

Indice Generale 188